Non chiamateli kamikaze
Oggi il termine indica i terroristi. Ma gli aviatori degli attacchi suicidi nel Giappone della Seconda Guerra Mondiale avevano un ben diverso codice d'onore
Roma, 22 dicembre 2017 - Prima una planata a pochi metri sul pelo dell’acqua, poi un colpo di cloche, la cabrata verso l’alto per venire subito giù sulla nave nemica, a folle velocità, tra le esplosioni dell’inferocita contraerea. “Banzai!”, si urlava prima dello schianto, con tutto il fiato che restava nei polmoni. Questi erano, pressappoco, gli ultimi momenti dei piloti giapponesi cui è dedicato il recente volume di Daniele Dell’Orco 'Non chiamateli kamikaze' (Giubilei Regnani ed.). Il testo – scorrevolissimo – ripercorre la storia degli aviatori del Sol levante che si gettavano con i loro caccia “Zero” carichi di esplosivo sui ponti delle portaerei americane: sapevano che la guerra era persa, ma almeno miravano – senza nessuna particolare ricompensa nell’Aldilà – a ottenere una resa non incondizionata per il proprio Paese.
L’ammonimento del titolo si riferisce al fatto che, troppo spesso, i media identificano con la parola kamikaze (Vento divino) anche gli uomini-bomba del terrorismo islamico che, invece, si fanno esplodere fra i civili, procurando la morte di innocenti per guadagnare un paradiso di vergini e fiumi di lattemiele. Una differenza abissale.
Era il 1944, l’Impero del Sol levante aveva ormai perso la guerra: la potenza industriale aveva consentito agli Stati Uniti di ripristinare, dopo l’attacco di Pearl Harbor, una flotta formidabile con la quale invadere il Giappone, pure difeso a carissimo prezzo da un esercito educato, da almeno 40 anni, nell’etica guerriera del Bushido. Infatti, sebbene dalla fine dell’800, la classe nobiliare dei samurai fosse stata esautorata, i precetti della loro filosofia erano stati diffusi in tutte le classi sociali: i militari, ma anche i civili, avrebbero dovuto servire l’Imperatore con l’eroismo, la lealtà e l’inflessibilità degli antichi cavalieri. Entrare nel nuovo Corpo speciale di assalto aereo (tokkotai) fu la massima aspirazione per tanti giovani che si offrirono volontari.
In un’epoca di individualismo come la nostra è difficile comprendere come si possa gettare la propria vita in nome del bene collettivo, ma in Giappone è ancora vivo il senso dell’onore e i tokkotai sono tuttora molto rispettati. Quest’arma segreta, fatta solo di onore e coraggio, sortì i suoi effetti: oltre al terrore psicologico suscitato nel nemico, furono circa 550 le navi americane affondate o danneggiate da 2000 piloti suicidi. Il loro esempio fu seguito anche dai soldati dell’esercito imperiale, che, nella difesa di Iwo Jiima e di Okinawa, spesso si facevano esplodere, carichi di bombe, sui carri armati nemici. Tuttavia, proprio a causa della tenacia con cui i giapponesi difendevano ogni palmo della loro terra, gli americani optarono per la soluzione drastica e terribile di Hiroshima e Nagasaki. Pochi sanno che la nostra Aeronautica ebbe i primi “kamikaze italiani”: già nel 1940 il capitano Giorgio Graffer, come recita la motivazione della Medaglia d’oro al valor militare, aveva fatto “della sua macchina e del suo corpo l’arma suprema per distruggere il nemico (aerei della Raf, ndr.) con l’urto”. Graffer, tuttavia, poté salvarsi all’ultimo lanciandosi col paracadute, mentre il tenente pilota Bruno Serotini che, il 19 luglio 1943, da solo si slanciò verso un gruppo di bombardieri americani nei cieli di Roma, fu abbattuto. Per quanto anche in Italia fosse stata proposta la creazione di un gruppo d’assalto suicida, il progetto non ebbe seguito: l’anima cattolica non concepisce il togliersi la vita.