Non era mai stato molto generoso il destino nei confronti di Riccardo Giusto.
Non aveva mai avuto modo di conoscere suo padre, né di persona e (data l’epoca) neppure tramite una fotografia, mentre la sua povera mamma era morta quando lui non aveva ancora compiuto sei anni.
Probabilmente era questo il motivo per cui Riccardo, per quanto provasse a sforzarsi, ricordava davvero pochi momenti felici della sua infanzia.
Men che mai il ragazzo aveva memoria di volti di persone che, almeno una volta, gli avevano rivolto una parola gentile... eppure, qualora ci fossero state quelle persone, non dovevano essere poi state molte.
Ma in fondo, nel 1901, era difficile per tutti vivere e questa lezione, Riccardo, l’aveva imparata prima di tanti altri suoi coetanei.
Ecco, a voler essere sinceri, almeno una presenza importante nella sua vita c’era stata e rispondeva al nome di don Antonio Cecutti, parroco di Santa Maria delle Grazie di Udine.
Don Antonio era il sacerdote che l’aveva visto nascere il 10 febbraio 1895 e che, appena aveva compiuto quattordici anni, gli aveva persino trovato un lavoro da facchino alla stazione di Udine.
“Bene Riccardo...”- gli aveva detto in maniera spiccia il religioso - “adesso che finalmente sei diventato adulto è giusto che anche tu inizi a lavorare!
Ti ho trovato un posto importante alla centrale dei treni, pensa... porterai i bagagli ai viaggiatori così potrai vedere gente importante e magari qualcuno di quei signori di darà anche qualche centesimo di mancia!”
È sì... è proprio vero: “la felicità è una piccola cosa” ma per gli ultimi del mondo la sua unità di misura è stabilita dalle monetine più insignificanti di tutte le valute esistenti: i centesimi.
Però a Riccardo, uomo ancora bambino, quel lavoro piaceva davvero moltissimo.
Qualche volta gli capitava addirittura di trasportare dei bagagli poco pesanti e di avere persino l’occasione di poter salire sui vagoni del treno.
Era allora che i suoi occhi castani si riempivano di sogni bellissimi che lui non riusciva in nessun modo a contenere.
Per questo motivo Riccardo, soprattutto nelle calde serate d’estate, preferiva non tornare a dormire nella brandina che Don Antonio gli aveva sistemato fra le statue in legno di San Giovanni Evangelista e di San Rocco in un angolo del ripostiglio adiacente la sagrestia.
Il ragazzo raggiungeva furtivamente i binari morti dove erano parcheggiati i vagoni in attesa di manutenzione, sceglieva quello che gli piaceva di più e... sedendosi accanto ad un finestrino restava per ore a guardare il cielo stellato ponendosi sempre le stesse misteriose e ripetitive domande:
“Ma in quali posti meravigliosi portano i treni?
Riuscirò un giorno a vederli anch’io?
E così, fra un sogno e tante valigie sollevate, da quelle sere d’estate di quando era poco più di un bambino erano già passati sei anni ed il mondo era diventato sempre più cattivo.
Ma Riccardo non se n’era mai accorto!
Per questo credette di scoppiare di felicità quando, il 4 maggio 1915, Don Antonio lo chiamò e con la faccia scura gli lesse qualcosa che luì non capì bene ma che gli era sembrato dovesse essere... un invito del Re d’Italia a partire con il treno!
“Ma davvero potrò salire su un treno?
E senza neppure dover pagare il biglietto?
Ma... ma... Don Antonio perché sei così triste? È una notizia meravigliosa!!!
Finalmente potrò vedere il posto dove i treni portano le persone.... oh Don Anto’... non sarai mica geloso di questa cosa?
Dai... giuro che quando tornerò in sagrestia ti racconterò ogni cosa!
Fu esattamente in quell’istante che la cartolina della chiamata alle armi cadde lentamente dalle mani dell’allibito prete che guardando Riccardo non trovò la forza di pronunciare la frase che aveva impressa nella mente: “Se tornerai... ragazzo mio!”
Il giorno seguente Riccardo Giusto salì su un treno che lo portò, insieme a tanti suoi coetanei, in un paese distante poco meno di cento chilometri da Udine.
La notte prima della partenza il ragazzo non aveva chiuso occhio per l’emozione.
All’alba era già alla stazione prima di tutti gli altri, desiderava assolutamente trovare un posto davanti al finestrino e ci riuscì!
Riccardo per tutta la durata del tragitto vide il mondo sfilare davanti ai suoi occhi e fu felice!
“Che bravo il nostro Re!” - pensò - “È grazie a lui che adesso anche noi siamo viaggiatori.
Chissà? Forse riuscirò a diventare amico anche di qualcuno di questi giovani che parlano tutte lingue italiane diverse.”
Quando Riccardo giunse a destinazione ogni cosa accadde velocemente.
In caserma gli diedero una divisa, un cappello ed un fucile che lui, malgrado le ripetute spiegazioni, non era in grado di usare bene perché non riusciva minimamente a capire come funzionasse.
“Non importa...” - gli disse alfine un rassegnato tenente - “tienilo sempre puntato davanti a te e magari gli austriaci avranno paura e gireranno lontani.”
Fu con questa raccomandazione che all’alba del 24 maggio 1915, Riccardo Giusto, insieme ad una decina di commilitoni venne comandato di pattuglia in una valle nei pressi di un paesino del Friuli di nome “Drenchia”.
Neanche duecento metri dopo l’ultima casa del villaggio la pattuglia si trovò in territorio nemico: inavvertitamente i soldati avevano attraversato il confine.
L’incontro con una pattuglia austriaca fu inevitabile ed allora accadde una scena incredibile: italiani e austriaci non sapevano cosa fare, si trovavano per la prima volta gli uni di fronte agli altri e si guardavano terrorizzati senza essere in grado di muovere un muscolo.
Fu allora che Riccardo ricordò l’insegnamento del tenente: “Tieni il fucile davanti a te e forse gli austriaci avranno paura e andranno via”, ma non ebbe il tempo di porlo in essere.
“Meine Mutter, Meine Mutter”... “mamma mia, mamma mia”, gridò un ragazzo austriaco che doveva avere la sua stessa età prima di sparargli addosso.
Poi per Riccardo non ci fu più nessun treno su cui viaggiare,
Venne colpito in piena fronte, appena sotto i suoi capelli biondi.
Un filo di sangue gli si fermò in un’orbita ed i suoi occhi castani si chiusero per sempre.
Poi altri colpi, stavolta più fitti, i nemici scapparono via e fra gli italiani il passaparola corse veloce: “E’ caduto uno dei nostri!”
Morì così il primo caduto italiano della Grande Guerra... fu il primo degli oltre 650.000 soldati che pagarono con la vita il tributo d’onore alla Patria.
Il corpo di Riccardo fu recuperato dai suoi commilitoni e venne sepolto nel cimitero di San Volfango una delle frazioni di Drenchia.
Circa dieci anni dopo, a guerra ormai terminata, i resti mortali di quel povero ragazzo che amava i treni e che non sapeva usare il fucile furono traslati in un piccolo sacrario militare dove trovarono posto anche un migliaio di altri soldati caduti in quella zona di operazioni.
Passarono altri quattro decenni ed un giorno un custode del sacrario notò un foglio sulla sua tomba, lo raccolse e con stupore lesse le parole che qualche ignoto visitare vi aveva scritto:
“QUI RIPOSA IL SOLDATO
RICCARDO GIUSTO.
FU IL PRIMO A MORIRE ED APRÍ
LA STRADA DEL CIELO A TANTI ALTRI”
- Mario CANTORESI -