Teleferiche, minatori e silenzio: le guerre delle mine sulle Dolomiti

Se, durante la Grande guerra, in trincea e in campo aperto la vista era il senso fondamentale, fu invece soprattutto con l’udito che si combatté l’”altro” conflitto

di Andrea Cionci

Osservare il nemico, magari attraverso un binocolo da osservatore di artiglieria, o un cannocchiale da cecchino. Se, durante la Grande guerra, in trincea e in campo aperto la vista era il senso fondamentale, fu invece soprattutto con l’udito che si combatté l’”altro” conflitto, la guerra di mine, combattuta nelle viscere delle montagne scavando serpeggianti cunicoli per far saltare in aria, con decine di tonnellate di esplosivo, le postazioni nemiche. In una febbrile corsa contro il tempo, nella lotta quotidiana con la roccia, il rombo assordante del martello pneumatico e l’altrettanto assordante silenzio precedente le esplosioni scandivano la vita dei nuovi soldati-minatori.
Una tattica antica

Furono 34 – delle quali 20 italiane - le mine fatte brillare sul fronte alpino-tirolese. Già alla fine del 1915, di fronte al fallimento degli assalti frontali appoggiati dalla insufficiente artiglieria, il generale Luigi Cadorna aveva emanato circolari per cambiare tattica ispirandosi piuttosto all’antica guerra d’assedio. In questo caso, i “castelli” in cui gli Austriaci si erano rinserrati, erano le stesse cime dei monti; il ruolo degli assedianti spettava agli italiani. Troppo spesso si dimentica che le gravi perdite che accusarono le nostre truppe nei primi mesi di guerra furono dovute anche un fattore orografico che poneva gli austriaci quasi sempre in posizione di dominanza di quota. Se, fin dal 1914, gli eserciti coinvolti nella Prima guerra mondiale avevano cominciato a scavare nel terreno - relativamente molle - della Francia o della Russia per far saltare le posizioni avversarie, la battaglia di mine sul fronte alpino, due anni dopo, avrebbe assunto i caratteri di un’impresa sovrumana. La roccia durissima doveva essere perforata da tunnel che si inseguivano alla cieca in quelle montagne il cui profilo, disegnato dalle ere geologiche, sarebbe stato modificato per sempre dall’intervento umano.

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Schema di galleria da mina
La prima mina sul fronte italiano

Tuttavia, la vera e propria guerra di mine sul fronte alpino inizia nel dicembre 1915: qui, il massiccio del Lagazuoi costituisce una posizione strategica importantissima, dato che, dalla sua vetta, gli austriaci controllano il Passo di Valparola impedendo agli italiani di dilagare in Tirolo. Dopo mesi di supremazia nemica, la svolta arriva con un ufficiale degli Alpini, il maggiore Ettore Martini comandante del battaglione “Val Chisone”, che riesce a conquistare una cengia (cornice rocciosa) che prenderà il suo nome e che consentirà agli italiani di poter tirare sugli avversari anche senza conquistare la vetta.
Gli Austriaci vogliono a tutti i costi liberarsi di questa dolorosa spina nel fianco, così inseriscono 300 kg di esplosivo in una cavità naturale nella roccia e, alla mezzanotte del Capodanno 1916, la fanno saltare come un enorme petardo. Le nostre baracche vengono investite da blocchi di roccia, ma non si registrano perdite. In risposta, si comincia a scavare una galleria all’interno della montagna, ma gli italiani dovranno subire altre due “mine di schiacciamento” austriache prima di riuscire, il 20 giugno 1917, a far saltare in aria la postazione nemica con 33.000 kg di esplosivo.

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Italiani con macchinario Sullivan per lo scavo di gallerie
Un’organizzazione industriale

Il lavoro dentro le montagne procedeva metodico, lento e faticosissimo, ma con perdite ridotte al minimo rispetto alla sanguinosa guerra di trincea.
Il fronte non richiamava più solo soldati, ma anche minatori, fabbri, motoristi, fotografi, un esercito di figure professionali non strettamente collegate al combattimento tradizionale. Il sistema di rifornimenti in quota metteva a durissima prova la logistica, che si doveva avvalere, oltre che di portatori, muli, cani da tiro, anche di ardite teleferiche. Le operazioni erano continuamente disturbate dal tiro delle mitragliatrici e dei cecchini austriaci. Ecco perché gran parte di esse si svolgevano, sempre in assoluto silenzio, di notte, o magari approfittando di scarse condizioni di visibilità.
Il martello pneumatico

Gli italiani erano piuttosto attrezzati rispetto agli avversari: avevano trasportato dentro le montagne, spesso in modo mirabolante, generatori e compressori d’aria che alimentavano i martelli pneumatici, preziosi strumenti che, in momenti di emergenza, consentivano anche di scavare 10 m di galleria al giorno. (La loro invenzione, del 1894, si deve a un americano, Charles Brady King, un poliedrico personaggio che fu, tra l’altro, anche pittore, poeta, architetto e musicista).
Gli austriaci, che di solito scavavano dall’alto verso il basso, invece, procedevano più spesso a mano, con scalpelli e picconi tanto che, per limitare il fronte di scavo, le loro gallerie erano molto più anguste, generalmente larghe circa 80 cm e alte 1,5 m.

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Austriaci alle prese con un martello pneumatico
Inseguimento sotterraneo

L’obiettivo di queste gigantesche fabbriche montane era anche quello di intercettare i tunnel scavati dai nemici. Nelle gallerie fecero la loro comparsa i geofoni, strumenti acustici che consentivano di captare, attraverso la roccia, il rumore degli scavi avversari e di calcolare la loro direzione e velocità di avanzata. A volte, le gallerie nemiche arrivavano così vicine da rendere inutile l’uso degli apparati di ascolto. Scriveva, in una lettera a casa, il soldato Luigi Panigale: “Il rumore delle perforatrici lo si poteva adesso avvertire del tutto chiaramente e senza nemmeno appoggiare l’orecchio alla roccia. Gli austriaci potevano essere lontani al più una ventina di metri. Ma era strano: quel rumore mi tranquillizzava: finché continuavano a lavorare significava che non erano ancora pronti e, finché non erano pronti, noi potevamo sopravvivere”.
Gli scavi continuavano incessantemente, anche per 24 ore al giorno. Il frastuono dei martelli pneumatici, la polvere, l’oscurità, l’odore dei corpi al lavoro e delle lampade a petrolio, la costante paura di essere sepolti da un crollo provocato da un’esplosione nemica, facevano sì che perfino i pattugliamenti all’esterno, benché esposti al gelo e al tiro dei cecchini nemici, fossero accolti con sollievo dai soldati.

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Galleria da mina sul Col di Lana
Mine famose: il col di Lana

All’inizio del 1916, il Comando supremo ordina di piazzare una mina sotto la cima dell’imprendibile Col di Lana (2.454 m) anche detto “Col di Sangue” perché sulle sue pendici erano caduti circa 8000 fanti.
Ci vogliono circa 90 giorni per scavare il sistema di gallerie; alla metà di aprile, gli austriaci hanno capito, dalla fine del rumore degli scavi, che la loro ora sta per suonare. Tuttavia, il nostro fuoco d’artiglieria e gli ordini superiori di non abbandonare la postazione li trattengono sulla cima in una drammatica attesa.
Alle 23.30 del 17 aprile, 5 tonnellate di gelatina vengono fatte brillare dai genieri italiani. L’esplosione è gigantesca e produce un cratere largo circa 50 m e profondo 12. Circa cento Kaiserjeager rimangono uccisi, mentre i restanti 140 vengono fatti prigionieri dai nostri soldati mandati all’attacco subito dopo l’esplosione. Il Col di Lana rimarrà italiano fino al 2 novembre 1917, quando, con il ripiegamento sul Grappa ordinato dopo Caporetto, le nostre truppe dovranno abbandonare quella montagna così duramente conquistata. Ancor oggi sul Col di Lana è visibile l’enorme cratere lasciato dalla mina sulla sua cima.

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Il Forte Corte austriaco dopo il brillamento della mina italiana sul Col di Lana
Il Castelletto di Cecco Beppe

Altra operazione italiana ben riuscita, sebbene di dimensioni più limitate, fu la mina della sella del Castelletto della Tofana di Rozes. Fu voluta dal Comando supremo per eliminare un roccione nel quale gli austriaci avevano scavato un sistema di gallerie con feritoie dotato di micidiali mitragliatrici e cannoncini a tiro rapido.
La galleria fu scavata in condizioni proibitive per circa 400 metri fino a consentire di collocare sotto al Castelletto 35.000 kg di gelatina. La mina esplose alle ore 3,30 del giorno 11 luglio 1916 e polverizzò la postazione nemica. Per l’esplosione morirono 13 austriaci e altri 4 caddero dopo pochi giorni di combattimento, consegnando la vittoria agli Alpini. Altri successi furono ottenuti sul Colbricon e sul Pasubio.

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Mina sul Pasubio (Museo storico italiano della guerra di Rovereto)
Incidenti e insuccessi

Non sempre questa tattica raggiungeva lo scopo. A volte, come sulla Marmolada, il crollo delle gallerie avversarie non produsse perdite tra le file nemiche. In certi casi, anche dopo il riuscito brillamento, non si riusciva a conquistare la posizione nemica, come avvenne per il Monte Rotondo. La mina sotto il Monte Zebio, invece, esplose accidentalmente a causa di un fulmine provocando la morte di 100 italiani e di 35 austriaci.
“Tali incidenti – spiega Tiziano Berté, collaboratore del Museo storico italiano della guerra di Rovereto – si dovevano al fatto che spesso, per comodità, si impiegavano inneschi elettrici, più immediati ed economici rispetto alle micce. Il problema era che a volte, i fulmini potevano innescarli. Ancora nel 2008, sul Monte Baldo, durante un temporale, è scoppiata una mina interrompendo la strada provinciale che porta da Ferrara del Monte Baldo a Bocca di Navene. La strada era stata costruita dal Regio Esercito tra il 1915 e il 1916 e, lungo il suo tracciato, erano state infatti predisposte delle mine – mai disinnescate - per eventuali interruzioni stradali”.
L’ultima esplosione

La tattica delle mine fu attuata non solo sui fronti montani, ma anche sull’Isonzo e sul Carso con l’impiego di cariche ridotte, ma altrettanto efficaci.
Gli austriaci, da parte loro, infersero un duro colpo al Regio esercito facendo saltare la vetta del Monte Cimone, nel 1916, con 1137 morti, feriti o dispersi tra i nostri militari.
La guerra di mine si concluse nel marzo del 1918 sul Pasubio quando gli asburgici fecero esplodere la carica più grande della guerra di montagna anticipando la contromina che gli italiani stavano approntando. 50 tonnellate di esplosivo fecero crollare tutta la parte anteriore del Dente italiano seppellendo 40 nostri soldati sotto la frana. Tuttavia, per la potenza dell’esplosione, la vampa di calore invase le gallerie uccidendo anche diversi soldati austriaci. Fu con questo drammatico bilancio di perdite reciproche che la guerra di mine venne definitivamente accantonata da entrambi gli eserciti.

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