TESTIMONIANZE: MARIO BALLERINI
I COMBATTENTI SI RACCONTANO
MARIO BALLERINI, nato a Firenzuola (FI), il 27 dicembre 1919. Sono nato e cresciuto in una famiglia contadina. La cartolina di richiamo alle armi mi è arrivata il 17 maggio 1941. Dopo essermi presentato al Distretto a Firenze, sono stato assegnato all’arma della Regia Aviazione, con destinazione Castiglione del Lago, sul Trasimeno, vicino a Perugia. Successivamente fui trasferito all’Aeroporto Campo della Promessa di Lonato Pozzolo in provincia di Varese vicino a Malpensa. Nella Regia Aeronautica, io facevo parte degli addetti alla cucina e alla guardia. Dopo il giuramento fui trasferito all’Aeroporto di San Damiano a Piacenza. Quando in questo aeroporto arrivarono i Tedeschi, dei quali eravamo ancora alleati, fummo trasferiti all’aeroporto di Cascina Vaga in provincia di Pavia. In seguito ci trasferirono all’aeroporto di Novi Ligure, dove eravamo solo dodici militari e tre graduati. Era un aeroporto di fortuna, non c’erano aerei, facevamo solo servizio di ronda e piantone (la
ronda consisteva nel controllare l’aeroporto).
Dopo un anno a Novi Ligure, era il gennaio del 1943, fui trasferito in Francia, all’aeroporto di Saint Mondiez a Tolone per controllarlo. Infatti da poco tempo (il 27 novembre 1942) la flotta navale francese si era autoaffondata a Tolone. L’8 settembre 1943 i tedeschi occuparono l’aeroporto e ci fecero prigionieri.
I guardiacosta erano fascisti del battaglione M, ed essi come tutti coloro che accettarono di collaborare con i Tedeschi non furono presi prigionieri. Noi che non accettammo la collaborazione fummo fatti salire su un treno merci, nei vagoni del bestiame. Eravamo circa trecento per vagone, nel posto di otto cavalli.
Senza mangiare, senza bere, così pigiati che il trasporto fu un calvario che durò otto giorni. Il 17 settembre arrivammo a Lione, da dove proseguimmo verso nord, il treno si fermò alla stazione di Saint Andrè, nella Bassa Lorena. Dalla stazione per raggiungere il campo di concentramento di Saint Andrè si camminò per venti chilometri.
Il campo era formato da diverse baracche, eravamo circa ottomila prigionieri, fra cui seimila Italiani oltre a Francesi, Polacchi, Slavi ecc… Il primo giorno per pranzo, (dopo venti giorni di digiuno) il rancio, che ci fu messo nella borraccia era a base di miglio. Un comandante della Repubblica di Salò cercò di convincerci a collaborare con i tedeschi, ci spiegò che Mussolini aveva riformato l’Esercito Fascista al fianco
dei Tedeschi per continuare la guerra. Io, che avevo il numero 31501, rifiutai.
Solo una ventina di prigionieri accettarono di collaborare. In seguito mentre noi si pativa la fame, loro
venivano a farci vedere il ricco pasto che veniva servito a tutti coloro che avevano accettato di collaborare.
Noi, nonostante la fame, eravamo fermi nel proposito di non collaborare. Per forza noi prigionieri dovevamo lavorare secondo le necessità, chi rifiutava veniva ucciso. Il nostro lavoro consisteva anche rilevare i morti sotto le macerie dopo i bombardamenti che erano frequenti. Il cibo che ci davano era scarso, avevamo sempre fame, per fortuna quando si scavava fra le macerie qualcosa da mangiare si trovava sempre. Con il cibo che ci servivano al campo non saremmo sopravvissuti.
Da quel campo un giorno io fuggii.
Avevo fatto amicizia con una famiglia russa, la figlia mi avvertì che tutti i prigionieri sarebbero stati trasferiti in un altro campo di concentramento all’interno della Germania. Mi ritrovai in un bosco, attraversai un lago, insieme ad un altro prigioniero, lui era di Pontassieve (Firenze).
Dopo tre giorni passati sotto i bombardamenti e con il pericolo delle raffiche di mitragliatrici, (si trattava di un combattimento fra Tedeschi e Americani), mi ritrovai con il mio compagno di fuga che era anche malato e pur avendo attacchi di malaria con la febbre alta riusciva a trovare la forza per andare avanti pur di essere libero.
Il 22 marzo 1945, verso le 16, incontrammo gli americani, a Mosbart che si trovava sulla linea Maginot, eravamo stremati dalla fame e dalla stanchezza. Gli americani ci curarono e ci diedero da mangiare e questo fu la nostra salvezza. Gli Americani avevano requisito un istituto, ed eravamo in tanti: italiani, russi, polacchi ecc… tutti soldati liberati dalla prigionia.
Ma il nostro calvario non era finito.
Gli Americani scoprirono che fra i prigionieri c’erano infiltrati anche repubblichini fascisti e nazisti e SS fra i quali io personalmente riconobbi un comandante delle SS cattivo e crudele che avevo conosciuto nel campo di concentramento. Allora, per fare una selezione, ci portarono in un campo di concentramento americano dove restammo per cinque giorni di nuovo senza mangiare, distesi in terra e separati l’uno
dall’altro. Eseguita la selezione noi, riconosciuti non collaboratori ma solo prigionieri dei Tedeschi, in seguito fummo trasferiti al campo di Bores vicino a Parigi. e lì facevo la guardia a i prigionieri tedeschi.
Ogni Italiano aveva il compito di fare la guardia a sei Tedeschi che lavoravano, la sera i prigionieri tedeschi dovevano essere riportati al campo di concentramento. Poi dagli Americani con i quali ero andato volontario a collaborare, fui portato in Normandia.
Dopo la bomba atomica su Hiroshima in Giappone, mi riportarono al Comando dei Volontari a Forte Melon in Francia.
In seguito fui congedato e tornai a Firenzuola il 5 settembre del 1945, dove potetti finalmente riabbracciare
i miei familiari.
Nel 1964 mi trasferii a Prato dove ho lavorato nell’edilizia fino alla pensione.