PREFAZIONE
Mario, Matilde e Domenico Mucci
Nostro padre è morto il 27 gennaio 2003, in coincidenza con il “giorno della memoria”, istituito per celebrare la ricorrenza della liberazione del campo di sterminio nazista di Auschwitz nel 1945. Il 5 maggio di quell’anno fu liberato anche “il prigioniero Pierino Mucci” che, come migliaia di uomini della sua generazione, dopo essere stati inviati al fronte, all’indomani dell’8 settembre del 1943 furono protagonisti di uno dei primi atti di Resistenza, rifiutando di continuare a combattere per il fascismo al fianco della Germania nazista, e vennero rinchiusi come Internati Militari Italiani nei lager e nei campi di lavoro coatto del Terzo Reich.Da quella esperienza nacquero due diari, uno di guerra, l’altro di prigionia, in cui sono sinteticamente fissati tanti ricordi indelebili nella sua mente, che ripeteva in ogni occasione a quanti erano interessati ad ascoltare dalla sua viva voce le emozioni provate in quei difficili frangenti che resero tragica la sua giovinezza e segnarono il resto della sua vita.
La loro pubblicazione rappresenta per noi non solo un gesto d’amore, ma uno strumento indispensabile perché ci sia un passaggio di memoria tra generazioni diverse della nostra famiglia e di quanti altri avranno modo di leggere queste semplici e drammatiche righe, scritte in condizioni inenarrabili e scampate, non si sa come, alle distruzioni e ai bombardamenti. Sono righe appuntate da una persona che non aveva alcuna pretesa letteraria, ma aveva ben capito come la trascrizione quasi quotidiana delle emozioni e delle paure rappresentava una speranza di vita e un’àncora di salvezza.
Questi diari li conosciamo bene, sono parte integrante della nostra infanzia. Sono stati il nostro primo libro di lettura e, in fondo, rappresentano una storia triste, ma a lieto fine. Quando nostro padre ci raccontava della sua vita in pericolo, sentivamo anche noi la stessa paura incombere sulle nostre vite. Ci riempiva di gioia sentirlo ripetere affermazioni come “anche questa volta, grazie a Dio, me l’ho scampata”, dopo un bombardamento interminabile.La sua grande capacità di sopportazione delle sofferenze, alimentata costantemente dalla “speranza di riabbracciare i cari”, lo faceva apparire ai nostri occhi di fanciulli come un eroe. Poi la lettura del diario si concludeva con il canto di alcune poesie scritte dai suoi compagni di prigionia e riportate in fondo al diario di prigionia.
Come dimenticare i versi e il motivo di “Signorinella pallida”, del “Prigioniero sogna” o di “Tomori”? Ormai li conosciamo anche noi a memoria, anzi si può dire che da sempre fanno parte del nostro patrimonio genetico.
Rileggere queste pagine dopo tanti anni, ha provocato in noi un’emozione difficilmente esprimibile e ci ha fatto sentire ancora più vicini a nostro padre, da persone adulte che vogliono ravvivare un ricordo indelebile della loro infanzia.
La prigionia per lui è stata – se così si può dire – più disumana della stessa guerra, gli ha permesso di riflettere sulla sua vita e più in generale sulla storia di quegli anni e, in una lettera del 25 agosto 1944, di risposta al parroco di Urbisaglia Don Filippo Caraceni, gli fa dire che: “tutto è ignoto per noi poveri esseri gettati come foglie al vento nel turbine di una bufera senza precedenti, che minaccia di distruggere uomini e cose”.
Grazie, Babbo.
INTRODUZIONE di Marco Palmieri
Se è vero che “non esiste separazione definitiva finché esiste il ricordo”, per non separarci da nostro padre abbiamo voluto rinnovare la memoria di una parte della sua vita, unificando il dovere e il piacere della rievocazione storica e personale.I libri di storia sulle guerre talvolta presentano un limite. Le ricostruzioni politiche e militari della seconda guerra mondiale di cui abbonda la bibliografia, ad esempio, hanno chiarito a fondo l’evoluzione delle alleanze, le componenti economiche e ideologiche sottostanti, gli obiettivi degli eserciti, le strategie messe in campo, la dinamica delle battaglie, le truppe impiegate, le perdite subìte e via dicendo. Ma, per loro stessa natura, queste analisi potrebbero indurre il lettore a dimenticare un aspetto da cui non si può e non si deve prescindere nella conoscenza di quegli avvenimenti, vale a dire che dentro a quei fatti, dietro a quei numeri, ci sono degli uomini. Tanti uomini, che quelle battaglie le hanno combattute e ne hanno pagato il prezzo sulla propria pelle, con enormi sofferenze e fatiche, gravi mutilazioni e ferite e, non di rado, con la stessa vita. Ed è per questo motivo che i documenti che potremmo definire più intimi, più personali, più privati e attinenti al lato umano, come i diari – di guerra (6 novembre 1940-17 maggio 1941) e di prigionia (8 settembre 1943-21 giugno 1945) – del soldato marchigiano classe 1917 Pierino Mucci, la cui vicenda fu simile a quella di tanti altri giovani della sua generazione, sono una lettura e una fonte storica utile, e altrettanto importante.
Pierino Mucci era nato nel piccolo comune di Colmurano, in provincia di Macerata, il 29 giugno 1917 e viveva ad Urbisaglia, sempre in provincia di Macerata. Stava per compiere ventun anni quando, nel maggio del 1938, fu chiamato alle armi dal Regio Esercito, in un clima interno e internazionale davvero rovente. L’Italia fascista, infatti, aveva da poco invaso e annesso l’Etiopia proclamando – come aveva detto Mussolini parlando alla folla dal balcone di Palazzo Venezia la sera del 9 maggio 1936 – «la riapparizione dell’impero sui colli fatali di Roma».
L’attivismo italiano sul piano militare e del revisionismo dello status quo internazionale non era stato indolore per la stabilità dell’ordine in Europa, già minacciato da più parti. L’aggressione dell’Etiopia – ultimo grande Stato africano libero e indipendente, membro della Società delle Nazioni – aveva dato avvio a quella che è stata definita «l’era delle invasioni», che in breve tempo avrebbe sconquassato l’assetto scaturito dalla pace di Versailles all’indomani dell’immane ecatombe che era stata la prima guerra mondiale e avrebbe condotto inesorabilmente l’Europa e il mondo nel baratro di un nuovo conflitto globale e totale.
La seconda guerra mondiale ebbe ufficialmente inizio all’alba del 1° settembre 1939, quando le truppe tedesche invasero e – insieme a quelle dell’Urss – cancellarono in breve tempo la Polonia dalla carta geografica europea. Due giorni dopo l’inizio delle operazioni, l’Inghilterra e la Francia dichiararono guerra alla Germania nazista, ma per diversi mesi sul fronte occidentale le dichiarazioni formali non furono seguite da atti concreti e si rimase sospesi in una «strana guerra», dichiarata ma non combattuta.Infatti, nonostante la propaganda militarista desse risalto agli 8 milioni di baionette ben affilate e pronte a colpire di cui aveva parlato Mussolini, il divario qualitativo e quantitativo tra il potenziale bellico italiano e quello delle altre potenze era consistente. Della novantina di divisioni previste sulla carta, ne esistevano in realtà poco più di 70. E di queste meno di 20 erano realmente complete, mentre solo una trentina potevano essere considerate quantomeno efficienti. Anche l’armamento a disposizione delle truppe era scarso e antiquato. Basti dire che il fucile in dotazione era il “modello ’91”, così chiamato perché il suo modello originario risaliva al 1891. Per non parlare della mancanza di grandi mezzi corazzati, che avranno un ruolo rilevante su quasi tutti i fronti, di navi portaerei per garantire la necessaria copertura alla flotta e di aerei da combattimento davvero moderni (quelli disponibili erano stati avanguardistici negli anni Trenta, ma erano ormai superati e il loro sviluppo era per lo più rimasto fermo a quell’epoca). Perfino le divise e le attrezzature in dotazione ai soldati erano scadenti e inadeguate, come le famigerate scarpe di cartone, che ritroveremo anche nel diario di guerra di Pierino Mucci.
Le unità italiane, inoltre, erano per lo più appiedate, poiché le forze armate in procinto di entrare in guerra non disponevano di mezzi di trasporto in numero sufficiente. In Russia, ad esempio, dove si consumerà una delle maggiori disfatte, si arriverà alla tremenda pantomima delle divisioni definite trasportabili, nel senso che avrebbero potuto essere trasportate se qualcuno avesse dato loro i mezzi che non avevano. Altra nota dolente era poi rappresentata dalle scorte di carburante, fondamentali per alimentare una guerra moderna con un dispiego di mezzi meccanici mai visto prima, ma che però erano del tutto irrisorie, sufficienti solo per qualche settimana di operazioni, mentre il paese dipendeva quasi integralmente dalle importazioni. Ma più di tutto – a parte il fatto che Mussolini non ordinò la mobilitazione generale che sarebbe stata necessaria ad affrontare una grande guerra – la produzione industriale nazionale, afflitta anche dalla cronica carenza di materie prime, non era certamente in grado di sopperire in tempi brevi a questi limiti, né di stare al passo con quella delle altre grandi potenze belligeranti.
Ne derivò una momentanea situazione di compromesso, sulla posizione che fu definita della non belligeranza, con un espediente terminologico che serviva a non parlare esplicitamente di neutralità, poco in linea con lo spirito belligerante che il fascismo aveva propagandato e cercato di inculcare negli italiani. Il punto di svolta si ebbe nel 1940. Il 10 maggio, infatti, i tedeschi passarono improvvisamente all’offensiva sul fronte occidentale, travolgendo le deboli difese di Belgio, Olanda e Lussemburgo, e penetrando di sorpresa in Francia attraverso l’impervia zona montuosa delle Ardenne, ritenuta erroneamente impraticabile per le divisioni pesantemente corazzate di un grande esercito. E fu proprio grazie a questa mossa che le truppe della Wehrmacht in breve tempo riuscirono ad aggirare la Linea Maginot, con un’operazione detta Sichelschnitt, colpo di falce, che mise in ginocchio Parigi e il corpo di spedizione britannico inviato sul continente a difesa dell’alleato, poi fuggito attraverso la Manica da Dunkerque.Il pieno successo della Blitzkrieg tedesca e il repentino crollo francese suscitarono un’enorme impressione in tutto il mondo. A quel punto l’Italia fascista, confidando in una vittoria rapida e agevole da cui trarre vantaggi al tavolo della pace, ruppe gli indugi e si aggregò alla guerra scatenata da Hitler, tentando di invadere da sud la Francia di fatto già sconfitta (ma più che la marcia trionfale immaginata da Mussolini, fu la prova generale dell’impreparazione che avrebbe drammaticamente segnato tutta la partecipazione italiana alla guerra, fino al crollo finale).
Fino a quel momento gli italiani non erano apparsi particolarmente ansiosi di gettarsi a capofitto in una nuova avventura militare. Troppo vivo era il doloroso ricordo della Grande Guerra, mentre l’alleanza con la Germania nazista non era vista di buon occhio da molti. Fin dai primi mesi del 1940, però, la propaganda di regime aveva molto intensificato la sua azione e, come rilevano anche le relazioni dell’Ovra, la polizia politica fascista, che con le sue spie scrutava incessantemente lo spirito pubblico della popolazione, in primavera il livello di consenso alla guerra aveva cominciato a toccare punte considerevoli. Così, il 10 giugno del 1940, scoccò quella che Mussolini dal balcone di Palazzo Venezia definì «l’ora delle decisioni irrevocabili», annunciando l’ingresso dell’Italia in guerra.
Mussolini inizialmente aveva immaginato di poter condurre una «guerra parallela», autonoma e indipendente da quella tedesca, nell’area balcanica, nel Mediterraneo e in Africa, ritenute sfere d’influenza e di espansione italiana nel nuovo ordine mondiale che sarebbe scaturito dalla vittoria. Ma i nodi dell’impreparazione militare e della grave carenza di risorse vennero ben presto al pettine, specie quando cominciò ad essere chiaro che la guerra non sarebbe stata né breve, né facilmente vittoriosa. E così, mentre in Africa gli inglesi volgevano ovunque a proprio vantaggio la situazione, passando al contrattacco dall’Egitto verso la Cirenaica e spazzando via il tanto decantato impero dell’Africa orientale italiana conquistato nel 1936 con l’invasione dell’Etiopia, nell’area del Mediterraneo e dei Balcani il tentativo di invasione della Grecia dall’Albania, avviato nella data simbolo del 28 ottobre 1940, anniversario della marcia su Roma, non solo fallì, ma rischiò di tramutarsi in una clamorosa sconfitta.
La base di partenza per l’aggressione alla Grecia fu l’Albania, occupata nel 1938. Il piano militare prevedeva la rapida invasione dell’Epiro, tagliando i collegamenti con la Tessaglia e la Macedonia, per poi marciare su Atene e sul resto del territorio greco. All’inizio delle operazioni le forze italiane contavano 140.000 uomini in 8 piccole divisioni, di cui 4 in prima linea (3 nell’Epiro e una, la divisione alpina Julia, sul massiccio del Pindo); altre 2 divisioni furono spostate al fronte quando fu chiaro che la Jugoslavia non sarebbe intervenuta. L’offensiva però si arrestò dopo circa una settimana e all’inizio di dicembre i greci erano addirittura penetrati in territorio albanese.
Solo l’intervento tedesco, su tutti i fronti, consentì di ristabilire una situazione che per gli italiani si stava facendo critica, ridimensionando però le ambizioni del fascismo, che da quel momento in poi si trovò a dover spronare gli italiani a combattere una guerra che era ormai diventata meramente subalterna a quella dell’alleato nazista, di cui sappiamo il drammatico esito. La vicenda umana e militare di Pierino Mucci, narrata nelle pagine del diario di guerra che ci ha lasciato, si svolge su questo sfondo. Nominato autiere scelto nel maggio del 1940, infatti, in dicembre viene inviato al fronte, in Albania, con la 62ª Sezione Autoambulanze. La sua testimonianza coeva è preziosa, fermo restando la fisiologica sinteticità dei diari di guerra, la precarietà della situazione in cui essi vengono redatti, i limiti di tempo e di spazio a disposizione per annotare le proprie riflessioni, peraltro sotto un regime autoritario che punisce severamente chi non si dimostra pienamente allineato e favorevole alle sue scelte.
Più o meno esplicitamente, dalle annotazioni di Pierino Mucci ben traspare ciò che la partecipazione alla guerra è stata ed ha rappresentato per migliaia di italiani. A cominciare dalla partenza e dal viaggio verso la zona d’operazioni: «La notte del viaggio è triste, siamo sette navi in convoglio, io sto male… c’è in vista un sommergibile nemico, si apprende all’arrivo che una nave del convoglio è colata a picco» (5 dicembre 1940). Sul campo, poi, la situazione di caos e impreparazione è palese: «si arriva… più morti che vivi, troviamo per fortuna una tenda del Genio pronta e ce la imprestano, altrimenti noi non avevamo nulla per dormire… sono due giorni che non si mangia». E ancora: «la tenda è piena d’acqua, paglia non ce n’è e tre coperte sono poche, il freddo è intenso» (6 dicembre 1940). «Gli ospedali sono pieni… tutti congelati» (12 dicembre 1940). Di fronte a questa situazione la propaganda di regime comincia a perdere presa sugli uomini. «Nella ritirata – annota Pierino Mucci, palesando di essere consapevole di una realtà ben diversa da quella che la propaganda di regime vuole far credere agli italiani, parlando di ritirate strategiche – si perde circa 90 chilometri di territorio albanese… si ripiega sotto il tiro delle loro artiglierie».
E sono proprio le annotazioni come queste che, ricollocandoci sul piano della ricostruzione storica più generale della partecipazione italiana alla seconda guerra mondiale, consentono di mettere meglio a fuoco come per quella generazione di italiani, vissuti per vent’anni sotto il peso schiacciante della retorica, della propaganda, dell’educazione e del controllo di polizia del regime fascista, proprio la partecipazione alla guerra consente di aprire gli occhi e di ribellarsi, in vario modo e in varie forme, che possiamo far rientrare sotto la definizione ampia e articolata di Resistenza.
E una delle forme di Resistenza troppo spesso e troppo a lungo dimenticata, di cui Pierino Mucci è ancora una volta protagonista e sulla quale ci lascia un secondo diario che qui viene pubblicato subito dopo quello di guerra – fu il rifiuto in massa di oltre 600 mila militari italiani di continuare a combattere al fianco dei tedeschi o per il fascismo ricostituito sotto forma di Repubblica Sociale Italiana, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Il giorno dell’annuncio dell’armistizio Pierino Mucci, infatti, è a Tirana, dove viene fatto prigioniero dai tedeschi, disarmato e internato in un campo di lavoro coatto a Linz (Austria) per aver detto «no» al nazismo e al fascismo, al pari di migliaia di altri suoi commilitoni.
L’annuncio dell’armistizio avrebbe dovuto portare l’Italia fuori dalla guerra, ma precipitò il Paese – le cui forze armate lasciate senza ordini e direttive precise in patria e all’estero si sbandarono – nella feroce occupazione militare tedesca, nel lungo e durissimo confronto tra eserciti stranieri lungo la penisola e nella cruenta guerra civile tra italiani del periodo 1943-45. Ma fu anche l’inizio del riscatto nazionale grazie alla Resistenza e alla Guerra di Liberazione, che consentirono al Paese di prendere posto tra le nazioni democratiche vincitrici sul nazifascismo. A questo riscatto, oltre alla lotta partigiana, contribuirono anche altre vicende, come quella del Corpo italiano di liberazione schierato in prima linea al fianco degli angloamericani impegnati a risalire la penisola, l’adesione di tanti militari italiani alle formazioni partigiane in Grecia, Albania e Jugoslavia e, appunto, il rifiuto degli Internati militari italiani (Imi), che costò loro circa venti mesi di internamento e lavoro coatto nei lager nazisti.
La prima reazione della truppa e degli ufficiali sul campo alla notizia dell’armistizio fu di felicità, per l’erronea convinzione che l’accordo volesse dire la fine di una guerra disastrosa, disorganizzata, subalterna a quella dei tedeschi e soprattutto non più compresa. Non appena fu annunciato l’armistizio, però, i tedeschi misero in atto il piano già predisposto per questa evenienza e in breve tempo disarmarono il grosso delle forze armate dell’ex-alleato, deportando quasi tutti i militari catturati nei campi di concentramento e di lavoro del Terzo Reich. Gli ufficiali e i soldati italiani spesso si divisero tra una minoranza intenzionata a resistere ai tedeschi, e il grosso dei propensi a cedere armi e posizioni agli ex alleati per farla finita con una guerra di cui non ne potevano più. Quasi sempre le accese discussioni sul da farsi si conclusero con la resa, anche per via della guerra psicologica attuata dai tedeschi, che spinsero gli italiani a credere nella possibilità di un pacifico ritorno a casa in cambio della consegna delle armi.
In pochi giorni i tedeschi disarmarono e catturarono 1.007.000 militari italiani. Di questi, 196.000 scamparono alla deportazione dandosi alla fuga o grazie agli accordi presi al momento della capitolazione di Roma. Dei rimanenti 810.000 circa (di cui 58.000 catturati in Francia, 321.000 in Italia e 430.000 nei Balcani), oltre 13.000 persero la vita durante il brutale trasporto dalle isole greche alla terraferma e 94.000, tra cui la quasi totalità delle Camicie Nere della MVSN, decisero immediatamente di accettare l’offerta di passare con i tedeschi. Al netto delle vittime, dei fuggiaschi e degli aderenti della prima ora, nei campi di concentramento del Terzo Reich vennero dunque deportati circa 710.000 militari italiani con lo status di Imi e 20.000 con quello di prigionieri di guerra. Entro la primavera del 1944, altri 103.000 si dichiararono disponibili a prestare servizio per la Germania o la RSI, come combattenti o come ausiliari lavoratori.
In totale, quindi, tra i 600.000 e i 650.000 militari rifiutarono di continuare la guerra al fianco dei tedeschi e furono rinchiusi in numerosi campi di prigionia in Germania e nei territori occupati: Stammlager (Stalag) e loro dipendenze (Arbeitskommando, AK) per i soldati e i sottufficiali avviati al lavoro coatto; Offizierslager (Oflag) per gli ufficiali; campi di punizione (Straflager), di rieducazione al lavoro (AEL) o dipendenze dei campi di sterminio (KZ, Konzentrationszone) per i militari accusati di sabotaggio e presunti altri reati. Lo status mai utilizzato prima di Imi fu adottato su decisione di Hitler, il 20 settembre 1943, e fu un crudele stratagemma per sottrarre gli italiani alla tutela della Convenzione di Ginevra del 1929 valida per i prigionieri di guerra.
Dopo la cattura, il viaggio verso i lager avvenne in condizioni disumane, ammassati sulle lunghe tradotte composte da carri bestiame chiusi dall’esterno, e durò anche più di due settimane. Il viaggio fu funestato dalle terribili condizioni igieniche, dalla fame e dagli episodi di violenza dei tedeschi, spesso animati da desiderio di vendetta verso i disprezzati traditori.
Giunti nei lager, l’esperienza degli Imi fu più simile a quella dei deportati o dei lavoratori coatti che a quella degli altri prigionieri di guerra, per l’intensità e le modalità della persecuzione e per la pratica della spersonalizzazione (ciascun individuo venne trasformato in un mero numero di matricola inciso su una piastrina di riconoscimento accanto alla sigla del campo).
Gli ufficiali furono bersagliati dalla propaganda della RSI e da mesi di fame e di stenti. I soldati e i sottufficiali, invece, ricevettero di massima una sola volta la richiesta di adesione e in seguito al loro rifiuto in massa vennero avviati al lavoro coatto, che proseguì anche dopo la trasformazione in «lavoratori civili», formalmente liberi, in seguito all’accordo Hitler-Mussolini dell’estate del 1944. Durante questa esperienza gli Imi conducevano una vita spaventosa a causa della fame, del freddo, dell’assenza di assistenza sanitaria, delle pessime condizioni igieniche, dell’abbrutimento fisico e morale derivante dalla prigionia e delle drammatiche condizioni di lavoro. Particolarmente duro era il momento dell’appello, di norma due volte al giorno, che si svolgeva all’addiaccio, spesso senza esonero per gli ammalati. In molti casi la sopravvivenza era legata all’arrivo dei pacchi alimentari da casa, al mercato nero e alla solidarietà dei compagni.
Per i militari avviati al lavoro coatto la sveglia era prima dell’alba e, dopo l’appello, le colonne dei prigionieri venivano costrette a diversi chilometri a piedi per raggiungere i luoghi di impiego. Lavoravano anche 12 ore al giorno, per 6 giorni la settimana, spesso anche in caso di malattia, ma in caso di punizioni o esigenze particolari si arrivava anche a 18 ore per 7 giorni. Il lavoro si svolgeva a seconda dei casi in fabbrica, in miniera o nei campi, ma spesso gli Imi erano destinati anche allo sgombero di macerie e alla sepoltura delle vittime dei bombardamenti aerei. Frequenti erano le violenze dei carcerieri che li controllavano durante lo svolgimento delle attività assegnate.
Circa 50.000 internati trovarono la morte in queste condizioni. Il no all’adesione, dunque, fu una scelta tutt’altro che facile e a posteriori non si può non riconoscere il rilievo di autentica Resistenza che quella scelta di massa ebbe, fornendo un contributo concreto al crollo del nazifascismo e al successo della guerra di liberazione italiana ed europea sul piano militare, politico e culturale.
Anche in questo caso le pagine di diario di Pierino Mucci – in un diario più corposo e dettagliato di quello di guerra – sono una significativa e rilevante testimonianza. Esse infatti, annotazione dopo annotazione, riflessione dopo riflessione, restituiscono pienamente la drammaticità delle sofferenze patite dai militari italiani internati dai tedeschi, obbligati al lavoro coatto, in una condizione che uno di loro, Alessandro Natta, futuro segretario del Pci e autore di un libro significativamente intitolato L’altra resistenza, definì più vicina al deportato politico che al prigioniero di guerra.
Ecco un eloquente passaggio tra i tanti che si potrebbero citare, per i quali si rimanda alla lettura del diario: «Nevica e tira un vento forte. Io come al solito lavoro all’aperto per mezza giornata; poi il capo è costretto a portarmi al Lager poiché non ci vedo più: mi lacrimano gli occhi come una fontana, non riesco a tenerli aperti. Il Dottore mi ha riscontrato la congiuntivite causa del freddo… sono stanco di vivere così umiliato».
Il racconto, intenso e coinvolgente, oltre che istruttivo, si conclude il 17 giugno 1945. La guerra in Europa è finita già da qualche settimana e per gli Imi come Pierino Mucci è iniziato il lento è faticoso ritorno in patria: «Entriamo – annota l’autore, mettendo fine al prezioso documento che ci ha lasciato – e ci mettiamo in un vagone; si dice che si parte verso le ore 7 di questa sera e così è, via verso casa, finalmente».
Mario, Matilde e Domenico Mucci
Nostro padre è morto il 27 gennaio 2003, in coincidenza con il “giorno della memoria”, istituito per celebrare la ricorrenza della liberazione del campo di sterminio nazista di Auschwitz nel 1945. Il 5 maggio di quell’anno fu liberato anche “il prigioniero Pierino Mucci” che, come migliaia di uomini della sua generazione, dopo essere stati inviati al fronte, all’indomani dell’8 settembre del 1943 furono protagonisti di uno dei primi atti di Resistenza, rifiutando di continuare a combattere per il fascismo al fianco della Germania nazista, e vennero rinchiusi come Internati Militari Italiani nei lager e nei campi di lavoro coatto del Terzo Reich.Da quella esperienza nacquero due diari, uno di guerra, l’altro di prigionia, in cui sono sinteticamente fissati tanti ricordi indelebili nella sua mente, che ripeteva in ogni occasione a quanti erano interessati ad ascoltare dalla sua viva voce le emozioni provate in quei difficili frangenti che resero tragica la sua giovinezza e segnarono il resto della sua vita.
La loro pubblicazione rappresenta per noi non solo un gesto d’amore, ma uno strumento indispensabile perché ci sia un passaggio di memoria tra generazioni diverse della nostra famiglia e di quanti altri avranno modo di leggere queste semplici e drammatiche righe, scritte in condizioni inenarrabili e scampate, non si sa come, alle distruzioni e ai bombardamenti. Sono righe appuntate da una persona che non aveva alcuna pretesa letteraria, ma aveva ben capito come la trascrizione quasi quotidiana delle emozioni e delle paure rappresentava una speranza di vita e un’àncora di salvezza.
Questi diari li conosciamo bene, sono parte integrante della nostra infanzia. Sono stati il nostro primo libro di lettura e, in fondo, rappresentano una storia triste, ma a lieto fine. Quando nostro padre ci raccontava della sua vita in pericolo, sentivamo anche noi la stessa paura incombere sulle nostre vite. Ci riempiva di gioia sentirlo ripetere affermazioni come “anche questa volta, grazie a Dio, me l’ho scampata”, dopo un bombardamento interminabile.La sua grande capacità di sopportazione delle sofferenze, alimentata costantemente dalla “speranza di riabbracciare i cari”, lo faceva apparire ai nostri occhi di fanciulli come un eroe. Poi la lettura del diario si concludeva con il canto di alcune poesie scritte dai suoi compagni di prigionia e riportate in fondo al diario di prigionia.
Come dimenticare i versi e il motivo di “Signorinella pallida”, del “Prigioniero sogna” o di “Tomori”? Ormai li conosciamo anche noi a memoria, anzi si può dire che da sempre fanno parte del nostro patrimonio genetico.
Rileggere queste pagine dopo tanti anni, ha provocato in noi un’emozione difficilmente esprimibile e ci ha fatto sentire ancora più vicini a nostro padre, da persone adulte che vogliono ravvivare un ricordo indelebile della loro infanzia.
La prigionia per lui è stata – se così si può dire – più disumana della stessa guerra, gli ha permesso di riflettere sulla sua vita e più in generale sulla storia di quegli anni e, in una lettera del 25 agosto 1944, di risposta al parroco di Urbisaglia Don Filippo Caraceni, gli fa dire che: “tutto è ignoto per noi poveri esseri gettati come foglie al vento nel turbine di una bufera senza precedenti, che minaccia di distruggere uomini e cose”.
Grazie, Babbo.
INTRODUZIONE di Marco Palmieri
Se è vero che “non esiste separazione definitiva finché esiste il ricordo”, per non separarci da nostro padre abbiamo voluto rinnovare la memoria di una parte della sua vita, unificando il dovere e il piacere della rievocazione storica e personale.I libri di storia sulle guerre talvolta presentano un limite. Le ricostruzioni politiche e militari della seconda guerra mondiale di cui abbonda la bibliografia, ad esempio, hanno chiarito a fondo l’evoluzione delle alleanze, le componenti economiche e ideologiche sottostanti, gli obiettivi degli eserciti, le strategie messe in campo, la dinamica delle battaglie, le truppe impiegate, le perdite subìte e via dicendo. Ma, per loro stessa natura, queste analisi potrebbero indurre il lettore a dimenticare un aspetto da cui non si può e non si deve prescindere nella conoscenza di quegli avvenimenti, vale a dire che dentro a quei fatti, dietro a quei numeri, ci sono degli uomini. Tanti uomini, che quelle battaglie le hanno combattute e ne hanno pagato il prezzo sulla propria pelle, con enormi sofferenze e fatiche, gravi mutilazioni e ferite e, non di rado, con la stessa vita. Ed è per questo motivo che i documenti che potremmo definire più intimi, più personali, più privati e attinenti al lato umano, come i diari – di guerra (6 novembre 1940-17 maggio 1941) e di prigionia (8 settembre 1943-21 giugno 1945) – del soldato marchigiano classe 1917 Pierino Mucci, la cui vicenda fu simile a quella di tanti altri giovani della sua generazione, sono una lettura e una fonte storica utile, e altrettanto importante.
Pierino Mucci era nato nel piccolo comune di Colmurano, in provincia di Macerata, il 29 giugno 1917 e viveva ad Urbisaglia, sempre in provincia di Macerata. Stava per compiere ventun anni quando, nel maggio del 1938, fu chiamato alle armi dal Regio Esercito, in un clima interno e internazionale davvero rovente. L’Italia fascista, infatti, aveva da poco invaso e annesso l’Etiopia proclamando – come aveva detto Mussolini parlando alla folla dal balcone di Palazzo Venezia la sera del 9 maggio 1936 – «la riapparizione dell’impero sui colli fatali di Roma».
L’attivismo italiano sul piano militare e del revisionismo dello status quo internazionale non era stato indolore per la stabilità dell’ordine in Europa, già minacciato da più parti. L’aggressione dell’Etiopia – ultimo grande Stato africano libero e indipendente, membro della Società delle Nazioni – aveva dato avvio a quella che è stata definita «l’era delle invasioni», che in breve tempo avrebbe sconquassato l’assetto scaturito dalla pace di Versailles all’indomani dell’immane ecatombe che era stata la prima guerra mondiale e avrebbe condotto inesorabilmente l’Europa e il mondo nel baratro di un nuovo conflitto globale e totale.
La seconda guerra mondiale ebbe ufficialmente inizio all’alba del 1° settembre 1939, quando le truppe tedesche invasero e – insieme a quelle dell’Urss – cancellarono in breve tempo la Polonia dalla carta geografica europea. Due giorni dopo l’inizio delle operazioni, l’Inghilterra e la Francia dichiararono guerra alla Germania nazista, ma per diversi mesi sul fronte occidentale le dichiarazioni formali non furono seguite da atti concreti e si rimase sospesi in una «strana guerra», dichiarata ma non combattuta.Infatti, nonostante la propaganda militarista desse risalto agli 8 milioni di baionette ben affilate e pronte a colpire di cui aveva parlato Mussolini, il divario qualitativo e quantitativo tra il potenziale bellico italiano e quello delle altre potenze era consistente. Della novantina di divisioni previste sulla carta, ne esistevano in realtà poco più di 70. E di queste meno di 20 erano realmente complete, mentre solo una trentina potevano essere considerate quantomeno efficienti. Anche l’armamento a disposizione delle truppe era scarso e antiquato. Basti dire che il fucile in dotazione era il “modello ’91”, così chiamato perché il suo modello originario risaliva al 1891. Per non parlare della mancanza di grandi mezzi corazzati, che avranno un ruolo rilevante su quasi tutti i fronti, di navi portaerei per garantire la necessaria copertura alla flotta e di aerei da combattimento davvero moderni (quelli disponibili erano stati avanguardistici negli anni Trenta, ma erano ormai superati e il loro sviluppo era per lo più rimasto fermo a quell’epoca). Perfino le divise e le attrezzature in dotazione ai soldati erano scadenti e inadeguate, come le famigerate scarpe di cartone, che ritroveremo anche nel diario di guerra di Pierino Mucci.
Le unità italiane, inoltre, erano per lo più appiedate, poiché le forze armate in procinto di entrare in guerra non disponevano di mezzi di trasporto in numero sufficiente. In Russia, ad esempio, dove si consumerà una delle maggiori disfatte, si arriverà alla tremenda pantomima delle divisioni definite trasportabili, nel senso che avrebbero potuto essere trasportate se qualcuno avesse dato loro i mezzi che non avevano. Altra nota dolente era poi rappresentata dalle scorte di carburante, fondamentali per alimentare una guerra moderna con un dispiego di mezzi meccanici mai visto prima, ma che però erano del tutto irrisorie, sufficienti solo per qualche settimana di operazioni, mentre il paese dipendeva quasi integralmente dalle importazioni. Ma più di tutto – a parte il fatto che Mussolini non ordinò la mobilitazione generale che sarebbe stata necessaria ad affrontare una grande guerra – la produzione industriale nazionale, afflitta anche dalla cronica carenza di materie prime, non era certamente in grado di sopperire in tempi brevi a questi limiti, né di stare al passo con quella delle altre grandi potenze belligeranti.
Ne derivò una momentanea situazione di compromesso, sulla posizione che fu definita della non belligeranza, con un espediente terminologico che serviva a non parlare esplicitamente di neutralità, poco in linea con lo spirito belligerante che il fascismo aveva propagandato e cercato di inculcare negli italiani. Il punto di svolta si ebbe nel 1940. Il 10 maggio, infatti, i tedeschi passarono improvvisamente all’offensiva sul fronte occidentale, travolgendo le deboli difese di Belgio, Olanda e Lussemburgo, e penetrando di sorpresa in Francia attraverso l’impervia zona montuosa delle Ardenne, ritenuta erroneamente impraticabile per le divisioni pesantemente corazzate di un grande esercito. E fu proprio grazie a questa mossa che le truppe della Wehrmacht in breve tempo riuscirono ad aggirare la Linea Maginot, con un’operazione detta Sichelschnitt, colpo di falce, che mise in ginocchio Parigi e il corpo di spedizione britannico inviato sul continente a difesa dell’alleato, poi fuggito attraverso la Manica da Dunkerque.Il pieno successo della Blitzkrieg tedesca e il repentino crollo francese suscitarono un’enorme impressione in tutto il mondo. A quel punto l’Italia fascista, confidando in una vittoria rapida e agevole da cui trarre vantaggi al tavolo della pace, ruppe gli indugi e si aggregò alla guerra scatenata da Hitler, tentando di invadere da sud la Francia di fatto già sconfitta (ma più che la marcia trionfale immaginata da Mussolini, fu la prova generale dell’impreparazione che avrebbe drammaticamente segnato tutta la partecipazione italiana alla guerra, fino al crollo finale).
Fino a quel momento gli italiani non erano apparsi particolarmente ansiosi di gettarsi a capofitto in una nuova avventura militare. Troppo vivo era il doloroso ricordo della Grande Guerra, mentre l’alleanza con la Germania nazista non era vista di buon occhio da molti. Fin dai primi mesi del 1940, però, la propaganda di regime aveva molto intensificato la sua azione e, come rilevano anche le relazioni dell’Ovra, la polizia politica fascista, che con le sue spie scrutava incessantemente lo spirito pubblico della popolazione, in primavera il livello di consenso alla guerra aveva cominciato a toccare punte considerevoli. Così, il 10 giugno del 1940, scoccò quella che Mussolini dal balcone di Palazzo Venezia definì «l’ora delle decisioni irrevocabili», annunciando l’ingresso dell’Italia in guerra.
Mussolini inizialmente aveva immaginato di poter condurre una «guerra parallela», autonoma e indipendente da quella tedesca, nell’area balcanica, nel Mediterraneo e in Africa, ritenute sfere d’influenza e di espansione italiana nel nuovo ordine mondiale che sarebbe scaturito dalla vittoria. Ma i nodi dell’impreparazione militare e della grave carenza di risorse vennero ben presto al pettine, specie quando cominciò ad essere chiaro che la guerra non sarebbe stata né breve, né facilmente vittoriosa. E così, mentre in Africa gli inglesi volgevano ovunque a proprio vantaggio la situazione, passando al contrattacco dall’Egitto verso la Cirenaica e spazzando via il tanto decantato impero dell’Africa orientale italiana conquistato nel 1936 con l’invasione dell’Etiopia, nell’area del Mediterraneo e dei Balcani il tentativo di invasione della Grecia dall’Albania, avviato nella data simbolo del 28 ottobre 1940, anniversario della marcia su Roma, non solo fallì, ma rischiò di tramutarsi in una clamorosa sconfitta.
La base di partenza per l’aggressione alla Grecia fu l’Albania, occupata nel 1938. Il piano militare prevedeva la rapida invasione dell’Epiro, tagliando i collegamenti con la Tessaglia e la Macedonia, per poi marciare su Atene e sul resto del territorio greco. All’inizio delle operazioni le forze italiane contavano 140.000 uomini in 8 piccole divisioni, di cui 4 in prima linea (3 nell’Epiro e una, la divisione alpina Julia, sul massiccio del Pindo); altre 2 divisioni furono spostate al fronte quando fu chiaro che la Jugoslavia non sarebbe intervenuta. L’offensiva però si arrestò dopo circa una settimana e all’inizio di dicembre i greci erano addirittura penetrati in territorio albanese.
Solo l’intervento tedesco, su tutti i fronti, consentì di ristabilire una situazione che per gli italiani si stava facendo critica, ridimensionando però le ambizioni del fascismo, che da quel momento in poi si trovò a dover spronare gli italiani a combattere una guerra che era ormai diventata meramente subalterna a quella dell’alleato nazista, di cui sappiamo il drammatico esito. La vicenda umana e militare di Pierino Mucci, narrata nelle pagine del diario di guerra che ci ha lasciato, si svolge su questo sfondo. Nominato autiere scelto nel maggio del 1940, infatti, in dicembre viene inviato al fronte, in Albania, con la 62ª Sezione Autoambulanze. La sua testimonianza coeva è preziosa, fermo restando la fisiologica sinteticità dei diari di guerra, la precarietà della situazione in cui essi vengono redatti, i limiti di tempo e di spazio a disposizione per annotare le proprie riflessioni, peraltro sotto un regime autoritario che punisce severamente chi non si dimostra pienamente allineato e favorevole alle sue scelte.
Più o meno esplicitamente, dalle annotazioni di Pierino Mucci ben traspare ciò che la partecipazione alla guerra è stata ed ha rappresentato per migliaia di italiani. A cominciare dalla partenza e dal viaggio verso la zona d’operazioni: «La notte del viaggio è triste, siamo sette navi in convoglio, io sto male… c’è in vista un sommergibile nemico, si apprende all’arrivo che una nave del convoglio è colata a picco» (5 dicembre 1940). Sul campo, poi, la situazione di caos e impreparazione è palese: «si arriva… più morti che vivi, troviamo per fortuna una tenda del Genio pronta e ce la imprestano, altrimenti noi non avevamo nulla per dormire… sono due giorni che non si mangia». E ancora: «la tenda è piena d’acqua, paglia non ce n’è e tre coperte sono poche, il freddo è intenso» (6 dicembre 1940). «Gli ospedali sono pieni… tutti congelati» (12 dicembre 1940). Di fronte a questa situazione la propaganda di regime comincia a perdere presa sugli uomini. «Nella ritirata – annota Pierino Mucci, palesando di essere consapevole di una realtà ben diversa da quella che la propaganda di regime vuole far credere agli italiani, parlando di ritirate strategiche – si perde circa 90 chilometri di territorio albanese… si ripiega sotto il tiro delle loro artiglierie».
E sono proprio le annotazioni come queste che, ricollocandoci sul piano della ricostruzione storica più generale della partecipazione italiana alla seconda guerra mondiale, consentono di mettere meglio a fuoco come per quella generazione di italiani, vissuti per vent’anni sotto il peso schiacciante della retorica, della propaganda, dell’educazione e del controllo di polizia del regime fascista, proprio la partecipazione alla guerra consente di aprire gli occhi e di ribellarsi, in vario modo e in varie forme, che possiamo far rientrare sotto la definizione ampia e articolata di Resistenza.
E una delle forme di Resistenza troppo spesso e troppo a lungo dimenticata, di cui Pierino Mucci è ancora una volta protagonista e sulla quale ci lascia un secondo diario che qui viene pubblicato subito dopo quello di guerra – fu il rifiuto in massa di oltre 600 mila militari italiani di continuare a combattere al fianco dei tedeschi o per il fascismo ricostituito sotto forma di Repubblica Sociale Italiana, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Il giorno dell’annuncio dell’armistizio Pierino Mucci, infatti, è a Tirana, dove viene fatto prigioniero dai tedeschi, disarmato e internato in un campo di lavoro coatto a Linz (Austria) per aver detto «no» al nazismo e al fascismo, al pari di migliaia di altri suoi commilitoni.
L’annuncio dell’armistizio avrebbe dovuto portare l’Italia fuori dalla guerra, ma precipitò il Paese – le cui forze armate lasciate senza ordini e direttive precise in patria e all’estero si sbandarono – nella feroce occupazione militare tedesca, nel lungo e durissimo confronto tra eserciti stranieri lungo la penisola e nella cruenta guerra civile tra italiani del periodo 1943-45. Ma fu anche l’inizio del riscatto nazionale grazie alla Resistenza e alla Guerra di Liberazione, che consentirono al Paese di prendere posto tra le nazioni democratiche vincitrici sul nazifascismo. A questo riscatto, oltre alla lotta partigiana, contribuirono anche altre vicende, come quella del Corpo italiano di liberazione schierato in prima linea al fianco degli angloamericani impegnati a risalire la penisola, l’adesione di tanti militari italiani alle formazioni partigiane in Grecia, Albania e Jugoslavia e, appunto, il rifiuto degli Internati militari italiani (Imi), che costò loro circa venti mesi di internamento e lavoro coatto nei lager nazisti.
La prima reazione della truppa e degli ufficiali sul campo alla notizia dell’armistizio fu di felicità, per l’erronea convinzione che l’accordo volesse dire la fine di una guerra disastrosa, disorganizzata, subalterna a quella dei tedeschi e soprattutto non più compresa. Non appena fu annunciato l’armistizio, però, i tedeschi misero in atto il piano già predisposto per questa evenienza e in breve tempo disarmarono il grosso delle forze armate dell’ex-alleato, deportando quasi tutti i militari catturati nei campi di concentramento e di lavoro del Terzo Reich. Gli ufficiali e i soldati italiani spesso si divisero tra una minoranza intenzionata a resistere ai tedeschi, e il grosso dei propensi a cedere armi e posizioni agli ex alleati per farla finita con una guerra di cui non ne potevano più. Quasi sempre le accese discussioni sul da farsi si conclusero con la resa, anche per via della guerra psicologica attuata dai tedeschi, che spinsero gli italiani a credere nella possibilità di un pacifico ritorno a casa in cambio della consegna delle armi.
In pochi giorni i tedeschi disarmarono e catturarono 1.007.000 militari italiani. Di questi, 196.000 scamparono alla deportazione dandosi alla fuga o grazie agli accordi presi al momento della capitolazione di Roma. Dei rimanenti 810.000 circa (di cui 58.000 catturati in Francia, 321.000 in Italia e 430.000 nei Balcani), oltre 13.000 persero la vita durante il brutale trasporto dalle isole greche alla terraferma e 94.000, tra cui la quasi totalità delle Camicie Nere della MVSN, decisero immediatamente di accettare l’offerta di passare con i tedeschi. Al netto delle vittime, dei fuggiaschi e degli aderenti della prima ora, nei campi di concentramento del Terzo Reich vennero dunque deportati circa 710.000 militari italiani con lo status di Imi e 20.000 con quello di prigionieri di guerra. Entro la primavera del 1944, altri 103.000 si dichiararono disponibili a prestare servizio per la Germania o la RSI, come combattenti o come ausiliari lavoratori.
In totale, quindi, tra i 600.000 e i 650.000 militari rifiutarono di continuare la guerra al fianco dei tedeschi e furono rinchiusi in numerosi campi di prigionia in Germania e nei territori occupati: Stammlager (Stalag) e loro dipendenze (Arbeitskommando, AK) per i soldati e i sottufficiali avviati al lavoro coatto; Offizierslager (Oflag) per gli ufficiali; campi di punizione (Straflager), di rieducazione al lavoro (AEL) o dipendenze dei campi di sterminio (KZ, Konzentrationszone) per i militari accusati di sabotaggio e presunti altri reati. Lo status mai utilizzato prima di Imi fu adottato su decisione di Hitler, il 20 settembre 1943, e fu un crudele stratagemma per sottrarre gli italiani alla tutela della Convenzione di Ginevra del 1929 valida per i prigionieri di guerra.
Dopo la cattura, il viaggio verso i lager avvenne in condizioni disumane, ammassati sulle lunghe tradotte composte da carri bestiame chiusi dall’esterno, e durò anche più di due settimane. Il viaggio fu funestato dalle terribili condizioni igieniche, dalla fame e dagli episodi di violenza dei tedeschi, spesso animati da desiderio di vendetta verso i disprezzati traditori.
Giunti nei lager, l’esperienza degli Imi fu più simile a quella dei deportati o dei lavoratori coatti che a quella degli altri prigionieri di guerra, per l’intensità e le modalità della persecuzione e per la pratica della spersonalizzazione (ciascun individuo venne trasformato in un mero numero di matricola inciso su una piastrina di riconoscimento accanto alla sigla del campo).
Gli ufficiali furono bersagliati dalla propaganda della RSI e da mesi di fame e di stenti. I soldati e i sottufficiali, invece, ricevettero di massima una sola volta la richiesta di adesione e in seguito al loro rifiuto in massa vennero avviati al lavoro coatto, che proseguì anche dopo la trasformazione in «lavoratori civili», formalmente liberi, in seguito all’accordo Hitler-Mussolini dell’estate del 1944. Durante questa esperienza gli Imi conducevano una vita spaventosa a causa della fame, del freddo, dell’assenza di assistenza sanitaria, delle pessime condizioni igieniche, dell’abbrutimento fisico e morale derivante dalla prigionia e delle drammatiche condizioni di lavoro. Particolarmente duro era il momento dell’appello, di norma due volte al giorno, che si svolgeva all’addiaccio, spesso senza esonero per gli ammalati. In molti casi la sopravvivenza era legata all’arrivo dei pacchi alimentari da casa, al mercato nero e alla solidarietà dei compagni.
Per i militari avviati al lavoro coatto la sveglia era prima dell’alba e, dopo l’appello, le colonne dei prigionieri venivano costrette a diversi chilometri a piedi per raggiungere i luoghi di impiego. Lavoravano anche 12 ore al giorno, per 6 giorni la settimana, spesso anche in caso di malattia, ma in caso di punizioni o esigenze particolari si arrivava anche a 18 ore per 7 giorni. Il lavoro si svolgeva a seconda dei casi in fabbrica, in miniera o nei campi, ma spesso gli Imi erano destinati anche allo sgombero di macerie e alla sepoltura delle vittime dei bombardamenti aerei. Frequenti erano le violenze dei carcerieri che li controllavano durante lo svolgimento delle attività assegnate.
Circa 50.000 internati trovarono la morte in queste condizioni. Il no all’adesione, dunque, fu una scelta tutt’altro che facile e a posteriori non si può non riconoscere il rilievo di autentica Resistenza che quella scelta di massa ebbe, fornendo un contributo concreto al crollo del nazifascismo e al successo della guerra di liberazione italiana ed europea sul piano militare, politico e culturale.
Anche in questo caso le pagine di diario di Pierino Mucci – in un diario più corposo e dettagliato di quello di guerra – sono una significativa e rilevante testimonianza. Esse infatti, annotazione dopo annotazione, riflessione dopo riflessione, restituiscono pienamente la drammaticità delle sofferenze patite dai militari italiani internati dai tedeschi, obbligati al lavoro coatto, in una condizione che uno di loro, Alessandro Natta, futuro segretario del Pci e autore di un libro significativamente intitolato L’altra resistenza, definì più vicina al deportato politico che al prigioniero di guerra.
Ecco un eloquente passaggio tra i tanti che si potrebbero citare, per i quali si rimanda alla lettura del diario: «Nevica e tira un vento forte. Io come al solito lavoro all’aperto per mezza giornata; poi il capo è costretto a portarmi al Lager poiché non ci vedo più: mi lacrimano gli occhi come una fontana, non riesco a tenerli aperti. Il Dottore mi ha riscontrato la congiuntivite causa del freddo… sono stanco di vivere così umiliato».
Il racconto, intenso e coinvolgente, oltre che istruttivo, si conclude il 17 giugno 1945. La guerra in Europa è finita già da qualche settimana e per gli Imi come Pierino Mucci è iniziato il lento è faticoso ritorno in patria: «Entriamo – annota l’autore, mettendo fine al prezioso documento che ci ha lasciato – e ci mettiamo in un vagone; si dice che si parte verso le ore 7 di questa sera e così è, via verso casa, finalmente».
