TESTIMONIANZE: IDAMO GOTI

Nato a Prato, il 29/1/1924
Appartenevo al 2° Artiglieria d’armata. Sono partito 20 maggio ‘43 per Alessandria, in Piemonte. Sono rimasto ad Alessandria e fatto prigioniero ad Alessandria l8 settembre ‘43, immediatamente dopo l’Armistizio.
Io vidi subito una situazione parecchio grave, perché pur essendo alleati dei Tedeschi questi ci
presero subito a cannonate. In cittadella d’Alessandria c’erano due reggimenti il 2° Artiglieria d’armata e il 37° fanteria, eravamo 30.000 soldati in caserma. L’8 settembre di punto in bianco verso le 10.00, noi si sapeva dalla sera che Badoglio aveva detto guerra finita, e s’aveva la speranza di andare a casa, ci fu un cannoneggiamento che ci spaventò in maniera terribile e ci furono diversi morti anche in caserma. Venne dato l’ordine di cedere le armi e entrarono i Tedeschi. Io mi resi subito conto che s’andava finire in un monte di male. E guardai se c’era modo scappare, ma non c’era più verso. La Porta Reale era già tutta bloccata, sui bastioni c’erano le sentinelle tedesche, non c’era più niente da fare.
Allora feci un primo tentativo di fuga, ma c’erano più bravi di me, c’erano quelli del ’20, del ’19 erano persone più esperte, io ero una recluta imbranata. Ci furono una decina di morti con il cannoneggiamento tedesco sulla cittadella. Quando vidi entrare le autoambulanze per portare via questi morti, mi intrufolai per vedere se c’era modo squagliarmela, ma non ci fu niente da fare, perché quelli più anziani e s’intrufolarono loro e le portantine andarono fuori e se li riuscì…non ho saputo più niente.
Il giorno dopo vidi una colonna di muli che gli portavano fuori ad abbeverare al fiume Tanaro. Perché avevano bombardato, non c’era più corrente, non c’era più niente e i muli avevano molta sete anche perché in quei giorni faceva caldo. Allora presi un mulo e m’accodai alla colonna per andare fuori. Per andare a farli abbeverare al fiume Tanaro bisognava passare dal centro della città e l’intenzione era quella di scappare.
Con un occhio vigile davanti ed uno dietro, perché c’erano le sentinelle ogni 15 metri. Ad un certo punto lasciai il mulo, c’era un uscio aperto ed infilai in una palazzina, raccontai il fatto e il mulo andò dietro alla corrente, andò a bere e poi rientrò. Appena entro in casa una signora, io se la potessi ritrovare le bacerei le mani ed i piedi, subito pantaloni, camicia, scarpe, in 5 minuti da militare a borghese, roba anche loro non ne avevano da buttare via, i pantaloni erano corti ma insomma ero civile. Intanto riportano un’altra colonna di muli, perché muli e cavalli ce ne erano tanti, e un altro soldato fece lo stesso gioco che avevo fatto io, ma erano trascorse sei o sette ore. Questo era successo la mattina, nel pomeriggio venne quest’altra colonna. Ma lo videro e venne i tedeschi su per le scale, sembrava il finimondo, perché le prime parole di tedesco non si capiva più nulla, urli su quelle scale e tutto faceva pensare al peggio. Allora questa signora prese a braccetto me e quell’altro che era venuto dopo di me e diceva al soldato tedesco: - Questi miei fratelli che tornare da lavorare. - - No, questo militare. - insomma ci riportano in caserma tutti e due.
E lei con le lacrime agli occhi: - Io ragazzi ho fatto quello che ho potuto, perché vedo che la situazione è grave. -
Il terzo tentativo di fuga fu quando da Alessandria ci portarono a Mantova, dove formavano le tradotte.
Quando si arrivò alla stazione di Parma, io ero su un carro bestiame scoperto, detti un’occhiata nella stazione e gli dico ad un ferroviere: - La mi dia il cappello - per camuffarmi un po’, e cercai di far perdere le tracce andando verso i binari morti, dietro i vagoni. Ma l’occhiata dei tedeschi vigili mi adocchiò e fui riportato sul carro a forza di spintoni e calci. Mi ributtano sul vagone che ci portò a Mantova. Lì ci si stette un paio di giorni, formarono le tradotte, carri bestiame piombati e si partì per la Germania, anzi direttamente in Polonia. Dissi ho avuto l’intenzione di scappare tre volte a questo punto vado dove il destino mi porta. Perché nella notte dalla tradotta si sentivano tante cose. Si sentiva chi segava le sbarre per scappare, si sentivano i mitragliamenti e si diceva: - Qualcuno muore di sicuro. -
E allora io rinunciai e andai a finire in Polonia, di lì si fu immatricolati, tosati, disinfettati, ci fu dato la montura con l’iscrizione nel groppone e nelle ginocchia ‘Kriegfangen’ che vuole dire ‘prigioniero di guerra’ a lettere fosforescenti per farlo vedere anche di notte. Da questo campo che si chiamava Arnestei a venti chilometri da Danzica, che era un campo di concentramento di smistamento di lavoro, dove arrivavano le richieste di manodopera. Da lì si viene spostati ad Ankla, un paesino dalle parti di Stettino, in una fabbrica di zucchero. Non ci andò male, per essere i primi giorni, dissi: -Ma, un po’ di zucchero si mangerà, siamo a farlo. -
Ai primi di ottobre del ’43 s’era a lavorare in questa fabbrica, con un campo a parte per noi prigionieri.
Il 9 ottobre viene un bombardamento e disfecero la fabbrica e ci furono anche diverse centinaia di morti tra la popolazione. Allora i prigionieri addetti ai lavori furono tutti messi a disposizione per lavorare alle macerie e per aiutare la popolazione, per una quindicina o venti giorni si lavorò alle macerie e a seppellire i morti, si fece lo scavo per una fossa comune dove si seppellirono cinque o seicento morti. Tutto a picco e pala. Poi la fabbrica in qualche modo riprese il lavoro e si ricominciò a lavorare nello zuccherificio fino a tutto marzo e aprile del ’44. Finito la campagna dello zuccherificio ci riportarono in un campo di concentramento chiamato Starga, dove siamo stati un paio di mesi. Tutti i giorni si veniva prelevati, portati alla stazione con il vagone addetto ai prigionieri, eravamo un centinaio ed andavamo a lavorare in un campo di aviazione vicino a Stettino.
Dopo quando fu stabilito di fare un piccolo campo per noi, c’erano anche dei Francesi, si fu trasferiti in questo campo di aviazione, dal campo principale. Il mio lavoro consisteva nel fare mascheramenti, vale adire piste di atterraggio e capannoni e mascherarli, con un’impresa tedesca appaltatrice. In questo campo ci siamo stati fino ai primi di marzo del 1945, quasi un anno. E le mansioni erano stabilite da ciò che avevano bisogno, sono stato anche a caricare bombe sugli aerei. Ma era un campo piccolo da addestramento, ho visto tanti di quei ruzzoloni, perché addestravano gli allievi. Ho visto tanti apparecchi cappottare. Ma negli ultimi tempi sfruttavano anche questo piccolo campo per andare a bombardare, perché eravamo vicini al fronte, tanto è vero che noi si caricava le bombe e si vedevano ad occhio nudo andare a bombardare e tornare indietro a ricaricare.
Ai primi di marzo del 1945, che il fronte era vicinissimo ci fanno sfollare, ci portano via con loro, come la
popolazione. Di noi prigionieri si servivano per fare tutto quello di cui avevano bisogno i militari, trincee, camminamenti, sbarramenti e loro comandavano. Non ci arrivava dare più da mangiare, ci potevano dare quattro o cinque patate lesse il giorno, perché oggi eravamo qui domani potevamo essere a venti chilometri e così via, spogliare non ci si spogliava più, lavare non ci si lavava più, perché eravamo in prima linea.
Eravamo più di trecentocinquanta Italiani e c’erano anche duecento Francesi.
Il 1° maggio del 1945 si videro sparire le guardie, il fronte era imminente. Saranno state circa duecento guardie e sparirono e ci lasciarono in mezzo alla campagna, nel giro di un’ora iniziarono a passare tanti di quei carri armati russi che io restai sbalordito, perché la guerra continuava, finì l’8 maggio. Allora ce ne erano tanti, di questi mezzi corazzati, che le strade erano gremite di questi mezzi. Fino al 20, 25 maggio rimanemmo liberi a giro per la campagna. I Russi si fermavano vedevano che eravamo Italiani e ci dicevano di tornare a casa. Senza nessuno che ci diceva dove andare, per mangiare andavamo nelle grandi tenute, grandi fattorie, che erano state abbandonate, dove potevamo trovare patate, galline, perché avevano lasciato tutto, anche il bestiame era abbandonato.
Eravamo sei toscani, io presi due cavalli, s’attaccò un carro a quattro ruote, perché non potevamo a piedi e si cominciò a fare strada, circa venti chilometri il giorno, la sera si faceva sempre tappa in queste fattorie, si mangiava, si sistemava i cavalli, si mettevano al fieno, se c’erano dei cavalli che erano perdevano dei ferri si sostituivano con altri animali. Ma non era possibile tornare a casa così, non c’era verso. Noi si diceva sempre: - Per Berlino - s’arrivava sulle strade, sull’autostrade si trovava altri Italiani che andavano nella direzione opposta che ci dicevano che andavano a casa - Anche noi - rispondevamo. Finchè dopo ad un posto di blocco i Russi ci dissero che noi Italiani dovevamo presentarci ad un determinato campo di concentramento in attesa del rimpatrio. E infatti, la fu la mano di Dio, perché il rischio che si correva anche per procurarci il cibo. Mi sono trovato ad entrare in qualche casa per cercare qualcosa, un filone di pane, e trovarci dei soldati affettati a vanghettate, perché tra la popolazione succedevano queste cose.
Allora si va a questo campo di concentramento e ci si presenta con i cavalli, perché chi rientrava con i trattori, chi con le motociclette, chi con le biciclette, insomma in questo campo eravamo sette, ottomila in attesa del rimpatrio e ci si sta fino alla metà di ottobre. Tornai alla fine di ottobre, ad un certo punto formarono le tradotte per l’Italia e si rientrò.
Ma la cosa più tragica furono i due mesi da marzo al 1° maggio, perché ci spostarono insieme a loro per fare tutti i lavori umili di cui avevano bisogno e allora né più da mangiare, né più da bere, né più da lavarsi, più niente e i bombardamenti sempre sopra, sempre sopra.