“Solo 24 ore di tempo per fuggire”. Il piano escogitato da Palatucci per salvare la famiglia ebrea Sachs de Grič
Il 10 febbraio di settantantatrè anni fa, dopo essere stato arrestato dalla Gestapo nel suo appartamento di via Pomerio, si spegneva ad appena 35 anni nel campo di concentramento di Dachau l’ex questore reggente di Fiume Giovanni Palatucci. Si sarebbe potuto salvare se solo avesse ceduto alle forti pressioni esercitate nei suoi confronti da alcuni amici, ma non lo fece perché, come scriveva egli stesso ai genitori l’8 ottobre 1941 aveva ancora la «possibilità di fare un po’ di bene», rappresentando, evidentemente, in quel momento l’unica ancora di salvezza per tanti perseguitati.
Tra coloro che beneficiarono del suo aiuto bisogna annoverare anche la famiglia di Clotilde (detta Lilly) Sachs de Grič, sorella di un suo caro amico, l’avv. Niels Sachs de Grič, persona molto nota nella città quarnerina, nonché legale della curia fiumana e, fin dal 1921, finanche consulente della Segreteria di Stato. In più di una circostanza, evidentemente, il barone Sachs de Grič si era rivolto a Giovanni Palatucci per essere aiutato a sbrogliare qualche faccenda piuttosto complicata, come del resto si evince chiaramente anche dalla lettera del 25 settembre 1952 indirizzata allo zio vescovo del giovane funzionario della questura fiumana, mons. Giuseppe Maria Palatucci, nella quale sottolineava che:
«Ho avuto, durante gli anni della Sua permanenza a Fiume, la fortuna di avvicinare spesso il Suo nipote ed ho avuto in tal modo la possibilità di ammirare le di Lui non comuni doti di spirito e di cuore. […] Ricordo ancora con speciale gratitudine e commozione le prove di amicizia avute dal nostro Eroe quando volle sfidando l’ira dei suoi diretti superiori, il Prefetto ed il Questore di quel tempo, prendere congedo da me, che dovetti per motivi politici lasciare la mia città natale – Fiume – per essere mandato al confino. […] credo di fare cosa gradita all’Eccellenza Vostra Rev.ma inviandole questo ritaglio di giornale che dimostra la riconoscenza imperitura dei beneficiati dell’ottimo mio caro amico, Suo esemplare nipote.»
Lettera del Barone Niels Sachs di Gric a mons. Giuseppe Maria Palatucci, 25 settembre 1952.
La sorella Lilly, vedova di Milan Kremsir, a quel tempo, viveva a Fiume in via XXX Ottobre 17, con i suoi due figli Boris, procuratore legale a Sušak e Xenia che aveva sposato Alexander Salomon Lipschütz, rampollo di una famiglia ebrea di origini polacche ed amministratore delegato dell’azienda paterna dedita all’esportazione di legnami dal quale, il 15 agosto 1938, aveva avuto un bambino di nome Igor. Come si evince dai documenti rinvenuti nell’archivio di Stato di Fiume, Lilly Sachs de Grič-Kremsir, in più di una circostanza – come ad esempio il 29 giugno 1942 e il 5 luglio dell’anno successivo – si era rivolta a Palatucci per ottenere dei lasciapassare che consentissero a lei e al figlio Boris di accompagnare il nipotino Igor presso la clinica del prof. Delić a Padova, per essere sottoposto ad una visita pediatrica, e poi, eventualmente, a Montecchio Maggiore – un paesino in provincia di Vicenza dove, proprio in quel periodo – dopo essere stati sfollati da Fiume a Pazzon una frazione di Caprino Veronese – avevano trovato rifugio, sotto mentite spoglie, nell’abitazione di Giuseppe Priante il fratello e la sorella del genero, Jankiel e Carol Lipschütz.
«Mia madre – dichiara la figlia, Rosana Rosatti – mi raccontava che quando il fratello Jankiel era in prigione a Fiume, proprio grazie all’intercessione di Palatucci, usufruiva di alcune facilitazioni, ma non solo. Un giorno, appena venne a sapere che la Gestapo era sulle loro tracce, chiamò mia madre e le fece capire chiaramente quali erano i piani dei nazisti e che, se volevano salvarsi, avevano soltanto 24/48 ore di tempo per fare i bagagli e lasciare Fiume seguendo le sue indicazioni».
Qualcosa del genere accadde anche alla famiglia Kremsir tant’è che, mentre si accingevano a partire per l’Inghilterra, ad un tratto si verificò qualcosa d’imprevisto che li costrinse a cambiare i loro piani e far perdere rapidamente le proprie tracce. A quel punto bisognava trovare al più presto un nascondiglio sicuro per tenerli lontani da occhi indiscreti. È a questo punto che entra in gioco il giovane funzionario della questura di Fiume. Subito contattò, nel più stretto riserbo, un certo colonnello Luzzi originario di Torino, il quale gli consigliò di trasferire la famiglia Kremsir a Cavaglià, nel Biellese, presso l’abitazione di una sua cognata, Rosetta Visconti, che sorgeva proprio all’inizio del paese, nei pressi di via Generale Salino.
Il viaggio presentava notevoli rischi e, per non mettere a repentaglio la loro vita, Palatucci decise di affidare questo delicato incarico ad Americo Cucciniello, il suo braccio destro che si occupava delle missioni più difficili. Difatti, come racconterà egli stesso diversi anni dopo proprio in quel periodo:
«spesso accompagnav(a) le famiglie di ebrei in pericolo di essere internate dai tedeschi nei Lager verso l’interno dell’Italia, presso monasteri, istituti ecclesiali, altre persone amiche private. In particolare ricordo un episodio: la famiglia ebrea Sachs, composta dalla sig.ra Lilly, da un fratello Boris e da un bambino figlio di una figlia sposata con un ufficiale aviatore polacco della RAF; questo bambino Igor […] fu da me accompagnato su esplicito ordine del dottor Palatucci, a Cavaglià per rimanere nascosti presso una famiglia di amici».
Qui la famiglia Kremsir visse indisturbata per ben due anni e, per non esporli al pericolo di qualche delazione, fu osservato il più stretto riserbo, tant’è che come ci conferma anche Carla Forzani, a quel tempo giovane domestica della famiglia Visconti, in paese nessuno fu mai messo al corrente di questa vicenda, eccetto lei ed il parroco don Amilcare Garbaccio i quali, tuttavia, seppero mantenere scrupolosamente la consegna del silenzio.
«Ricordo – dichiara la signora Forzani – che in quel periodo i tedeschi sono venuti per lo meno tre volte ad ispezionare la casa – dove tra l’altro erano rifugiati anche un colonnello e un altro militare fuggiti da Fiume con le loro mogli – e in quelle circostanze battevano forte sulle pareti e sul pavimento per sentire se c’erano dei vuoti. Appena noi ci accorgevamo che stavano per arrivare subito avvertivamo i rifugiati cosicché, in un batter d’occhio, s’infilavano in uno sgabuzzino e correvano a nascondersi sotto il tetto, dove restavano sdraiati finché il pericolo non fosse scampato. La signora Lilly, invece, rimaneva in fondo alla camera in una stanzetta e si metteva lì a stirare facendo finta di niente».
Appena terminarono le ostilità i Kremsir, dopo un breve soggiorno a Roma, raggiusero Xenia a Londra che, insieme al marito, era ormai riuscita ad ottenere la naturalizzazione inglese rinunciando finanche al cognome originario per assumere quello di Lester.
Che l’attività di Palatucci in quel periodo fosse, per così dire, alquanto movimentata lo testimonia del resto anche lo stesso Americo Cucciniello laddove afferma che:
«[prima dell’armistizio] per facilitare i contatti e/o presentare persone veniva, in ufficio, il rabbino “Deutesch”, il quale faceva da intermediario per ebrei che venivano dalla Germania e da tutto l’Est europeo [… per i quali] si aveva particolare attenzione nel favorire il lasciapassare verso la libertà o verso i paesi liberi».
Tutto ciò trova puntuale conferma anche dal racconto di Franco Avallone, figlio della Guardia Scelta di P.S. Raffaele Avallone, stretto collaboratore di Palatucci, il quale riferisce un interessante episodio che vide per protagonista il giovane funzionario dell’ufficio stranieri della questura di Fiume, la madre Anna Casaburi e l’allora rabbino di Sušak, nonché referente locale della Delasem, Otto Deutsch, che a quel tempo si prendeva cura dei profughi ebrei provenienti dalla Croazia in seguito all’emanazione delle leggi antisemite ad opera del poglavnik ustaša Ante Pavelić.
«Ricordo – dichiara Avallone – che mio padre spesso usciva con Palatucci per organizzare il salvataggio di molte persone, per la maggior parte ebree, cercando di trovare una sistemazione sicura per poi smistarle in altre città d’Italia, dove poteva contare su riferimenti sicuri. In seguito anche mia madre fu coinvolta nel salvare numerosi ebrei. Infatti, secondo la versione ufficiale, spesso si recava a Sušak per acquistare delle primizie agricole provenienti dalle campagne circostanti, ma in effetti lo scopo principale era quello di conoscere quanti ebrei aspettavano di varcare i confini con l’Italia. Nella zona di Sušak – continua Avallone – operava il Rabbino Deutsch che era un punto di riferimento importante per gli ebrei dei paesi dell’Europa orientale. Il commissario Palatucci aveva creato con lui, attraverso una rete di amici comuni, una strada per salvare tanti ebrei dai campi di sterminio».
Proprio per questo motivo, il 21 giugno 1941, aveva fatto rilasciare dalla questura di Fiume alla moglie del suo collaboratore una Tessera di frontiera per il confine Jugoslavo.
Disquisire sul numero dei salvati è un conto, spingersi fino al punto da ritenere Palatucci addirittura un collaborazionista dei nazisti ci sembra, francamente, un po’ troppo. Del resto anche se avesse salvato una sola persona, secondo il ben noto principio talmudico, meriterebbe lo stesso rispetto e ammirazione.
Quanto scritto fin qui è soltanto un breve stralcio di ciò che chi scrive ha riportato nel volume “La rete segreta di Palatucci: fatti, retroscena, testimonianze e documenti inediti”, dato alle stampe su Amazon, nel dicembre 2015, in cui ho raccolto tutte le mie ricerche condotte dall’estate del 2013 ad oggi, dove potrete trovare questo e tanto altro ancora con testimonianze e documenti inediti.
Per ulteriori delucidazioni vi rimando alla lettura del seguente articolo pubblicato su History Files che potrete trovare cliccando il seguente link: http://historyfiles.altervista.org/nuova-pubblicazione-la-rete-segreta-di/
© Giovanni Preziosi, 2018