Come nascono certe passioni a volte è davvero difficile da spiegare. La mia “fatale” infatuazione per la Grande Guerra ha origini lontane e ben definite ed ha origine da quella tradizione di racconto delle storie familiari che ormai, purtroppo, si sta perdendo. Spesso quando ero bambino, prima di addormentarmi, chiedevo a mia mamma e a mio papà, invece di leggermi una favola, di raccontarmi le storie dei loro nonni, i miei bisnonni. Non aveva conosciuto nessuno di loro ed ero avido di racconti. Capitava spesso che mi perdessi a fantasticare guardando le loro foto d’epoca. A casa dei miei nonni passavo ore con loro a sfogliare gli album di foto di famiglia e di storie da raccontare… ce n’erano davvero tante e spaziavano in ogni direzione. La storia che prediligevo era però quella su cui, a conti fatti, si sapeva meno di tutte: la storia di mio bisnonno Giacomo, il padre di mio nonno materno, reduce della Grande Guerra.
Unico custode di questi ricordi era mio padre a cui il suo nonno aveva confidato da bambino, di sfuggita, quasi distrattamente, alcuni racconti della sua esperienza di guerra. Tutti i parenti erano rimasti esterrefatti. Giacomo non aveva mai raccontato nulla a nessuno: nulla alla moglie, sposata subito dopo la guerra, nulla ai due figli maschi, nulla ai fratelli, tutti più giovani di lui. La “sua” guerra era quasi un argomento tabù. Se non era lui a parlarne, certamente nessuno sarebbe andato a chiedergli nulla. Un meccanismo, questo, assai ricorrente nelle famiglie dei reduci che purtroppo spesso causa, alla morte del protagonista di queste esperienza, l’oblio completo di queste storie.
Ma quelle poche parole dette a mio padre, quattro o cinque flash, sono decisamente più
che sufficienti per delineare la storia di uno dei tanti soldati italiani della Grande Guerra, sbattuti al fronte con un addestramento sommario, in trincea, a vivere sulla propria pelle l’esperienza massima di dolore e sofferenza della vita di un uomo.
I racconti mi stregarono e da lì cominciò una spirale di passione e di ricerca che mi ha portato oggi a sapere ben di più sulla vicenda di mio bisnonno di quanto mai nessun altro mio parente abbia mai saputo, e ad essere in grado di poterla raccontare con una dovizia di dettagli e di scansioni temporali abbastanza precise.
Giacomo Bollini era nato il 27 agosto 1896 a Castel San Pietro da una tipica famiglia di contadini che, tutto sommato, fra alti e bassi, non se la cavava poi così male. Aveva ricevuto per l’epoca anche una buona istruzione, dato che sapeva leggere e scrivere abbastanza bene: una cosa non da tutti.
Il 1° dicembre 1915 venne richiamato alle armi ed inquadrato nel 72° reggimento fanteria della brigata Puglie. Come tanti altri soldati in partenza colse l’occasione per fare una bella foto in divisa in posa in uno studio di un fotografo.
Questa foto, oggi arrivata in mio possesso, mostra un ragazzo di neanche 20 anni, con la faccia un po’ spaurita, con una sigaretta fra le dita di una mano, come per darsi un tono, con uno sguardo ancora libero dalle brutture che di lì a breve dovrà vedere.
Ben diverso sarà il suo sguardo in una foto successiva, del 1917, così come anche l’aspetto e la magrezza, tanto che, sul retro di questa seconda foto, Giacomo scrisse “Non osservare la magrezza che non sono presso male. Salutissimi, tuo sano, Giacomo”, come a voler rassicurare la famiglia nonostante la prova evidente del suo stato fisico peggiorato. Ma di questa seconda foto è lo sguardo a colpire. Uno sguardo ben diverso, duro, rassegnato, rispetto a quello ritratto in foto alla partenza.
Di guerra sulle spalle, fra le due foto, Giacomo ne aveva già parecchia. A gennaio 1916 avvenne il suo trasferimento nel 211° della brigata Pescara, brigata appena formatasi, con cui stette giusto il tempo di completare l’addestramento nelle retrovie venete. Quando la brigata venne inviata sull’altipiano di Asiago nel maggio 1916, Giacomo venne trasferito al 227° reggimento della brigata Rovigo con cui cominciò la sua guerra combattuta. La Rovigo venne anch’essa spedita su in altipiano ed ebbe il suo battesimo del fuoco fra i monti Colombara e Zingarella, non lontano dal più famoso monte Zebio, dove sono ambientate le vicende narrate da Lussu in “Un anno sull’altipiano”. Dopo questa parentesi, alla Rovigo toccò un trasferimento verso la zona di Gorizia, appena conquistata: servizio di trincea nella zona paludosa della Vertojba, una guerra infame, fatta di fango, vita di trincea con l’acqua alle ginocchia e un ambiente insalubre.
Fu probabilmente qui che Giacomo credette di poter dare una svolta alla sua vita da

Recto e verso della stessa foto, spedita a casa probabilmente da Brescia, con la divisa da mitragliere: “Non osservare la magrezza che non sono presso male…”
militare con la divisa grigioverde indosso. Probabilmente su base volontaria, si offrì per partecipare al corso da mitragliere a Brescia, presso la scuola dei mitraglieri, probabilmente confidando nella speranza che in questa pausa fra gli eventi, la guerra finisse, vittoriosa, come annunciavano sempre i giornali.
Ma così non fu. Il 1917 lo vide nuovamente in trincea, questa volta con le mostrine biancorosse dei mitraglieri sul bavero della giacca. Era caporale maggiore mitragliere della 1438° compagnia mitraglieri, aggregata al 225° reggimento della brigata Arezzo.
È qui che la sua guerra, invece, vive i momenti più brutti ed è in questo periodo che sono ambientati i racconti fatti poi al nipotino (mio padre) decenni dopo. Brigata sfortunata la Arezzo. Una sola parola chiave definisce l’esperienza di guerra di questo reparto: Carso. Dalla sua creazione la Arezzo presidiò sempre il settore di Monfalcone, a ridosso del mare, uno dei fronti più terribili, dove la guerra di posizione sublimò; uno dei fronti su cui maggiormente gli italiani tentarono di forzare la linea austriaca andando però a cozzare contro la cosiddetta “fortezza Hermada”, il monte che non poteva cedere. Fu qui che fra Flondar, Medeazza e le foci del fiume carsico Timavo Giacomo visse i momenti più brutti della sua esistenza. Fu qui che lui e i suoi commilitoni provarono la sete, la vera sete, quella che porta quasi alla pazzia. Il Carso è avaro d’acqua e non sempre i rifornimenti del prezioso liquido riuscivano ad arrivare in ogni trincea, in ogni dolina. Fu qui che lui e i suoi commilitoni, pur di sopravvivere, bevvero la propria urina, come raccontò a mio padre, orinando a turno dentro ad un contenitore, l’acqua di raffreddamento delle loro preziose mitragliatrici Fiat modello 1914, che senza acqua si sarebbero sicuramente surriscaldate diventando inservibili. Fu sempre qui che, come raccontò, quando finì un duro turno di trincea, durante un cambio, di notte, lui e i suoi commilitoni, vedendo alla luce della luna delle pozze di liquido a terra si misero a bere come animali, a carponi, per placare la sete e dare sollievo alle loro gole riarse, per poi scoprire a giorno fatto che si trattava di pozze di sangue.
Questi furono i racconti del mio bisnonno: non gesta eroiche, non combattimenti e assalti. Nei suoi ricordi martellava ancora la sete provata sul Carso.
Eppure, da quella guerra, Giacomo tornò anche con un’onorificenza appuntata sul petto: una croce al valor militare. Certamente una delle onorificenze minori, ma che delinea comunque la sua storia. Negli anni ho scoperto di più a proposito di questa croce, meritata per il combattimento di Capo Sile del giugno 1918, quando infuriava la battaglia del Solstizio sul Piave.

Il diploma della croce di guerra al valor militare che ancora oggi conservo e la motivazione dell’atto per cui fu meritata l’onorificenza
La sua onorificenza recita: “Durante la difesa di una posizione spiegava fermezza di carattere e grande ascendente, e riusciva con raffiche di fuoco ben aggiustate, a fiaccare l’impeto del nemico”.
Ho studiato l’avvenimento e sono andato sui luoghi di quel combattimento. Al di là del Sile, ancora oggi, c’è un grande edificio, l’Agenzia Zuliani. Qui la 1438° compagnia mitraglieri di mio bisnonno fu lasciata a copertura di un ripiegamento del 225° dietro il fiume, sull’argine San Marco: un aggiustamento della linea a seguito degli attacchi austriaci.
Compito dei mitraglieri era di trattenere l’avanzata austriaca. Fu qui che Giacomo meritò la sua croce ed è in questo combattimento che è ambientato il suo solo ricordo tramandato di guerra combattuta. Finite le munizioni, così raccontò, lui e un commilitone, per sopravvivere all’avanzata degli austriaci, ormai a ridosso della posizione, si finsero morti, nascondendosi fra i cadaveri di alcuni compagni per poi rientrare a loro volta nelle linee sani e salvi. Non ci sono altri racconti o altri avvenimenti da raccontare sulla guerra di Giacomo Bollini. Rientrato nel 1919 a casa, si sposò, ebbe due figli. Si trasferì a Bologna e intraprese il mestiere che fece per tutta la vita: il facchino. Socialista e antifascista convinto, durante la Seconda Guerra Mondiale, si ricorda ancora in famiglia, donò tutto il suo stipendio appena ritirato ad alcuni suoi conoscenti partigiani che lo erano venuti a trovare a casa ad ora di cena, fra lo stupore di tutti i membri della famiglia che, raccolti tutti e 14 intorno al tavolo di cucina (il tavolo che ancora oggi usa la mia famiglia per mangiare), aspettavano che si mettesse a sedere il capo famiglia. Nel 1944 fu salvato dal fratello minore Amedeo (fra i fondatori della storica sartoria “Bollini”), assieme a mio nonno 17enne, da una retata dei repubblichini che cercavano uomini da arruolare, solo perché si nascose fuori da una finestra del primo piano di una casa di via Oberdan, in bilico su un cornicione. Ancora oggi, passando davanti a quella casa guardo quel cornicione con emozione pensando a mio bisnonno e a mio nonno lì nascosti, appiattiti per non farsi notare.
Per tutto il resto della sua vita Giacomo non parlò mai della guerra. Di tanto in tanto

A sx Giacomo Bollini, raramente sorridente a Reggio Emilia in compagnia del suo vecchio commilitone di Capo Sile
andava a trovare un suo vecchio commilitone a Reggio Emilia, di cui purtroppo si è perso il nome: il commilitone con cui si nascose fra i cadaveri a Capo Sile. Di questo suo compagno non rimane che una foto, in vecchiaia: siedono l’uno accanto all’altro, con un’espressione allegra, che certamente non era una delle espressioni più semplici da vedere sul viso di mio bisnonno.
Un’altra amicizia che mio bisnonno conservò dalla Grande Guerra fu quella con il medico del distretto di Bologna. La natura del legame che c’era fra loro mi è sconosciuta ma risale alla guerra. Questo rapporto di amicizia fu “sfruttato” ad arte da mio bisnonno che pur di risparmiare al suo figlio maggiore (mio nonno) il servizio militare, ricorse ad un’indecorosa raccomandazione. Fu così che mio nonno, che aveva un fisico da toro e per diletto faceva il pugile, fu riformato alla visita di leva per “deficienza toracica”: una bugia bella e buona, ma che risparmiò al mio nonno un anno, se non più, di servizio di leva.

Quadretto commemorativo con un motto a firma del colonnello del 225° reggimento fanteria Gabriele Vallo, donato (insieme ad una medaglietta ormai perduta) al caporal maggiore Giacomo Bollini in ricordo degli scontri sostenuti sul Piave e sul Sile dal reparto
Quando mio bisnonno morì, nel 1970, i suoi figli vollero mettere sulla sua tomba, come spesso si usava fare, il titolo onorifico di Cavaliere di Vittorio Veneto a fianco del suo nome. Probabilmente lui, che della guerra non voleva mai parlare, e che aveva conservato diplomi di medaglie e di cavalierato piegati in cantina fra tanti altri documenti, senza mai fregiarsene, non avrebbe approvato.
Oggi, a cento anni dai giorni che lo videro involontario protagonista di quegli eventi, io, che porto orgogliosamente il suo nome e che non l’ho mai conosciuto, e che ai suoi ricordi tramandati a mio padre devo la passione dei miei studi, mi impegno solennemente e non dimenticarlo, lui e tutti gli altri, tramandando e raccontando, perché la sofferenza umana non ha data, non ha differenze fra ieri, oggi e cento anni fa.

La grande casa di via Mazzini, di fronte al liceo Fermi, in cui abitò sempre la famiglia Bollini. Nella foto mio bisnonno Giacomo, sua moglie Agnese (tipica “zdaura” bolognese) e mio padre, dodicenne, forse proprio nel periodo in cui Giacomo gli confidò i suoi ricordi di guerra

Gennaio 1955, mio bisnonno Giacomo, in una delle rare foto in cui sorride, convalescente per un’operazione allo stomaco, con in braccio, ornato di un cappello di carta, mio padre Paolo appena nato, il suo primo nipote, futuro confidente dei suoi pochi racconti di guerra