La lettura di questo racconto di Bruno Doni provoca emozioni forti anche a chi, come chi scrive, per ragioni anagrafiche, non ha conosciuto la guerra, né vissuto la terribile angoscia di avere un congiunto partito per combattere lontano da casa, senza sapere se sia morto o vivo, se sia libero o prigioniero. La tragedia dei soldati italiani, spediti dal fascismo a combattere nelle steppe ghiacciate della Russia, con irresponsabilità e con cinismo, è una pagina tra le più sanguinose della storia nazionale del secolo XX: vi persero la vita molte migliaia di giovani, spesso morti nella neve di fame, di stenti, con gli arti congelati, più che nei combattimenti. Le poche migliaia che ebbero la fortuna di tornare, quando non portano nel fisico il segno di quella terribile avventura, lo portano nell'animo, per sempre ferito e scosso. Molte sono le famiglie che hanno atteso invano, per anni, il ritorno dei propri cari, senza sapere nulla di preciso: “disperso in Russia” è stata per decenni la dizione che ha accompagnato il nome di tantissimi militari del CSIR e dell`ARMIR, le sigle con cui fu chiamato l”esercito italiano in quelle lontane terre. Bruno Doni è uno di quelli che sono tornati: ha avuto fortuna ed è stato ingegnoso, ha capito quali erano le regole fondamentali per salvare la pelle, ha cercato di seguirle, il caso c la fortuna lo hanno aiutato, Si sa: la fortuna aiuta gli audaci. C'è una produzione letteraria molto fitta che riguarda la campagna di Russia e, soprattutto, la ritirata (mi piace citare, tra i tanti, un autore e un libro che rappresentano il meglio di quella memorialistica: Mario Rigoni Stern, che ha scritto “ll sergente nella neve”): in ogni racconto si parla degli stessi problemi, il freddo, la fame, la stanchezza, il rischio del congelamento. Doni, a differenza di altri compagni di sventura, si rende conto che il problema principale è trovare delle calzature che permettano di camminare abbastanza bene e di non farsi congelare i piedi: altri danno la precedenza al cibo, alle armi, e si ritrovano nell'impossibilità di camminare. Doni ha imparato la lingua russa ed è in grado di capire e farsi capire efficacemente e, poicè il proprio reparto si è smantellato, giudica che non conviene aggregarsi a qualche grossa colonna di fuggitivi, bensì è più saggio formare piccoli gruppi, cercare di tirare avanti facendosi notare il meno possibile, cercando comunque un terreno di collaborazione con i partigiani e con l'esercito russo: meglio la prigionia che essere massacrati dai tedeschi in fuga preoccupati solo di salvare se stessi, o uccisi dai partigiani che tentano di impedire, o di rendere più difficile, la ritirata. Ecco così che la storia della guerra e della ritirata diventa storia di prigionia e di lavori forzati, cla Stalingrado a una località della Russia asiatica, ai confini con la Cina, dove il clima è caldo come in Sicilia. E poi la fine della prigionia e il ritorno a casa, quando ormai tutti o quasi hanno perso le speranze di riabbracciarlo, dopo un lunghissimo viaggio in treno. Doni li ha contati tutti i giorni passati in treno, dal 1941 al 1945, sono ccntotre, tre mesi e mezzo! Non ci sono orpelli retorici nella narrazione, ma un linguaggio semplice e asciutto, che rende la lettura piacevole: sono i fatti raccontati a scandire il ritmo tragico degli awenimenti, a dare la dimensione di una storia faticosa che appartiene a tutti noi, che può aiutarci a guardare con consapevolezza e speranza verso un futuro migliore, dove taluni sbagli non si ripetano. In un momento storico dove, purtroppo, la Violenza, cieca e crudele, sembra impossessarsi di nuovo dell'umanità, la speranza è che racconti come questo di Bruno Doni siano di monito per tutti coloro che affidano alla violenza la soluzione dei propri problemi:è una strada sbagliata e senza sfondo. Prato, luglio 2005
Giuseppe Gregori
Il Dott. Giuseppe Gregori è nato a Carrara sessant’anni fa, dal 1978 vive a Prato. E’ stato segretario generale della Camera del Lavoro e Assessore comunale nella Giunta Romagnoli; ha pubblicato saggi di storia, di politica e di memorialistica. Nel 2011 ha esordito alla narrativa con una raccolta di racconti dal titolo: Le mie città.
Introduzione di Bruno DONI
Io sono uno di quel cinque per cento di soldati italiani che ritornò dalla prigionia russa DAL PODEREnel 1945-46: pensare che ogni cento prigionieri siamo tornati soltanto in cinque! Dopo tanto tempo e superati ormai gli ottant'anni, mi è venuta l”idea di scrivere la mia storia passata in quelle infinite steppe piene di neve e di ghiaccio. Racconterò cose personali, fatti e storie credibili per chi leggerà, non le cose incredibili, che furono tante, ma per il fatto stesso d'essere incredibili non vale la pena di raccontarle (è roba da censura). Su quella guerra e sulla spedizione contro la Russia qualcosa si e già scritto, ci sono dei libri sulla ritirata italiana e non ho intenzione di ripetere le stesse cose, anche se in qualche occasione vi accennerò sicura- mente. Mi soffermerò molto di più sui fatti e sulle cose che accaddero a chi rimase prigioniero senza riuscire a scappare dall'accerchiamento del nemico. Cercherò con parole semplici di spiegare come si moriva, il perché e come ci si poteva salvare, anche se quelli che alla fine si salvarono furono davvero pochi. Una cosa molto importante, che feci in poco tem- po, fu imparare a parlare il russo, come spiegherò nel corso del racconto.
Prato, gennaio 2005
Bruno Doni è nato a Grisciavola nel 1921.