di Lisa Bregantin
«Studiare la guerra o anche semplicemente parlarne significa, a priori, parlare di morte e morti, o meglio di caduti. Ciò è talmente naturale che spesso non ci sofferma su chi e cosa siano i caduti su cosa avvenga di loro, dei loro corpi, della loro memoria». Tale affermazione di Lisa Bregantin - giovane dottore di ricerca all’Università Ca’ Foscari di Venezia - nel suo nuovo libro giustifica l’origine di questo studio: indagare ciò che, argomentando di guerra - in questo caso della Grande Guerra - si dà a volte un po’ troppo per scontato: la percezione e il culto per la società civile e militare della morte in guerra del soldato al fronte.
Non che l’argomento non sia mai stato oggetto di studi, tutt’altro. Come si evince dalla prefazione di un illustre storico militare, quale Giorgio Rochat, Lisa Bregantin si affaccia sulla storiografia della Grande Guerra come una dei rappresentanti della “quarta generazione” di studiosi che - dopo l’iniziale riflessione “rivendicativa dei sacrifici” mossa dagli stessi reduci, i passaggi oscurantistici o stereotipati dell’epoca fascista e del secondo dopoguerra e, infine, il seguente recupero critico della Grande Guerra avviato da esperti quali Isnenghi, Monticone e lo stesso Rochat - oggi «continuano lo studio della Grande Guerra senza discontinuità, ma con nuove aperture». La ricerca di Bregantin dunque si confronta sì con un vecchio argomento, ma attraverso una prospettiva originale e due chiavi di lettura.
I sei capitoli che compongono il libro (I. La morte e i morti durante la guerra; II. I primi cimiteri. Necessità, continuità, “religiosità”; III. L’origine del culto: la comunità dei soldati; IV. Proposte commemorative sviluppatesi durante il conflitto; V. I primi anni dopo la guerra. 1919 e dintorni; VI. Un riposo per i caduti) procedono densi di informazioni sul modo in cui i comandi militari e le autorità civili si ritrovarono ad “amministrare” il destino del caduto, e sul rapporto istauratosi tra la morte e i combattenti durante, e dopo, il primo conflitto mondiale.
Il recupero dal campo di battaglia, il riconoscimento, l’inumazione delle salme è stato un problema piuttosto intricato da risolvere proprio perché la guerra moderna impose ai comandi militari e ai governi di fare i conti con la morte di massa senza esserne preparati. Circolari, regolamenti, competenze sembrarono perciò non bastare mai giacché il numero dei caduti in quella guerra non aveva «flessioni» ma aumentava di giorno in giorno «creando sempre più eccezioni alle regole che si tenta[va] di stabilire» (p. 65). I comandi d’altra parte non si potevano esimere da non affrontare questo compito che presto travalicò le semplici questioni sanitarie: anche qui, infatti, si è giocata la partita della costruzione di un’idea e di una memoria nazionale.
Recupero di soldati morti in montagna.
Dare un nome e una degna sepoltura ai caduti - in una guerra che, il più delle volte, nella terra sconvolta dalle granate macerava i corpi in un insieme indistinto -, dà senso al sacrificio dei soldati morti per la salvezza della Patria rincuorando contemporaneamente i combattenti morituri che con essi, hanno stretto nella trincea un patto “vitale”: «Stringere un patto di non dimenticanza con gli altri compagni», scrive Bregantin, «significa garantirsi un futuro nella memoria di chi resta (“Non addio, compagno, non addio. Con te siamo, con noi tu rimani. Con noi vincerai e per te compiremo il tuo voto e il voto dei nostri morti”), e allo stesso modo, occuparsi dei compagni caduti equivale ad occuparsi di se stessi, in una situazione di precarietà costante rispetto alla possibilità di restare in vita» (p. 151).
Per non morire mai è un’opera esemplare per il modello di “fare storia” che propone, fondato sull’amalgama tra la “fredda” fonte istituzionale e la “calda” testimonianza memoriale e letteraria. I molti documenti provenienti in particolare dall’Ufficio Storico dell’Esercito e dall’Archivio Centrale dello Stato a Roma, intrecciati con una folta bibliografia composta soprattutto da opere coeve al periodo poco conosciute - se non oggi del tutto dimenticate - arricchiscono questo volume, che si pone, da una parte come meta d’arrivo di un percorso già iniziato da Bregantin a partire da una scala di riferimento minore (sua una ricerca sui caduti della grande Guerra in un piccolo comune del padovano - L. Bregantin, Caduti nell’oblio. I soldati di Pontelongo scomparsi nella Grande Guerra, Istituto veneziano per la storia della resistenza e della società contemporanea, 2003), dall’altro come punto di riferimento comparativo per ulteriori ricerche sulle successive guerre italiane.
(Paolo Tagini)
Non che l’argomento non sia mai stato oggetto di studi, tutt’altro. Come si evince dalla prefazione di un illustre storico militare, quale Giorgio Rochat, Lisa Bregantin si affaccia sulla storiografia della Grande Guerra come una dei rappresentanti della “quarta generazione” di studiosi che - dopo l’iniziale riflessione “rivendicativa dei sacrifici” mossa dagli stessi reduci, i passaggi oscurantistici o stereotipati dell’epoca fascista e del secondo dopoguerra e, infine, il seguente recupero critico della Grande Guerra avviato da esperti quali Isnenghi, Monticone e lo stesso Rochat - oggi «continuano lo studio della Grande Guerra senza discontinuità, ma con nuove aperture». La ricerca di Bregantin dunque si confronta sì con un vecchio argomento, ma attraverso una prospettiva originale e due chiavi di lettura.
I sei capitoli che compongono il libro (I. La morte e i morti durante la guerra; II. I primi cimiteri. Necessità, continuità, “religiosità”; III. L’origine del culto: la comunità dei soldati; IV. Proposte commemorative sviluppatesi durante il conflitto; V. I primi anni dopo la guerra. 1919 e dintorni; VI. Un riposo per i caduti) procedono densi di informazioni sul modo in cui i comandi militari e le autorità civili si ritrovarono ad “amministrare” il destino del caduto, e sul rapporto istauratosi tra la morte e i combattenti durante, e dopo, il primo conflitto mondiale.
Il recupero dal campo di battaglia, il riconoscimento, l’inumazione delle salme è stato un problema piuttosto intricato da risolvere proprio perché la guerra moderna impose ai comandi militari e ai governi di fare i conti con la morte di massa senza esserne preparati. Circolari, regolamenti, competenze sembrarono perciò non bastare mai giacché il numero dei caduti in quella guerra non aveva «flessioni» ma aumentava di giorno in giorno «creando sempre più eccezioni alle regole che si tenta[va] di stabilire» (p. 65). I comandi d’altra parte non si potevano esimere da non affrontare questo compito che presto travalicò le semplici questioni sanitarie: anche qui, infatti, si è giocata la partita della costruzione di un’idea e di una memoria nazionale.
Recupero di soldati morti in montagna.
Dare un nome e una degna sepoltura ai caduti - in una guerra che, il più delle volte, nella terra sconvolta dalle granate macerava i corpi in un insieme indistinto -, dà senso al sacrificio dei soldati morti per la salvezza della Patria rincuorando contemporaneamente i combattenti morituri che con essi, hanno stretto nella trincea un patto “vitale”: «Stringere un patto di non dimenticanza con gli altri compagni», scrive Bregantin, «significa garantirsi un futuro nella memoria di chi resta (“Non addio, compagno, non addio. Con te siamo, con noi tu rimani. Con noi vincerai e per te compiremo il tuo voto e il voto dei nostri morti”), e allo stesso modo, occuparsi dei compagni caduti equivale ad occuparsi di se stessi, in una situazione di precarietà costante rispetto alla possibilità di restare in vita» (p. 151).
Per non morire mai è un’opera esemplare per il modello di “fare storia” che propone, fondato sull’amalgama tra la “fredda” fonte istituzionale e la “calda” testimonianza memoriale e letteraria. I molti documenti provenienti in particolare dall’Ufficio Storico dell’Esercito e dall’Archivio Centrale dello Stato a Roma, intrecciati con una folta bibliografia composta soprattutto da opere coeve al periodo poco conosciute - se non oggi del tutto dimenticate - arricchiscono questo volume, che si pone, da una parte come meta d’arrivo di un percorso già iniziato da Bregantin a partire da una scala di riferimento minore (sua una ricerca sui caduti della grande Guerra in un piccolo comune del padovano - L. Bregantin, Caduti nell’oblio. I soldati di Pontelongo scomparsi nella Grande Guerra, Istituto veneziano per la storia della resistenza e della società contemporanea, 2003), dall’altro come punto di riferimento comparativo per ulteriori ricerche sulle successive guerre italiane.
(Paolo Tagini)