Nato a Montemurlo, il 27 aprile del 1922
Mi arrivò la cartolina di leva nel 1942. Fino al luglio rimasi a Firenze nella Divisione Firenze.
Successivamente Fui trasferito in Macedonia ad un ospedaletto da campo, il n.° 839, facevo parte della Sanità.
L’8 settembre mi trovavo ad Elbasan in Albania. Gli ufficiali prima ci dissero che si ritornava in Italia perché la guerra era finita, invece ci misero tutti in colonna con altri reparti di soldati italiani. Facemmo tutta la strada a piedi dall’Albania alla Bulgaria. Avevamo solo qualche galletta per mangiare, ci si fermava ogni trentacinque, quaranta chilometri e se si aveva la fortuna di trovare una fonte era festa perché la fame e la sete erano grandi. Arrivati in Bulgaria gli ufficiali italiani ci consegnarono ai Tedeschi che ci presero come prigionieri e ci disarmarono.
Dopo qualche giorno ci caricarono su vagoni bestiame, senza mangiare, tutti pigiati, per la sete quando il treno si fermava alle stazioni si alzava la borraccia per farsela riempire dalla pompa che riforniva la motrice del treno. Quell’acqua fu la nostra salvezza in quel tragico viaggio durato dieci giorni e indici notti, senza potersi mai distendersi. Per fare le necessità corporali era un problema ed eravamo pieni di pidocchi.
Arrivammo a Dusseldorf in Germania e, per arrivare al campo di concentramento, stremati e affamati facemmo dodici chilometri a piedi. Sul cancello del campi una scritta con questa frase “Perdete ogni speranza voi che entrate”. Era la pubblicità per indurre i soldati a collaborare con i tedeschi. Prima di entrare ci presero tutto, orologi, scarpe, portafogli, tutto quello che aveva un certo valore. Si iniziò a lavorare nel campo, si dormiva sulle tavole con una copertina, per riscaldarsi si dormiva in due con una coperta sotto ed una sopra. Per mangiare un pane di due chili per sei prigionieri, qualche patata e una brodaglia di cavolo.
I lavori erano: sotterrare le patate nelle fosse che poi venivano ricoperte con paglia e terra e il Volga –Volga, che consisteva nel portare via il bottino su un carro grande trainato a mano da otto persone e rovesciare il contenuto puzzolente in un campo dove c’era tanta mota.
A febbraio 1944 feci la domanda, pur essendo nella sanità, di poter andare a lavorare in una polveriera esterna al campo dove si costruivano dei capannoni per deposito di bombe, speravo che il lavoro fosse più leggero e il cibo migliore, ma non fu come speravo, il lavoro era duro e il mangiare pochissimo e cattivo.
Il 27 aprile del 1945, era il mio compleanno, arrivarono le truppe inglesi e ci liberarono: dalla fame assaltammo le cucine e così ci siamo sfamati.
Appena arrivati in Italia salimmo sui vagoni merci, al Brennero ci diedero tre mele. Dalla grande emozione non riuscivo a scendere dal treno. Arrivai a casa il 18 agosto dopo varie peripezie, trovai la mia famiglia salva e la gioia più grande, la mia fidanzata che mi aveva aspettato e in seguito diventò mia moglie.
Io non avevo più avuto notizie di lei e neppure della mia famiglia, i miei sogni di ritornare a vivere una vita normale in pace si stavano concretizzando.