Nato a Prato, il 12 maggio 1924
Sono partito militare nel luglio del 1943, perché ero nel secondo trimestre del 1924, andai subito a Modena al IV Artiglieria. Volevo andare all’Accademia per fare l’Allievo Ufficiale, ma la guerra stava ormai finendo, perché gli Alleati erano già sbarcati in Sicilia. Allora mi misero in artiglieria. Siccome noi dell’artiglieria avevamo le ghette e non le fasce come la fanteria, ma non bastavano per tutti uscivamo alternati, questo per dire era il grande esercito degli otto milioni di baionette. L’8 settembre non toccava a me uscire e la sera verso l’otto e mezzo, dato che il Modena IV Artiglieria era sulla Via Emilia e c’erano tutti i campi, si vide la popolazione esulatare: - La guerra è finita!! -, le donne…Allora tutti ci affacciammo.
A noi non ce lo dissero di questo comunicato di Badoglio. - Via si va a casa - - No, anzi bisogna
richiamare anche quelli che sono fuori, perché bisogna resistere perché il nemico ora sono i Tedeschi - Va bene, saranno i Tedeschi. - E allora tutti attrezzati e pronti. Se io ero fuori non tornavo, ma qualcuno tornò. La notte non si dormì, perché c’era confusione. La mattina alle nove (del 9 settembre) si vide un Tigre tedesco, avevano il Tigre con un cannone da 120 mm., e alla portineria un sidecar con la mitragliatrice che entra dentro e noi si spara e si bloccano, ma esce il Colonnello e gli dà la pistola in segno di resa.
Quei disgraziati che erano in distaccamento fuori Modena stettero ligi alla consegna e resistettero. Ne ammazzarono due e gli altri li presero e li portarono via.
Così il nove mattina eravamo già prigionieri, ci misero in fila tutti nel piazzale ci presero il fucile, e si restò lì tre o quattro giorni, s’assaltò lo spaccio perché non avevamo da mangiare e fortunatamente c’era della roba in scatola. Dopo tre o quattro giorni ci inquadrano tutti e ci portano al 36° Fanteria, sempre a Modena in una grande caserma e ci concentrano lì. Venne la mia mamma con i miei zii per organizzarci per scappare. Come? C’era una fognatura dentro la caserma del 36°, allora ci portarono una piantina. Perché vicino alla caserma del 36° ci sono i macelli pubblici. Se tu entri nelle fogne ci vuol la piantina perché dopo un primo tratto a carponi si entrava nel collettore e si doveva appunto evitare i macelli. Così un po’per volta si inizia a fuggire, allora ci si metteva un vestitaccio e s’andava. Un giorno tocca a noi s’era tre o quattro, io avevo la cartina e andai in testa. E s’aspettò che il faro, che c’era di continuo, fosse puntato da un’altra parte e via dentro. Tutto ad un tratto si sente urlare, forse qualcuno si sentì male, e allora ci si fermò. Io avevo abboccato appena ma era molto basso che bisognava strisciare. Si rimandò per farlo un altro giorno, ma dopo due o tre giorni si sentì un botto. I tedeschi s’erano accorti che si passava di lì e lo fecero saltare, aprendo un tombino e buttando delle bombe.
Allora lo zio trovò un altro sistema. Un camion tedesco andava in città, a Modena, a prendere il pane, io mi dovevo buttare sotto i sacchi vuoti quando partiva, e poi i miei erano d’accordo con quelli del forno.
Perchè i Modenesi per salvarci ce la mettevano tutta, anche rischiando. Quel giorno che dovevo partire io in quel modo venne l’ordine di non andare a prendere il pane perché si partiva. E così mi toccò andare.
Quella mattina, verso la fine di settembre, ci portano alla stazione di Modena, tutta la gente a guardare, tanti piangevano. Ci caricano sui carri ferroviari, quarantacinque per carro. Appena chiusi i carri suona l’allarme, tutti scappano e noi dentro bloccati. Meno male non successe nulla. Iniziò il viaggio, noi s’aveva una sete da morire, otto giorni senza bere, il mangiare c’era perché s’era preso le gallette, che però mettevano sete. E poi s’era quarantacinque, non potevamo neppure distenderci e poi si dovevano fare i bisogni lì: si facevano in un fazzoletto e si mettevano in un cantuccio. Senza sapere la destinazione. Ogni vagone ci aveva una garitta con una guardia, ma non veniva mai aperto. S’arrivò a Trento, si domandava dell’acqua ma nessuno non ci rispondeva. Si stette sette giorni senza essere aperti, finalmente ad una stazione ci aprirono, c’era un ristoro tedesco con una fontana, ma non ci facevano avvicinare, e ci dettero del miglio cotto, si bevve. La sete, io quando dormivo sognavo fiumi, cascate …
Dopo tre o quattro giorni, il 9 ottobre, s’arriva a Kustering, Stalag 3° C come c’è sulle lettere che mandai alla famiglia e sulle risposte. Ci dicevano di dire che si stava bene. A Kusteng ci scaricano e ci portano allo Stalag, lì c’era anche delle donne tedesche che ci dettero anche il caffè. Ci contarono poi ci misero a sedere in fila in terra e ci diedero il piastrino, perché noi eravamo prigionieri di guerra. Il piastrino era fatto in modo che quando uno moriva, mezzo lo lasciavano al collo e mezzo andava alla Croce Rossa. Io ero il n° 46364. Il 20 ottobre ci inviarono alla BMW, a Bardof, un sobborgo di Berlino, dove facevano motori per gli aeroplani. Io ero studente, avevo fatto il Buzzi e invece mi mandarono in fabbrica ai turni.
Ci davano poco da mangiare e poi, per spregio, c’era da camminare molto per andare dai campi alla
fabbrica, per cui via via si deperiva, arrivai al peso di trentotto chili e mezzo. Io, come altri, non ce la facevo più nemmeno a camminare e allora non ci portavano più in fabbrica e dopo tre o quattro giorni ci montarono su un camion e da lì ci rimandarono a Kustiring, in ospedale, dove non si lavorava e ci davano un po’ di latte. Allora piano, piano crescevi, io arrivai a cinquantun chili, ma dietro a forza di star fermo avevo una piaga. Siccome ci diedero la possibilità di ricevere pacchi da casa, io potevo mangiare e fare un po’ di commercio. E scambiavo roba con le zuppe dei Russi, che erano tutti tubercolosi, ma la fame fa fare certe cose…
Dopo due mesi ero cinquantun chili e arrivava la primavera, e si fu richiesti per lavorare nei campi. Infatti ci mandarono in una fattoria, in treno, e lì si mangiava, patate, ma si mangiava. Ma siccome io non sapevo fare il contadino, con le due file di patate da levare che ci assegnavano, io ero sempre tra gli ultimi e avevo paura di essere mandato via. Quando arrivò il freddo, nell’ottobre del 1944, invece ebbi fortuna che ci mandarono in una famiglia privata, da una donna tedesca, con una bambina, il marito era morto, c’erano due polacche, mamma e figliola, ed un francese, che era un po’ lo chef e stetti lì, vicino all’Oder, che era un fiume navigabilissimo, infatti, quando con il francese si andava a tagliare qualcosa nei boschi, con il carro non si passava dal ponte, ma sul fiume ghiacciato, in inverno la temperatura era a – 22°. Da quando fui in questa famiglia si cessò di essere sorvegliati, perché anche quando eravamo in fattoria la sera ci chiudevano. Ma intanto si sentiva i rumori del fronte avvicinarsi, perché i Russi avanzavano. Siccome i tedeschi erano impauriti scappavano tutti, anche la signora tedesca scappò con un carro su cui caricarono la roba, ed insieme scapparono le polacche ed il francese. Rimasi io, perché c’erano dieci vacche.
Io allora dormivo in casa. Un giorno arrivarono i Tedeschi e il Borgomastro disse che bisognava prendere tutte le vacche del paese, che erano quasi duecentocinquanta, e si dovevano portare ai macelli. S’era rimasti cinque Italiani soli e con il Borgomastro, si incominciò, ma le vacche non volevano uscire. Poi finalmente ci si incammina, si camminò cinque giorni, si dormiva nei boschi ed era febbraio, il 10. Intanto i Tedeschi si stavano ritirando, le strade erano intasate e questo faceva si che le vacche non abituate a camminare spesso si sciancassero sulla mota. Si passa da un paese che si chiama Sorau, dove si trova degli Italiani a sedere su un muricciolo che ci dissero che lì c’erano i macelli e di tornare poi con loro che tanto ci lasciavano sbandati. Infatti si arrivò ai macelli e si portò le vacche che ormai erano rimaste una cinquantina. E poi si era incerti su che fare: scappare con i Tedeschi o unirsi agli atri Italiani e aspettare i Russi. Ci unimmo agli altri e diventammo tredici. Loro avevano anche roba da mangiare. La notte vennero anche due Tedeschi, che rimasero un po’ con noi, gli si fece anche il caffè. Quando un esercito avanza lo fa sulle strade principali la notte e poi esegue i rastrellamenti la mattina dopo. Ma io ero un ragazzo e mi ricordo che ci salvò un tale Furlini di Milano, un sottufficiale che ci disse: - Ora verranno i Russi a rastrellare, noi mettiamoci tutti in fila e urliamo subito Italiani!!, perché se no ci ammazzano subito -. La mattina, era il 13 febbraio, arrivano uno a cavallo e tre a piedi, con il parabellum, e noi subito: - Italiani!! -
- Documenti! - Noi si aveva il piastrino e li si mostrò.
Ci accompagnarono al comando e qui ci assegnarono un soldato a guardarci e fu un bene perché venne un aereo a mitragliare e uccise un Russo e allora il suo compagno ci voleva ammazzare, perché pensava che si fosse Tedeschi, e invece il nostro accompagnatore ci difese. Poi venne un altro mitragliamento, ci si butta nei campi per istinto e andò bene. Arrivò un Tedesco anziano in divisa carta zucchero dell’aviazione e si mise in fila con noi, ma noi non si voleva e si disse al Russo. Lui ci disse di lasciar fare, poi quando si arrivò ad uno spiazzo, noi ci fece mettere a sedere e lui lo portò da una parte e con il mitra l’ammazzò, colpendolo prima in bocca per non farlo soffrire. Noi ci si impaurì, perché si pensava che volesse sparare anche a noi, ma lui ci rassicurò e proseguimmo a camminare, poi si faceva buio perché era il 13 febbraio e il Russo ci disse che doveva tornare al comando. Ci raccomandò di camminare nel mezzo della strada e di dire sempre di essere Italiani. Infatti al primo blocco andò bene ma al secondo ci misero tutti da una parte vicino ad uno scavo anticarro e noi si pensò che ci volessero fucilare, perché non credevano che fossimo
Italiani. Allora Furlini si avvicinò ai russi facendo vedere ad un loro ufficiale, alla luce di un accendino una licenza italiana e li convinse. Allora ci mandarono lì vicino in una casa di un contadino a passare la notte ed a mangiare.
La mattina ci si alzò e andammo al comando che era lì vicino e là c’era lo smistamento, venivano da
tutte le parti, Italiani, Jugoslavi, Francesi e in millecinquecento ed un soldato, uno solo, in testa in fila si iniziò a camminare verso est, verso la Polonia, si faceva trenta chilometri il giorno, per dieci giorni. Ci si arrangiava perché i Tedeschi avevano lasciato tutto, in dei posti si ammazzò anche il maiale, e per muoverci prendevamo tutti mezzi che si potevano trovare. Finalmente si arriva sul confine della Polonia dove c’era una stazione ferroviaria. Ci sarà stata una montagna di roba, perché lì si montava sul treno, non in tradotta ma con vagoni normali e veniva lasciato tutto, carrette, biciclette, tutto. In treno s’arrivò vicino a Varsavia e lì ci fecero andare in varie famiglie, io andai a Chestokowa, dove c’è la famosa Madonna Nera, io ho anche visto la chiesa, l’assomiglia un po’ alla Chiesa delle Carceri a Prato. A Chestokowa ci fecero scegliere come rimpatriare, tramite Odessa, o aggregandosi a loro, i Russi, durante l’avanzata inbattaglione “Rabtti”, che vuol dire lavoro. Allora noi si accettò questa proposta anche per non allontanarci ulteriormente dall’Italia. Ci misero a fare i camminamenti quasi in prima linea, perché i Russi avanzavano con il sistema delle sacche, cioè avanzavano e poi tornavano indietro a rastrellare.
Sull’autostrada da Breslau a Berlino durarono sette giorni a passare e ci dicevano “Si va a conquistare Berlino”. S’iniziò a fare anche i ponti, perché erano stati tutti distrutti, ci portavano la legna e noi si avviava a fare i ponti. L’ultimo ponte era a venti chilometri da Lipsia. Finito il ponte sparirono i Russi, noi domandavamo dove era un comando italiano, ma non c’era. I Francesi, tutti gli altri avevano il suo, ma gli italiani no. E allora io e un altro di Pesaro, siccome questo ponte faceva da confine tra i Russi e gli Americani, c’era la bandiera sul ponte, si aspettò un camion che riportava i prigionieri russi e tornava verso Lipsia vuoto e si prese, in venti minuti s’arrivo a Lipsia. In città vedo una bandiera francese, e io che lo parlo vado a chiedere informazioni e mi dicono che c’era anche un comando italiano. Infatti si prese un tram e si scese quando si vide una bandiera italiana. Si stette un po’ lì e poi ci portarono tutti per il rimpatrio, che avvenne in tradotta il 18 luglio 1945 alle 6 e 30 e arrivai il 26 luglio a Prato. Avevo mandato un foglio tramite uno che era partito prima che arrivavo. Io ero un anno che non avevo notizie e i miei cugini venivano tutte le sere alla stazione, ma da Bologna erano già partiti tutti i treni e io ed un altro di Empoli si prese un treno merci arrampicandoci sui respingenti in corsa, e da lì su un vagone di legname, nelle gallerie ci si buttava giù. Nella grande galleria ci si sarà stati un’ora e mezzo. Si partì alle 22,30 e s’arrivo a Prato alle 4 di mattina.
Quando arrivai a Prato trovai la stazione tutta distrutta e dopo salutato quello d’Empoli che proseguivaper Firenze m’incammino.
Mi sento chiamare: - Che sei Marcello? -- Tu sei il Bellandi - era un ferroviere che stava vicino a me al casone di Porta Pistoiese.
- Tutti salvi - mi disse - I tuoi cugini sono andati via ora. - Allora gli chiesi di accompagnarmi, lui chiese il permesso e si partì. Quando s’arrivò lui chiamò il miocugino, era luglio e c’erano le finestre aperte.
- E’ tornato Marcello! - E allora alla Porta Pistoiese tutti fuori, abbracci…