Nella notte tra il 9 e il 10 marzo 1945, gli abitanti di Tokio furono svegliati dall’inconfondibile rumore dei motori di aerei da bombardamento americani, che ormai con crescente frequenza sorvolavano quasi impunemente le città del Sole Levante, dalla potenza militare ormai al tramonto.
Ma nessuno di quelle decine di migliaia di donne, anziani e bambini – la maggior parte degli uomini era morta combattendo al fronte, o attendeva di morire nei bunker e nei ricoveri delle isole attaccate dai Marines e dalla US Navy, sempre più vicini al Giappone – poteva immaginare che i 300 giganteschi quadrimotori Boeing B-29 “Superfortress” che si avvicinavano alla città, inquadrando nei loro sistemi di puntamento il fragile alveare di case di bambù, legno e carta sottostante mentre aprivano le stive bombe, non avrebbero attaccato come d’uso le zone industriali portuali, ma avrebbero puntato verso le zone più densamente abitate dalla popolazione civile, scelte lucidamente dagli ingegneri e tecnici militari Usa perché più facili da bruciare.
E non potevano sapere – ma lo avrebbero scoperto orribilmente in pochi minuti – che le lunghe bombe che stavano per essergli sganciate contronon erano la normale combinazione di bombe a alto esplosivo e incendiarie, ma delle ancor più letali bombe a grappolo caricate di submunizioni al Napalm (ossia nafta gelificata), una delle più letali miscele incendiarie mai prodotte: sganciate poi da bassissima quota e quindi con efficacia molto maggiore, viste le poche difese della capitale, e non da alta quota come d’uso nei bombardamenti a tappeto.
Ondata dopo ondata, i bombardieri sganciarono quindi il loro carico di morte sulla città indifesa: le 1.600 tonnellate di submunizioni al Napalm perforarono facilmente i tetti in lamiera delle case nipponiche, detonando e investendo di gel incendiario uomini e cose. Il Napalm divorava sino all’osso la carne degli sventurati sui quali finiva, bruciando non solo sulla terra e le case ma anche sulla superficie dell’acqua dei fiumi e canali della città.
“Gli aerei riempivano il cielo come libellule”, ricorda Michiko Kiyoka, ora novantunenne, che perse il padre e la sorella nel bombardamento. “Dovunque posavi lo sguardo, si vedevano solo cadaveri carbonizzati”.