TESTIMONIANZE: MAURO MONTINI

Nato a Prato, il 27 aprile 1922
Nel 1942 avevo vent’anni e sono stato richiamato sotto le armi. Era un momentaccio perché l’Italia era in guerra dal 1940. Sono partito di notte, dalla stazione centrale della mia città, Prato.
Destinazione Castiglion del Lago, in Umbria dove mi hanno assegnato al corpo degli avieri per il ruolo specialisti e vestito da militare mandato a Roma: Forte Boccea, nelle vicinanze di piazza Vescovio e poi al Centro di Istruzione di Centocelle Sud. Dopo un periodo di addestramento con altri militari, sempre dell’aviazione, siamo stati trasferiti a Napoli per andare al fronte in Africa. Tutto era già predisposto per la partenza da Capodichino, quando improvvisamente, per me, giunse da Roma un contrordine.
Fui richiamato indietro e tornato a Roma fui trasferito al Ministero dell’Aeronatica, di stanza stabilmente all’aeroporto di Guidonia, quale meccanico specializzato, (mi ricordo ancora l’indirizzo di posta militare: R. Aeroporto 358 5.G.1 PM 3300). Qui avevo un banco di lavoro con tanti arnesi del mestiere, tutto per me, timbravo il cartellino e il lavoro che facevamo ci veniva pagato, mi pare venti o cinquanta centesimi l’ora, però non ricordo bene.
Il contr’ordine per me, al momento della partenza da Napoli, era dovuto all’intervento di Curzio Malaparte, “fratello più che di latte” come lui si definiva, di Ofelia, mia mamma, figlia maggiore di Milziade Baldi, quindi mio nonno e balio di Curtino.
Dopo un breve periodo di tempo, mi levarono da quel lavoro e, sempre alle dipendenze del Ministero, ebbi l’incombenza di trasportare una piccola scatola di legno o un pacchettino, da Roma alla Piaggio di Pontedera, industria di aeronautica dove venivano fatte variazioni particolari di parti di aerei militari.
Da quel momento trascorsi il mio servizio militare in treno, nei viaggi da Roma a Firenze-Pontedera e viceversa. Naturalmente, tra l’andata e il ritorno, trovavo sempre il modo di fermarmi a Prato dai miei genitori. Quando arrivavo a Pontedera, consegnavo il pacchettino per le modifiche all’ufficiale addetto e col suo consenso potevo trascorrere qualche giorno con i miei.
A volte dovevo aspettare il pezzo modificato e riportarlo. Ma appena rimettevo piede in caserma, trovavo belle e pronto un altro pacchettino e dovevo ripartire. L’8 settembre 1943, alla notizia dell’armistizio di Badoglio, ero a casa e decisi di restarci. Con i miei genitori, lo zio Faliero, Clara la moglie di Alessandro Suckert, fratello di Curzio Malaparte, eravamo sfollati alle Coste vicino a Villa Fiorita.
Sapevo dei Partigiani sui monti, e qualche volta mi veniva l’idea di andare con loro, ma i miei genitori erano contrari, soprattutto la mamma che si metteva a piangere. Così ho trascorso il resto della guerra nascosto nei tombini, per sfuggire ai tedeschi e cercando di rendermi utile nei modi possibili alla comunità di cui ero parte.
Anche da sfollati abbiamo assistito, sia pure di riflesso, ad episodi sconcertanti come: i frequenti bombardamenti alla città, le retate da parte dei tedeschi di civili e le deportazioni nei lager in Germania, l’atroce episodio dell’impiccagione , a guerra ormai quasi finita, dei Martiri di Figline. Tra questi un mio carissimo amico Santino Grassi. Lui, è quello che riuscì a salvarsi perché si spezzò la corda o perché seppe approfittare della confusione generata dall’improvviso scoppio di una bomba, c’è chi dice una cosa e chi l’altra. Comunque, nella corsa per fuggire, infilò la porta aperta di una casa con in fondo al corridoio una finestra, aperta anche quella, dalla quale il “disgraziato” saltò nei campi riuscendo a nascondersi e a scamparla. Queste cose me le ha raccontate Santino, poi morto in un incidente.
A fine guerra, siamo tornati nella nostra casa, in via Santa Trinita, perché l’abitazione non aveva subito grossi danni. In città invece le rovine erano tante, ma tutti avevamo una gran voglia di ricominciare, eravamo contenti di averla scampata e di essere liberi.
Lo zio Faliero ripeteva di sentirsi un re: finalmente libero dalla paura di essere picchiato, messo in carcere, confinato, come gli era più volte successo durante il fascismo, essendo lui un antifascista schedato.
Io, invece andai subito a lavorare da Alessandro Suckert, in piazza Mercatale, inizio via San Bartolomeo, dove prima della guerra, facendo il rappresentante di materie prime per le filature, aveva un ufficio e un magazzino.
Dopo la guerra si mise in proprio, con il mio aiuto, a fare corde e cordette, sempre per le filature. Mi
ricordo che i macchinari per le cordette si comprarono in Germania, perché in Italia ancora non c’erano, invece quelli per le corde furono comprati a Monza e da me modificati per adattarli alle nostre necessità di lavoro.