Serafino e il «miracolo» dell’Inps All’alpino ferito niente più pensione

Sospeso il contributo al reduce di guerra nonostante le schegge di ferro in una gamba e in un polmone, rimediate in un campo minato in Russia nel ‘42. I figli: «Non siamo riusciti ad avere una spiegazione, non è una questione di soldi ma di rispetto»
di Anna Gandolfi
Questa è la storia di due schegge di metallo sparite nel nulla dopo oltre settant’anni: si erano conficcate nel polmone e nella gamba di un malcapitato alpino, lasciandolo moribondo. Poi lui miracolosamente si è ripreso, tenendosi addosso le ingombranti compagne di viaggio tra operazioni e cure, ritorno a casa, nozze, nascita di due figli. Fino a che, dalla sera alla mattina, le schegge sono scomparse: dove non hanno potuto i medici, ha potuto l’Inps. Almeno in senso burocratico. L’istituto di previdenza ha infatti chiesto indietro al malcapitato (di nuovo) ex militare, che si chiama Serafino Preda e oggi ha 95 anni, il contributo riservato agli ex combattenti. La raccomandata firmata dalla direzione provinciale è laconica: «A quella maggiorazione lei non ha diritto».

Preda, di Valbrembo, poco più che maggiorenne viene arruolato con gli alpini e spedito in Russia. Dalla Campagna, diversamente da molti compagni, torna. Ma è malridotto. «Eravamo a Rostov — ricorda —. Con il calare delle tenebre, a turno, si doveva uscire di pattuglia sulle rive del Don». Era il novembre 1942. Una notte scoppia l’inferno. «Non saprei dire la data — prosegue Preda —. Perdevamo la cognizione del tempo. Quella sera finimmo in un campo minato. Un piede in fallo, e bum. Saltò una mina». Una scheggia arroventata gli penetra nella gamba sinistra, una nel polmone destro, lui cade a faccia in giù nella neve. «Il sangue è fuoriuscito e la ferita al petto non mi ha ucciso».

I soccorsi arrivano dopo ore interminabili: gli «Arditi» lo portano nelle prime retrovie e lo caricano su un treno che poi viene bombardato. Di nuovo, Serfino si salva. Intervengono i tedeschi, che recuperano i superstiti e li inviano prima nel loro ospedale di Gomel e poi in quello di San Giovanni in Persiceto. Il 16 marzo 1943 Preda torna a casa. «Papà venne congedato — spiegano i figli Lucio e Franca —. Le schegge non vennero mai tolte». Il reduce trova lavoro alla Legler di Ponte San Pietro. La sua pensione, oggi, si compone di tre voci: anzianità, reversibilità della moglie scomparsa, una piccola quota da ex combattente. «Quota che però viene cancellata a un certo punto, come nulla fosse». La cifra contestata è irrisoria: 203,13 euro per il periodo che va da gennaio 2014 a novembre 2015, cioè 8,8 euro al mese. La raccomandata è del 2016, parla di «maggiorazione per gli ex combattenti non spettante» e comunica che sarà trattenuta dalla pensione. Serafino a questo punto si chiude nel silenzio per l’amarezza. «Non fatemi più dire nulla». E i figli: «Inutile cercare spiegazioni: abbiamo girato uffici su uffici, ma niente. Come è possibile che adesso papà non abbia più diritto a qualcosa che percepisce dalla guerra? Che quella ferita nel 2014 sia sparita per la burocrazia? Ci dicevano: fate ricorso. Abbiamo gettato la spugna, non è una questione di soldi, ma di rispetto. Chi ha combattuto per lo Stato viene trattato così?».

La richiesta dell’Inps risulta essere frutto di un bizantinismo legal-burocratico all’italiana, che comincia con una legge del 1970 sui contributi agli invalidi di guerra e s’infila nei meandri delle logiche perequative della Legge Fornero: la pensione dell’alpino dal 2014 viene tagliuzzata, sparisce il versamento per servizio in prima linea, se ne chiede anzi indietro una quota. La situazione che non riguarda solo Preda, tanto che la materia è all’esame dei tribunali amministrativi. «Di certo, ciò che è stato trattenuto non verrà risarcito — concludono Lucio e Franca —. Chi vota leggi e poi non rinuncia a vitalizi almeno rifletta sull’amarezza che causa. Combattere e vivere con due pezzi di ferro nel corpo è stato ed è un handicap per papà. Anche se non abbastanza, per lo Stato».