Savoia, in Italia la salma di Vittorio Emanuele III, il re inadeguato che non capì il fascismo

Gracile nel fisico, debole nel carattere: nella sua carriera due macchie indelebili:l’aver sempre assecondato il volere di Mussolini e l’aver lasciato il Paese allo sbando dopo l’8 settembre
di Antonio Carioti
Il giovane Vittorio Emanuele III aveva appena 31 anni quando salì sul trono del Regno d’Italia in circostanze assai tragiche. Suo padre Umberto I, il cosiddetto «re buono», ma in realtà piuttosto reazionario, era stato appena ucciso a Monza il 29 luglio 1900 dall’anarchico Gaetano Bresci, che non gli perdonava l’onorificenza concessa al generale Fiorenzo Bava Beccaris, responsabile degli eccidi compiuti dall’esercito a Milano per reprimere i moti del 1898. Rispetto a questo retroterra drammatico, Vittorio Emanuele III si caratterizzò all’inizio come una monarca illuminato: concesse subito un’amnistia per alcuni reati politici, assecondando la distensione e l’apertura alle masse popolari dopo la fallita svolta autoritaria di fine Ottocento. Infatti i primi anni del XX secolo si caratterizzarono per la leadership di Giovanni Giolitti, un liberale moderato, ma disposto ad attuare riforme e a dialogare con la sinistra, socialisti compresi.

Il fisico, il carattere

Nato l’11 novembre del 1869, il nuovo re aveva sposato nel 1896 Elena del Montenegro, una principessa dal lignaggio non elevatissimo, ma in compenso di sana e robusta costituzione, che contrastava in positivo rispetto alla bassa statura del marito, afflitto da rachitismo. C’è chi pensa che la scarsa prestanza fisica di Vittorio Emanuele III, alto solo un metro e 53 centimetri soprattutto per via delle gambe corte e gracili, ne abbia in qualche modo indebolito anche il carattere, rendendolo irresoluto in alcune fasi cruciali del suo regno. Comunque il matrimonio con Elena risultò felice e fecondo: i due ebbero la prima figlia Jolanda nel 1901, circa un anno dopo l’ascesa al trono del sovrano. Seguirono Mafalda (1902), Umberto (1904), Giovanna (1907), Maria Francesca (1914). La prima prova importante venne tra il 1914 e il 1915, di fronte alla Prima guerra mondiale. Per nulla affezionato alla Triplice Alleanza con Germania e Austria-Ungheria, Vittorio Emanuele III prima favorì la neutralità italiana, poi avallò la linea del governo Salandra, che voleva portare l’Italia a schierarsi dalla parte opposta, al fianco di Francia, Gran Bretagna e Russia. Un colloquio del re con Giolitti, che non approvava l’ingresso nel conflitto, fu probabilmente decisivo per aprire la strada all’intervento in guerra del maggio 1915, che vedeva contraria la maggioranza del Paese e della stessa Camera dei deputati.

Il «re soldato» e la tragedia del fascismo

Esaltato dalla propaganda di guerra come il «re soldato» per la sua assidua presenza nei pressi del fronte, nonostante l’aspetto assai poco marziale, Vittorio Emanuele III si dimostrò decisamente inadeguato rispetto alla crisi politica seguita alla faticosa vittoria del 1918. Non capì, come molti altri, la natura totalitaria del fascismo e pensò che si potesse utilizzarlo per riportare l’ordine in un Paese sconvolto dalle agitazioni sociali. Nell’ottobre 1922, mentre le camicie nere marciavano su Roma, rifiutò di firmare lo stato d’assedio, proposto dal governo del liberale Luigi Facta, che avrebbe presumibilmente messo in scacco gli squadristi. Preferì invece affidare a Benito Mussolini l’incarico di formare il nuovo esecutivo, aprendo la via alla cancellazione delle libertà costituzionali. Forse il re temeva che settori dell’esercito non avrebbero accettato di contrapporsi al fascismo. Forse vi furono contrasti all’interno della stessa casa reale. Di certo Vittorio Emanuele III pose l’Italia su un piano inclinato e poi non fece nulla per fermarne lo slittamento progressivo verso la dittatura, nemmeno durante la crisi provocata nel 1924 dal delitto Matteotti, che per qualche mese indebolì seriamente Mussolini. Il sovrano accettò e controfirmò così tutte le scelte del regime littorio, anche le più sciagurate: lo scioglimento di partiti e sindacati, la soppressione delle libertà individuali e collettive, l’avventura coloniale in Etiopia, l’alleanza con la Germania nazista, le leggi razziali, la dichiarazione di guerra alla Gran Bretagna e alla Francia (quest’ultima già ridotta in ginocchio dalle armate tedesche) nel giugno 1940, la successiva proditoria aggressione alla Grecia.

L’ombra incancellabile dell’8 settembre

Si creò in Italia una sorta di dualismo tra la monarchia e il fascismo, in cui però quest’ultimo tendeva a prendere il sopravvento, tanto da arrogarsi il diritto di dire la propria sulla successione al trono. Solo di fronte all’andamento catastrofico della Seconda guerra mondiale Vittorio Emanuele III cercò di separare la sorte della monarchia da quella del regime. Approfittò del voto contrario a Mussolini del Gran Consiglio del fascismo, il 25 luglio 1943, per esautorare il Duce, farlo arrestare e sostituirlo con il maresciallo Pietro Badoglio alla guida del governo. Ma il tentativo maldestro di uscire dal conflitto, stipulando in settembre l’armistizio con gli anglo-americani, ebbe un esito disastroso per via della pronta reazione tedesca. Si è molto discusso sulla mancata difesa di Roma e sulla fuga del re e del governo a Pescara, poi a Brindisi, per non cadere nelle grinfie del Terzo Reich. Che si sottraesse alla cattura il sovrano, rappresentante della continuità dello Stato, era abbastanza logico. Ma l’abbandono dell’esercito e dell’apparato statale allo sbando, senza direttive chiare, getta sulle vicende dell’8 settembre 1943 e sulla dinastia un’ombra incancellabile.

Il prestigio compromesso

Il prestigio di Vittorio Emanuele III, già gravemente compromesso, ne uscì ferito a morte. Ciò nonostante il re, trasferitosi al Sud sotto la tutela anglo-americana, non volle abdicare. Solo nel giugno 1944, dopo la liberazione di Roma dai nazisti, affidò la luogotenenza del Regno al figlio Umberto, in un quadro di accordi che rimandavano al dopoguerra la decisione sulla forma istituzionale dello Stato. L’abdicazione di Vittorio Emanuele III in favore di Umberto II, che fu re soltanto per un mese, giunse alla vigilia della scelta tra monarchia e repubblica, nel maggio 1946, come un tentativo disperato di influenzare l’esito del referendum. Ancora prima che gli italiani scegliessero la repubblica il 2 giugno, l’ex re si ritirò ad Alessandria d’Egitto, dove morì un anno e mezzo dopo, il 28 dicembre 1947. Investito di responsabilità superiori alle sue forze in un tempo di eventi apocalittici, Vittorio Emanuele III aveva fallito alla difficile prova della storia, determinando la caduta della casa reale cui apparteneva.