Nikolaevka 26 gennaio 1943, gli alpini sfondano l’accerchiamento sovietico
Il 12 gennaio del 1943, la Stavka, l’alto comando sovietico lanciò con cospicue forze la terza offensiva invernale contro le forze dell’Asse schierate sul fronte russo, era l’operazione Ostrogorsk-Rossosc. Le due precedenti offensive, l’operazione Urano aveva portato all’accerchiamento della 6ª Armata tedesca a Stalingrado, mentre la seconda chiamata operazione Piccolo Saturno, aveva sbaragliato completamente le armate rumene e gran parte dell’8ª Armata italiana.
Il 15 dicembre, con un potenziale d’urto sei volte superiore a quello delle nostre Divisioni i Russi dilagarono nelle retrovie accerchiando le Divisioni Pasubio, Torino, Celere e Sforzesca. Esse dovettero sganciarsi dalle posizioni sul Don, iniziando una terribile ritirata che, su un terreno ormai completamente in mano al nemico, le avrebbe in gran parte annientate con una perdita di circa 55.000 uomini tra Caduti e prigionieri.
Mentre le Divisioni della Fanteria si stavano ritirando, il Corpo d’Armata Alpino ricevette l’ordine di rimanere sulle posizioni a difesa del Don per non essere a sua volta circondato. Il 13 gennaio i Russi partirono per la terza fase della loro grande offensiva invernale e, senza spezzare il fronte tenuto dagli alpini, ma infrangendo quello degli Ungheresi a Nord e quello dei Tedeschi a Sud, con una manovra a tenaglia, riuscirono a racchiudere il Corpo d’Armata Alpino in una vasta e profonda sacca.
Davanti alla possibile catastrofe rimaneva un’unica alternativa: il ripiegamento immediato. La sera del 17 gennaio 1943, il generale Gabriele Nasci, dette l’ordine di ripiegamento dell’intero Corpo d’Armata Alpino di cui la sola Divisione Tridentina era ancora efficiente, quasi intatta in uomini, armi e materiali. Circa duecentomila soldati dell’ARM.I.R l’armata italiana in Russia erano in ritirata durante uno dei più freddi inverni russi di sempre.
Dopo circa 200 chilometri di ripiegamento a piedi e con pochi muli e slitte, sempre aspramente contrastati dai reparti nemici e dai partigiani sovietici, una lunghissima colonna di circa 40.000 uomini quasi tutti disarmati e in parte congelati, giunse davanti al villaggio di Nikolajewka.
Il villaggio fortemente presidiato da consistenti forze sovietiche era l’ultimo ostacolo per uscire dalla sacca e raggiungere la salvezza. Le uniche truppe che ancora era organizzate ed avevano conservata le armi individuali e di reparto erano gli alpini italiani e principalmente la divisione Tridentina agli ordini del generale Giulio Reverberi.
Era la mattina del 26 gennaio quando i sovietici si apprestavano a bloccare, nelle loro intenzioni definitivamente il ripiegamento delle forze dell’Asse in ritirata. Gli alpini avevano già ripetutamente ed inutilmente cercato di sfondare l’accerchiamento russo ma senza riuscirci.
Per dare il colpo mortale al nemico in ritirata, i Russi si erano trincerati fra le case del paese che sorge su una modesta collinetta. Le forze sovietiche che sbarravano il passo agli alpini ammontavano a circa una divisione. Verso le ore 9.30 venne ordinato agli alpini di attaccare.
In un primo tempo si lanciarono all’assalto i superstiti dei battaglioni Verona, Val Chiese, Vestone e del II Battaglione misto genio, appoggiati dal fuoco del gruppo di artiglieria Bergamo e da tre semoventi tedeschi. La ferrovia, dopo sanguinosi scontri, fu raggiunta; in più punti gli alpini riuscirono a salire la contro scarpata ed a raggiungere le prime isbe dell’abitato dove sistemarono immediatamente le mitragliatrici, ma le perdite erano state gravissime.
Nonostante le sanguinose perdite subite, gli alpini continuarono a combattere con accanimento: fu un susseguirsi di assalti e contrassalti portati di casa in casa; venne conquistata la stazione ferroviaria e un plotone del Val Chiese riuscì ad arrivare alla chiesa. La reazione russa fu violentissima: gli alpini furono costretti ad arretrare e ad abbarbicarsi al terreno in attesa di rinforzi.
Verso mezzogiorno giunsero in rinforzo i resti del battaglione Edolo, del Morbegno e del Tirano, i gruppi di artiglieria Vicenza e Val Camonica ed altre modeste aliquote di reparti della Julia col Battaglione L’Aquila ed inviati nel cuore della battaglia. Il nemico, appoggiato anche dagli aerei che mitragliavano a bassa quota, opponeva una strenua resistenza. Sul campanile della chiesa c’era una mitragliatrice che faceva strage di alpini.
La neve era tinta di rosso: su di essa giacevano senza vita migliaia di alpini e moltissimi feriti. Uscito da una riunione ufficiali, il generale Martinat Capo di Stato Maggiore del Corpo d’Armata alpino prese la decisione:
«Ho cominciato con l'”Edolo”, voglio finire con l'”Edolo”»
ed imbracciato un moschetto, cominciò ad incitare
«Avanti alpini, avanti di là c’è l’Italia, avanti!»
Quando ormai stavano calando le prime ombre della sera e sembrava che non ci fosse più niente da fare per rompere l’accerchiamento, la situazione si faceva sempre più tragica perché il sole incominciava a scendere sull’orizzonte ed era evidente che una permanenza all’addiaccio nelle ore notturne, con temperature di 30-35 gradi sotto lo zero, avrebbe significato per tutti l’assideramento e la morte.
A quel punto il generale Reverberi, comandante della Tridentina, saliva su un semovente tedesco, l’unico carro rimasto in efficienza e, incurante della violenta reazione nemica, al grido di
“Tridentina avanti!”
trascinava i suoi alpini all’assalto.
Il grido rimbalzò di schiera in schiera, passò sulle labbra da un alpino all’altro, scosse la massa enorme degli sbandati che, come una valanga, assieme ai combattenti ancora validi, si lanciarono urlando verso il sottopassaggio e la scarpata della ferrovia, la superarono travolgendo la linea di resistenza sovietica, espugnado a colpi di fucile e bombe a mano il paese annientando gli agguerriti difensori annidati nelle case.
I Russi sorpresi dalla rapidità dell’azione dovettero ripiegare abbandonando sul terreno i loro caduti, le armi ed i materiali. Nel tremendo scontro perse la vita in combattimento il generale Martinat e con lui altri 39 ufficiali e circa 3000 alpini, che saranno tutti sepolti nelle grandi fosse comuni scavate dai soldati russi.
Al valoroso ufficiale verrà conferita la medaglia d’oro alla memoria con la seguente motivazione:
Capo di Stato Maggiore di un Corpo d’Armata, soldato di eccezionale coraggio e di indiscusso valore, veterano di quattro campagne, più volte decorato, di elette qualità di mente e di cuore, vista passare una compagnia alpina che scendeva in linea per decidere l’aspra battaglia in corso, cedendo al suo istintivo entusiasmo di soldato e di combattente, vi si metteva alla testa dando a tutti con la sua alta parola la fiamma dell’ardimento e divenendone con la sua persona irresistibile esempio. Ritto, mentre sparava con il suo moschetto, in zona battutissima e scoperta, su elementi nemici appostati a brevissima distanza, una pallottola ne spezzò l’audace impresa e gli stroncò la vita, ma la vittoria era assicurata ed il nemico in fuga. Fulgido esempio di alte virtù combattive e di suprema dedizione alla Patria.»
— Nicolajewka (Russia), 26 gennaio 1943
La medaglia d’oro al valor militare, venne concessa anche al generale Reverberi con la seguente motivazione:
«Comandante della Tridentina ha preparato, forgiato e guidato sagaciamente in Russia con la mente e con l’esempio i suoi reggimenti che vi guadagnarono a riconoscimento del comune eroismo medaglia d’oro al Valor Militare. Nel tragico ripiegamento del Don, dopo tredici combattimenti vittoriosi, a Nikolajewka il nemico notevolmente superiore in uomini e mezzi, fortemente sistemato su posizione vantaggiosa, deciso a non lasciar passare, resisteva ai numerosi, cruenti nostri tentativi. Intuito essere questione di vita o di morte per tutti, il Comandante nel momento critico, decisivo, si offre al gesto risolutivo. Alla testa di un manipolo di animosi, balza su un carro armato e si lancia leoninamente, nella furia della rabbiosa reazione nemica, sull’ostacolo, incitando con la voce e il gesto la colonna che, elettrizzata dall’esempio eroico, lo segue entusiasticamente a valanga coronando con una fulgida vittoria il successo della giornata ed il felice compimento del movimento. Esempio luminoso di generosa offerta, eletta coscienza di capo, eroico valore di soldato. Nikolajewka (fronte russo), agosto 1942-gennaio 1943.»
Dopo Nikolajewka la marcia degli alpini proseguì fino a Bolscke Troskoye e a Awilowka, dove giunsero il 30 gennaio e furono finalmente in salvo, poterono alloggiare e ricevere i primi aiuti. Il 31 con il passaggio delle consegne ai Tedeschi termina ogni attività operativa sul fronte russo.
La colonna della Tridentina riprese la marcia il 2 febbraio per giungere a Gomel il 1° marzo, da dove a partire dal 6 marzo cominceranno a partire le tradotte che riportavano in Italia i superstiti del Corpo d’Armata Alpino; il giorno 15 partì l’ultimo convoglio e il 24 tutti furono in Patria.
Mentre per il trasporto in Russia del Corpo d’Armata Alpino erano stati necessari 200 treni, per il ritorno ne bastarono 17. Sono cifre eloquenti, ma ancor più lo sono quelle dei superstiti: considerando che ciascuna divisione era costituita da circa 16.000 uomini, i superstiti risultarono 6.400 della Tridentina, 3.300 della Julia e 1.300 della Cuneense.
A memoria, ogni anno tra gennaio e febbraio, in numerose città hanno luogo delle commemorazioni della battaglia organizzate da gruppi e sezioni dell’Associazione Nazionale Alpini, la più importante delle quali si svolge a fine gennaio a Brescia.
Monumenti dedicati a Nikolaevka, sono presenti nel nord Italia, fra queste ricordiamo il quello eretto a Soave in provincia di Verona nel 2009, dove ogni 12 gennaio si tiene la commemorazione dei caduti. L’opera nel 2013 ha ricevuto la medaglia dell’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e una pure dall’allora presidente del Senato, Renato Schifani.