NATO A FIRENZE IL 30 GENNAIO 1919
Sono nato il 30 gennaio 1 919 a Firenze.
Sono figlio di italiani esuli in Francia antifascisti.
Eravamo fuorusciti in un paesino vicino Parigi, nei sobborghi di Parigi. La bainlieu parisienne direbbero i francesi, la cintura di Parigi. Fino al 1 939, quando avevo 20 anni e fummo costretti a tornare in Italia per via delle ritorsioni che ci facevano i francesi.
Minacciati di morte, cercavano di picchiarci e allora si decise di tornare in questo paese, che era il paese natio. E fummo subito richiamati alle armi, nel marzo del 1 940 fui chiamato alle armi.
Prima al secondo reggimento d’armata dell’artiglieria pesante ad Alessandria.
Quando tornammo a Firenze., c’avevo qualche familiare, c’avevo una sorella di mio babbo e un’altra zia e un altro zio, fratelli di mia madre. Fui ospitato, un po' sballottato a destra e a sinistra. Poi si partì a fare il militare, io che non sono un eroe, non ho fatto l’eroe l’unico gesto eroico che ho fatto io é stato quello di combattere per salvarmi la vita.Poi dopo ci mandarono sul fronte francese, ma questa non ci conta come campagna di guerra perché durò pochi giorni la nostra presenza e fummo costretti a tornare subito nella nostra base di Cuneo.
Dopo si parti per l’Albania, cambiai reggimento andammo con il l3° reggimento d’artiglieria e partecipammo a tutte le azioni sul fronte albanese. Io volevo mettere in rilievo quello che sul fronte albanese era lo stato di mente dei combattenti italiani. Un giorno noi ci trasferimmo da un fronte all’altro prima eravamo sul fronte sud andammo sull’altro fronte più a nord.
Mentre viaggiammo sulla strada sterrata e stretta, stretta, eravamo il 10 marzo 1941 quando fu sferrato l’attacco alla Grecia. Mentre si camminava i nostri pezzi erano portati da camion, da altri mezzi pesanti e noi camminavamo a piedi. Quello che voglio sottolineare è che a un momento passavano molte macchine tra cui una con il ministro della difesa e tanti altri bei pezzi grossi del regime fascista. Passarono e dietro c’era una macchina più piccola dalla quale scese Mussolini. Montò su un mucchio di terra che era sulla strada e cominciò a fare il suo bel discorso ai soldati. Non fu degnato di
uno sguardo, non fu degnato di un applauso e i soldati mal nutriti, mal vestiti, ammalati perché allora lì non si mandavano gli ammalati, per esempio di malaria, negli ospedali, si facevano battaglioni di malarici e si tenevano lì a patire e a soffrire. E quello che mi colpì quel giorno lì fu la mentalità dei militari italiani. Ne avevano abbastanza, erano stanchi perché quella non era la nostra guerra, questa era una guerra voluta da un dittatore e da un regime. Uno non si sentiva, se si pensa poi dopo che non avevamo neanche da mangiare, che eravamo malati, ero un malarico. Ci toccava stare lì a soffrire
e si lottava come le dicevo prima non per far gli eroi, per fare gesti eroici, ma per tentare soltanto di salvare la nostra pellaccia.
Ci fermarono. I nostri comandanti ci fermarono. Lo ripeto non fu alzato un grido, né contro, né a favore. Completamente muti i soldati, se ne fregavano proprio altamente.
Per la malaria, non ci davano il chinino, perché non c’era nemmeno quello. Ci davano la zigrina, l'era una pasticca gialla che ci faceva diventare gialli in viso. Faceva qualche cosina, permetteva di avere qualche grado di febbre in meno, che io non sono medico non lo posso dire. Mancava tutto noi avevamo le armi antiquate, si voleva far la guerra, i nostri pezzi d’artiglieria i 1 49-35 erano pezzi antiquati presi agli austriaci il 1 91 51 /1 8.
Il moschetto era un moschetto 91 anche se era a ripetizione, modificato nel ’38.
Come si faceva a combattere.. prima di tutto perché non era la nostra guerra non la sentivamo, e poi anche perché non c’era nulla.
Dopo mi successe che come figlio di italiani all'estero, per la legge, dovevo fare 2 mesi nel distretto di appartenenza e io avevo chiesto il beneficio di questa legge, ma nel frattempo avevo già fatto circa 15 mesi di servizio militare e fui rimpatriato prima nel campo di Durazzo dove c’erano tutti i malarici, sempre in Albania dove cercarono di curarci. Poi una sera io mi aggregai a gruppi di partenti e ci si presentò al porto, perché noi eravamo nei dintorni di Durazzo.
M’aggregai a loro anche perché me lo permisero gli ufficiali, nonostante... mi
domandarono “Avevi la febbre?” No non avevo la febbre. Quando stavo per salire sulla nave c’era un medico in fondo alla schiera, ci toccava il polso, mi disse “Tu hai la febbre?” dissi “Sì signore ho la febbre” e lui disse “Tu non puoi salire sulla nave, devi rimanere qui, mi dispiace.” A mani congiunte gli dissi “Ma lei a casa sua ce l’ha una madre?” con tutte queste parole mi lasciò montare sul ponte e si attraversò sul ponte della nave che era colma, che mi portò a Bari. Mentre eravamo in mare fummo dirottati verso Brindisi perché c’erano i sottomarini inglesi e poi si ritornò a Bari. Naturalmente si poté fermarsi, dormire fuori all’aperto, anche lì non avevano il chinino, non avevano medicinali e poi finalmente arrivai a Firenze da mia zia; sorella di papà mi fece ricoverare all’ospedale, all’ospedale civile di Careggi. Guarito tornai da mia zia, poi scesi a Firenze. A Firenze trovai un lavoro. Un lavoro dal cappellaio per donne, sicché lavorai 30 giorni e poi fui richiamato.
Facevo cappelli di tutti i colori, di feltro, velluto, seta, ecc. .. E allora si faceva bene il lavoro per essere assunti a lavorare. Stetti lì 30 giorni poi fui richiamato. Ci portarono a Verona, poi lì decisero di creare un nuove reggimento e ci mandarono in Calabria come guardia coste, come guardia frontiere. Riacquistai subito la malaria con eczema tropicale, fui operato di peritonite e poi nel 1943 fui ricoverato all’ospedale militare di Gemona in Friuli. Dalla Calabria fu un bel viaggio. Prima all'ospedale di Napoli e poi all’ospedale di Gemona, nel quale si stava molto bene perché la popolazione era molto gentile, c’era da mangiare quando si usciva la sera e si stava bene. Se non che il 3 settembre 1 943, il colonnello che comandava l'ospedale ci disse “Figliolo i Tedeschi stanno scendendo! Chi può camminare con le proprie gambe gli dò licenza di convalescenza e ve ne andate a casa, i mutilati invece stanno qui con noi”. E lì finì praticamente il servizio militare perché poi dopo non mi ripresentai, a parte le vicissitudini nell’ospedale militare di Firenze. Prima gli Italiani mi volevano far ritornare al fronte, invece i Tedeschi che erano aggregati lì, viste le mie condizioni, mi fecero tornare a casa con un’altra convalescenza. Da allora non mi ripresentai più. Da lì fu la mia tragedia, che poi dopo continuò anche in borghese perché il chinino non si trovava.
Era una tragedia e poi l'eczema tropicale... c’era una specie di pelle che riaffiorava con dei bachini dentro, ne avevo addosso e uno sotto i piedi. E finalmente gli arrivarono gli americani e fu la mia salvezza perché avevano il chinino.
Prima che arrivassero gli alleati ero da un mio zio sfollato a Carmignano. Meno male perché io non avevo casa, non avevo niente. Mi era rimasto soltanto il vestito con il quale ero venuto in Italia e un vecchio cappotto ricavato da un cappotto di mio zio.
Quando arrivarono gli americani cercai di andare a lavorare, cominciai ad andare a lavorare, un po’ con gli americani, un po' con gli inglesi, un po' sulla strada a fare il manovale. La vita triste dell’esule che non ha famiglia, è stata questa la mia tristezza, quello che ho sofferto di più. Al fronte non c'erano eroi, dove eravamo noi, sono tutti discorsi. Mi premeva sottolineare questa cosa, lo stato d'animo dei soldati al fronte in Albania, lo stesso come guardia frontiera anche in Calabria. Tanto è vero che io da Caporale Maggiore fui degradato per aver detto ad un ufficiale, un tenente, eravamo in tre caporali, si stava lavorando alla costruzione di una strada in Albania che portava da
dove eravamo noi al castello distante dall'isola di Caporizzuto che era un posto d'incanto. Lo è ancora. Ci domandò, per fare capire quanto erano stupidi i nostri ufficiali, che cosa ci poteva mettere nello spezzatino.. La risposta mia fu “le patate! ” si può mettere “i fagioli” e lui “Questo lo sapevo! ” e fummo degradati, ci denunciò.
Per questo?
Per questo. Per dire la mentalità che serpeggiava nell’esercito. Non ne volevamo sapere di questa guerra, nessuno. Se si tratta di difendere il nostro paese quando siamo aggrediti si può anche difendere, ci si può anche andarci, ma la guerra per aggredire non l’ammetto. Non ammetto le guerre coloniali, non ammetto le guerre di aggressione, questo non lo ammetto.
Certamente poi ci furono i resistenti, noi a nostro modo non presentandoci si fu resistenti anche noi. Son ricordi brutti... ma bruttissimi.. io tenevo particolarmente a far affermare che i soldati italiani nel 1 941 /42/43 e oltre erano stanchi della guerra.
E per tornare alla fine della storia, arrivano gli americani, gli inglesi, lei va a lavorare con loro e finisce la guerra ad un certo punto. . .
Sì finisce la guerra.
E lei stava sempre a Carmignano?
Stavo a Carmignano, poi dopo per mia fortuna trovai un lavoro al Cicognini, al
convitto nazionale Cicognini, glorioso convitto nazionale Cicognini.
Beh che si siano dimenticati ora che i poveri disgraziati che dal ’46 in poi lavorando per 14/16 ore al giorno, e tanti son morti, salvarono il convitto.
Me lo immagino in che condizione poteva essere. . .
Ci sono stato fino al 1982, andai via per dimissioni. Ero stanco anche lì degli
atteggiamenti di certi capi che erano nel convitto.
I capi d’istituto?
Era una brava persona, una bravissima persona. C'aveva grande cuore però non c’aveva il polso del capo, e a me quello non andava giù.
E dopo poi sei sempre stato a Prato?
Dopo son stato a Prato e mi son sposato a Prato, ho avuto un figlio. Ho sempre tribolato perché chi va a lavorare fa sempre una vita grama, i posti che reggano non sono mai toccati a noi.
Comunque doveva essere un lavoro anche abbastanza di soddisfazione. . .
Dal 1 963 eravamo mal pagati al convitto Cicognini, però avevamo una branda per dormire e ci passavano da mangiare.
Più o meno è come i militari, soltanto che uscivamo per Prato, ecc.. Ci facevamo un po' ... non è stata una vita troppo gaia perché dopo le conseguenze della guerra e della malaria...