Ieri festa con i figli: «Guerra e lager, sono ancora qua e faccio tutto da solo»
Grande festa
Ieri sera, a salutarlo e a festeggiarlo nel cortile di casa sua in via Braglio, oltre al parroco e al sindaco sono venuti alpini dei gruppi Ana di Malo e del Vicentino. Con loro ad abbracciarlo anche i figli Fernanda e Piero. Pettinà è stato artigliere alpino del gruppo Conegliano nel 1940, richiamato per partecipare alla campagna di Grecia. Occhi azzurri e risata pronta, alla sua età Giovanni «si fa ancora tutto, cucina da solo e vorrebbe pure occuparsi dell’orto» assicura il figlio, che vive al piano di sopra della casa ai bordi della campagna. Circa un anno fa Pettinà è passato alle cronache anche per un altro motivo, sempre legato alla divisa e alla guerra: gli è stata recapitata una lettera spedita ben 74 anni prima, nel 1944.
Le lettere di guerra
Una missiva inviata dalla sorella Maria al fratello prigioniero, che non aveva superato la censura del regime di Salò. Un ricercatore locale, Stefano Tortora, l’ha trovata e l’ha portata al legittimo destinatario: Maria e Giovanni l’hanno letta insieme, commossi. E delle altre lettere sono state consegnate in una serata che Paola Lain, sindaco del paese cantato da Luigi Meneghello in «Libera Nos a Malo», ha organizzato ad hoc. «Sono stato il primo a riceverla ma questo signore ne ha trovate altre trenta. Sono rimasto un po’ spiazzato, quella sera di una certa età c’ero solo io: tutte le altre lettere sono state consegnate a figli e nipoti» la butta in ridere Giovanni Pettinà.
I ricordi in Grecia
Nella cucina dell’alpino spiccano foto in bianco e nero. Tra queste una di un giovane militare italiano in divisa coloniale. «Lì avevo 26 anni – racconta Pettinà – dopo la partenza dalla Lombardia con carri e cannoni, attraversammo i Balcani in 12 giorni per arrivare ad Atene. Ci saremmo rimasti otto mesi». Inizialmente destinato all’Africa, Pettinà rimase coi commilitoni a fare la campagna di Grecia fino al 1943. «Ad un certo punto – ricorda – partimmo per tornare in Italia. Per strada perdemmo un carro armato, poi un trattore in una scarpata: ma non potevamo recuperarli, c’erano i partigiani greci che incalzavano. E una sera nel campo qualcuno iniziò a gridare: “L’armistizio, l’armistizio”. Lo sapemmo così. Gli ufficiali ci spiegarono le conseguenze. Avevamo tradito i tedeschi: uno a uno, ci chiesero chi voleva andare in Germania a combattere con loro. Ma nessuno voleva». Dopo poco, però, la scelta divenne forzata.
Catturato dai tedeschi
«I tedeschi ci catturarono e ci costrinsero ad andare con loro». I ricordi dell’alpino, da questo punto in poi, diventano amari. Nel campo tedesco – come altre centinaia di migliaia di italiani ridotti in semi-schiavitù – patì la fame, pur lavorando prima in uno zuccherificio e poi come raccoglitore di barbabietole. «Avevamo sempre lo stomaco vuoto. Ad un certo punto, per via di un accordo dei tedeschi col Duce, noi soldati costretti a lavorare diventammo formalmente liberi. Eppure da allora si mangiò ancora di meno. Ricordo una volta che riuscimmo a recuperare delle patate da un orto incustodito: le mangiammo a fette nella nostra baracca, scaldate crude sulla stufa, di nascosto dalle pattuglie all’esterno». Sul finire, i nazisti abbandonarono gli ex soldati italiani al loro destino. «Ci portarono di là del Reno e ci abbandonarono senza nulla. Ad un certo punto arrivarono gli americani. Ci offrirono le sigarette, ma noi non le volevamo: quello che ci serviva era del cibo». E poi, in qualche modo, Giovanni Pettinà riuscì a far la strada fino a casa, a Malo. «Pensare che inizialmente non dovevo fare il militare, alla visita avevano detto che ero gracile di costituzione. Eppure – la penna nera vicentina lo dice con un brillio divertito negli occhi chiari - sono ancora qua».