Trieste italiana: così una città divenne una bandiera

Occupata e divisa in due zone di influenza nel 1945, la Venezia Giulia fu al centro della prima fase della guerra fredda. L’area fu divisa in due macro zone di influenza: la zona A controllata dagli anglo-americani e la zona B dagli jugoslavi. Dal 1947 Gorizia e Monfalcone tornarono all’Italia, mentre l’Istria divenne definitivamente parte del territorio della Federazione Jugoslava. Anche la città di Trieste venne divisa in due zone e posta sotto l’amministrazione anglo-americana (AMG-FTT) o Territorio libero di Trieste, e sotto l’amministrazione di Belgrado (zona B-TLT). Dalla zona d’influenza jugoslava era partito l’esodo drammatico degli abitanti di etnia italiana (Istria, Dalmazia). Solo nel 1953, dopo anni di tensione e scontri per il ritorno all’Italia del capoluogo giuliano, gli Alleati diramarono un comunicato unilaterale (in copia solo all’Italia) in cui assicuravano il ritorno della zona A all’Italia, senza accettare ulteriori rivendicazioni jugoslave. Il fatto creò forti tensioni fra i blocchi, tanto che nei giorni successivi ci fu un concentramento di truppe ai rispettivi confini.

Il 4 novembre 1953, festa della Vittoria, i triestini valicarono il confine della TLT e manifestarono presso l’ossario di Redipuglia. Poco dopo fu issato il tricolore sul municipio, prontamente ammainato dagli inglesi. Ne seguirono gravi scontri che provocarono un morto tra i manifestanti. Il giorno dopo fu indetto lo sciopero generale e la polizia militare alleata sparò uccidendo cinque cittadini. Gli agenti avevano inseguito i manifestanti fin dentro la chiesa di sant’Antonio Nuovo e i soldati inglesi avevano sparato, due giovani erano stati uccisi. Il giorno dopo il bilancio salì a cinque morti e un centinaio di feriti. Ai funerali parteciparono 150 mila persone. Anche in quella occasione gli americani solidarizzarono con gli italiani contro i britannici e, prima di tutto, contro i comunisti jugoslavi. Il sangue di Piazza Unità d’Italia porterà, qualche giorno dopo, ai protocolli di Londra. La Jugoslavia accettava lo statu quo in cambio del finanziamento angloamericano nella zona portuale slovena (Fiume).

Il 26 ottobre 1954 ebbe luogo l’effettivo passaggio dei poteri. Il documento, fu sottoscritto dal Gen. De Renzi, Comandante del V Corpo d’Armata, dal generale britannico Winterton, Comandante delle Forze Alleate e comandante della Zona “A”, e dal generale statunitense Dabney, Comandante del contingente USA. All’Excelsior si sarebbe dovuta svolgere la cerimonia del passaggio delle consegne tra il generale De Renzi e Winterton. Il governatore uscente del Territorio Libero, che l’anno prima, il 5 e 6 novembre del 1953, aveva represso nel sangue la rivolta scoppiata il 4 novembre, dopo i festeggiamenti per l’anniversario della Vittoria a Redipuglia.

Così quella mattina del 26 ottobre 1954, il generale Winterton, che avrebbe dovuto mostrarsi in pubblico per l’ultima volta, non si presentò alla cerimonia. Venne accolto invece tra gli applausi il generale americano Dabney. Winterton aveva interpretato con troppo zelo, in modo perfino maldestro, il cambio di atteggiamenio del suo governo nei confronti di Tito, da quando questi aveva rotto con Stalin, decisione in seguito alla quale era diventato corteggiatissimo. Così quella mattina Winterton dovette ricorrere alla puerile scusa di dover partire prima del previsto perché c’era cattivo tempo. Non scampò comunque ai fischi dei triestini, che accompagnarono l’incrociatore Whirlwind, mentre usciva dalla rada, mentre lui era a bordo.

Erano passati nove anni da quando il 1° maggio 1945 i partigiani di Tito erano entrati nella cíttà, decisi a rimanervi e con l’intenzione di far arretrare il confine italiano fino all’Isonzo se non fino al Tagliamento, con un giorno e mezzo di anticipo sull’8a armata britannica, entrano a Trieste. I primi atti dei partigiani di Tito e dei loro servi comunisti “italiani” (come se un italiano potesse essere comunista) furono da predatori: svuotarono le casse della Banca d’Italia, saccheggiarono le case, violentano, il 5 maggio falciano a colpi di mitragliatore cortei dove sventola il tricolore, danno vita a sequestri in massa di sventurati, di notte scaricati vivi nelle voragini carsiche. Le urla degli agonizzanti si levavano dalle viscere della terra per giorni, chi udiva fingeva di non sentire, ai sopravvissuti che aggrappandosi ad un ramo o ad un sasso, a qualunque cosa che potesse trattenerli dall’abisso venivano buttate addosso fascine di paglia incendiate. A migliaia finirono nelle foibe del Carso, oltre 5mila secondo una stima minima, 23mila come cifra totale ultima secondo la valutazione più diffusa.

Un terrore durato anni e divenuto sistematico nei 40 giorni di occupazione di Trieste. Uno sterminio etnico esteso a tutte le zone di fatto annesse dal regime di Belgrado e che determinò l’esodo di 350.000 italiani dell’Istria e Dalmazia, che cercarono riparo in Patria e che, dopo aver dovuto abbandonare le loro case e i loro beni, vennero accolti dall’ostilità dei comunisti italiani, e non solo dalla loro, che al pari di quelli di Tito li bollarono come fascisti, sebbene la loro colpa fosse quasi sempre solo quella di essere italiani. Ecco perché la città si riversò nelle strade per osannare i nostri soldati, ripetendo le manifestazioni di giubilo del 1918.

Ecco una testimonianza del 1954: “Sui tetti delle case vicine, alle finestre, agli abbaini ed in qualunque luogo si potesse scorgere il mare c’era gente che guardava ed agitava bandiere, nastri, drappi e fazzoletti bianchi rossi e verdi. Una folla immensa sotto la bora e la pioggia violenta (…) Era un urlo continuo: “Giungono! Arrivano! Ecco le navi! Ecco i Bersaglieri!” E via, un correre da una parte all’altra per vedere i nuovi arrivati …. che spesso non erano affatto arrivati! Finalmente apparvero davvero le navi. Fra gli spruzzi delle onde apparve un caccia, poi l’incrociatore e poi ancora gli altri due caccia. La gente sembrava impazzita; era tutto un gridare, un agitarsi forsennato. Undici anni di attesa, undici anni di ansia sfociavano in un immenso grido, in uno slancio incredibile ed inimmaginabile per chi non lo abbia vissuto, verso le navi della Patria che giungevano in porto. Intanto da terra giungevano i Bersaglieri. Oltre un’ora avevano impiegato con gli autocarri per fare sì e no un chilometro o poco più. Non c’erano più cordoni, non c’era più limite a trattenere l’entusiasmo. Gli autocarri erano zeppi di Triestini. Erano entrati dappertutto; ed i poveri soldati pigiati dentro, mezzo soffocati dal grande abbraccio di tutto un popolo! Come riuscissero a guidare gli autisti è una cosa che non potrò mai spiegare. Sul cofano, sui parafanghi, sull’imperiale, ovunque ci fosse il più piccolo appiglio c’era arrampicato un giovane o una ragazza. Ogni tanto appariva qualche cappello da Bersagliere ed una mano toglieva le penne per donarle ai molti, ai troppi richiedenti. Quanti Bersaglieri ho visto senza la minima traccia di penne sul cappello. Qualcuno di rimise il cappello, altri la giubba. Di bottoni sulle giubbe ne rimasero pochini perché ogni cittadino pretendeva un ricordo dal primo soldato che riusciva ad avvicinare. E gli autisti continuavano a guidare, un metro alla volta. Ora però mi viene il dubbio che i motori non fossero neppure in moto, perché avanzavano fra la folla più folta, forse spinti dalla folla stessa, senza la minima possibilità per il guidatore di vedere la strada …. che dico la strada, ma neppure l’aria davanti a lui. Se non sconquassarono le balestre i camion con tutta quella gente arrampicata in ogni dove, si deve certamente attribuire al fatto che le dovevano avere rinforzate”.

Festa ancora più grande fu il 4 novembre, alla presenza del Capo dello Stato Einaudi, si fece una grandiosa, parata militare sulle Rive. Fu conferita alla città la Medaglia d’Oro al Valore Militare, con una motivazione che abbraccia un arco di tempo che va dal 1848 fino al 1954. Ma perché alla fine Trieste fu l’unica delle “città contese” a non passare di mano? La guerra fredda, che già nel 1945 contrapponeva gli ex alleati, permise infatti agli italiani di sfruttare i conflitti tra i vincitori: gli angloamericani, che all’inizio gli erano stati favorevoli, presero allora le distanze da un Tito che nel 1945 era forse il campione più determinato dell’Urss e delle politiche staliniane. Ciò rese possibile agli italiani difendere Trieste, cosa facilitata dalla sua vicinanza geografica all’Italia. Da questo punto di vista, fu un bene che i conflitti tra Tito e Mosca scoppiassero solo nel 1948. Se fossero scoppiati prima, e gli alleati avessero assunto prima una posizione filo-jugoslava, è probabile che Trieste sarebbe caduta nelle mani di Tito.

La svolta del 1948, che peggiorò sensibilmente la posizione italiana, fu invece determinante nel decidere delle sorti dell’entroterra, e quindi delle limitatissime dimensioni dell’insediamento italiano, ridotto al territorio urbano e alla piccola striscia che lo collegava al “corpo della nazione”. Trieste si ritrovò così ancora italiana, ma separata dai territori cui era stata tradizionalmente legata, e quindi costretta a vivere una vita difficile, se paragonata al grande sviluppo precedente. Questa mutilazione ignobile non poteva passare inosservata, e non passò. Nei triestini, in quei giorni, le lagrime di gioia per avere ritrovato la Patria, si confondevano con quelle di dolore per la sorte dei fratelli istriani, giuliani e dalmati.

La descrizione di questi sentimenti è resa dalle parole del Sindaco Gianni Bartoli: “E’ la Madre che ritorna per farci vivere liberi con le sue leggi … la prima tappa è stata vinta contro tutto un mondo di interessi, di odio e di ipocrisia. . .e la meta è stata Trieste; la seconda tappa sarà vinta con un lavoro paziente nella realtà di un’Europa unita e di un Adriatico rappacificato (…) e la meta è l’Istria. Che la giornata di oggi sia: di elevazione a Dio per averci ridato la Patria; di commossa memoria per i Caduti e per i Martiri, che ci hanno eroicamente segnato il cammino; di conforto agli assertori della fede italiana, da Zara a Capodistria, che piangono nell’esilio; di caparra sicura per un non lontano avvenire di Libertà per tutti i Giuliani”.

La repubblicuzza nata dalla disfatta e da una truffa elettorale risponderà anni dopo con il trattato di Osimo. Per chiudere, voglio citare un grande un triestino, irredentista, volontario, Sottotenente dei Granatieri di Sardegna combattente del Carso ed eroe del Monte Cengio, Giani Stuparich, Medaglia d’Oro al Valore Militare e grandissimo scrittore come il fratello Carlo, suicidatosi per non cadere in mano austriaca, o l’amico Scipio Slataper: “L’Amore della Libertà e l’Amore di Patria sono due sentimenti basilari dell’uomo civile, e chi non li ha non sarà mai buon cittadino, né della propria nazione, né dell’Europa, né del mondo. Qualcuno oggi farebbe bene a ricordarselo. Soprattutto su quel confine dove finisce la repubblica italiana ma dove l’Italia continua.

Pierluigi Romeo di Colloredo Mels