Notiziario: Nikolajewka, la battaglia che scrisse la storia degli alpini

Nikolajewka, la battaglia che scrisse la storia degli alpini

Nei racconti dei superstiti l'eroismo dei soldati e gli errori
dei comandi
Nikolajewka rappresenta il simbolo, a un tempo tragico e eroico, di una campagna militare male organizzata, voluta da Mussolini nell'estate del 1941 per dimostrare il suo cameratismo con Hitler (peraltro infastidito dall'invio degli italiani, ritenuti militarmente ininfluenti) e contribuire alla vittoria dell'Asse.
Mentre le truppe tedesche erano preparate per i combattimenti invernali, i 230.000 uomini dell'Armata Italiana in Russia difettavano di armi automatiche individuali e di reparti motocorazzati. I fucili mitragliatori Breda s'inceppavano con il gelo, gli scarponi degli alpini perdevano le suole, il tessuto delle divise non proteggeva da temperature rigide, il rancio deficitario costringeva i soldati ad approvvigionarsi a spese dei contadini... La combattività doveva dunque supplire a una situazione proibitiva sotto diversi aspetti.

Alle fasi dell'avanzata e poi della stabilizzazione del fronte segue, nell'inverno 1943-43, la controffensiva dell'Armata Rossa. L'operazione Piccolo Saturno investe i reparti italiani schierati sul Don a fianco della Seconda Armata ungherese del generale Jàny. Abbandonate a metà gennaio le postazioni sulla riva del grande fiume, si ripiega per oltre cento chilometri verso Nikolajewka, in due terribili settimane costellate da agguati, incursioni, mitragliamenti e un clima rigidissimo. Il 18 gennaio la nostra aviazione viene ritirata «per salvare dalla sicura perdita il personale, i velivoli e ingenti depositi di materiale»: gli aerei nemici possono dunque mitragliare a piacimento le colonne in ritirata.
Dopo un'odissea disperante, italiani e ungheresi - cui si accompagnano gruppi di sbandati tedeschi - trovano la strada sbarrata davanti al villaggio di Nikolajewka, dove i russi hanno allestito un ampio semicerchio, per chiudere in una sacca i reparti in ritirata. È questa la prova più dura mai affrontata dalla Divisione «Tridentina» del generale Luigi Reverberi, decimata dal fuoco nemico e dagli assideramenti, sostenuta dalla forza della disperazione e dalla tenace volontà del rimpatrio.
Gli episodi di eroismo sono tanti, ma spesso si rivelano inutili stante l'enorme divario di potenziale militare. Le colonne s'infittiscono, la pressione cresce e si ricerca in ogni modo di aprire un varco. Ai nostri è rimasto un solo carro armato, e il 26 gennaio, quando tutto appare perduto, gli alpini riescono a vulnerare le linee sovietiche. Possono così salvarsi circa 20 mila italiani (2 mila dei quali feriti e 5 mila congelati) e ben 15 mila tra tedeschi e ungheresi.

(Fotogramma/Campanelli)(Fotogramma/Campanelli)
La marcia può finalmente riprendere e il 31 gennaio i superstiti raggiungono i reparti germaniche a Valuiki. All'appello mancano 84.830 italiani: di essi, 23.500 sono caduti nei combattimenti e durante la ritirata, mentre circa 61 mila sono stati catturati e internati (ne rimpatrieranno poco più di diecimila). Altrettanto pesanti le perdite ungheresi: 30 mila caduti e oltre 50 mila prigionieri.
La ritirata si svolge totalmente a piedi, e l'Armir appare come una strana Armata appiedata, con al più qualche slitta trainata da un mulo, stipata di alpini feriti e congelati. Le varie colonne sono prive di contatti radiofonici e ognuna procede per suo conto, in assenza di comandi di tappa in grado di preordinare una strategia. Manca l'assistenza medica e chi crolla esausto nella neve muore congelato. Le incursioni dei reparti motocorazzati sovietici non incontrano resistenza.
La gravissima disorganizzazione investe anzitutto le responsabilità del ministro della Guerra (dal 1933, Benito Mussolini) e dello Stato Maggiore dell'Esercito, la cui cattiva coscienza spiega l'assenza, nei «Bollettini di guerra del Comando Supremo», di riferimenti alle disastrose vicende del fronte russo: i nostri militari sono stati abbandonati a se stessi, e in Italia non si deve conoscere la loro amara sorte. L'Anabasi degli alpini trova i suoi cronisti in tanti soldati e ufficiali che nel dopoguerra hanno avvertito l'imperativo morale di scrivere scriverne, in prospettiva autobiografica, per rivendicare la propria presenza in quel passaggio storico e testimoniarne ai posteri. Tra i reduci di Nikolajewka figurano numerosi bresciani arruolati nei Battaglioni «Edolo», «Valcamonica» e «Vestone» della Divisione «Tridentina». Alcuni di loro sono autori di diari, spesso rielaborati nel dopoguerra, utili alla comprensione dei sentimenti dei soldati e del tenace spirito di corpo, con la rivelazione di solidarietà commoventi.
Lo storico militare Giorgio Rochat sostiene che la memoria della campagna di Russia abbia prodotto «i più bei libri della guerra italiana, perché negli autori vive ancora la lealtà verso i compagni portati fuori dalla sacca o lasciati sotto la neve». Varrebbe la pena di raccogliere in un volume antologico gli scritti autobiografici dei bresciani, ancora inediti o disseminati in esili pubblicazioni stampate artigianalmente. Sarebbe un doveroso tributo ai reduci e, al tempo stesso, uno strumento di trasmissione di esperienze e valori alle nuove generazioni.