Notiziario: Niklas Frank: "Vi racconto mio padre, un mostro nazista"

Niklas Frank: "Vi racconto mio padre, un mostro nazista"

Governatore della Polonia occupata. Responsabile di milioni di morti. Impiccato a Norimberga. Per il figlio, ancora oggi, Hans Frank 
incarna il male assoluto. Un male che può tornare: «Quando vedo 
la xenofobia in Germania penso: per fortuna è morto, se fosse vivo sarebbe contento»
di Wlodek Goldkorn
Niklas Frank ha quasi 78 anni, li compie a marzo, ed è figlio di Hans Frank. Hans Frank, a sua volta, dal 1939 e fino a gennaio 1945 è stato il Governatore della Polonia occupata dai nazisti (ne parla anche Curzio Malaparte nelle pagine più impressionanti e veritiere di “Kaputt”). Catturato dagli americani, processato a Norimberga, condannato a morte per crimini contro l’umanità, è stato impiccato il 16 ottobre 1946. Nei territori che gestiva sorgevano tre campi di sterminio: Treblinka, dove vennero assassinati oltre 900 mila ebrei, tra cui quasi tutta la popolazione del ghetto di Varsavia; Belzec, con le sue 500 mila vittime mandate alle camere a gas; Sobibor, luogo dell’uccisione di 300 mila ebrei; nonché il campo di concentramento di Majdanek. Niklas, cresciuto nel Castello reale di Wawel a Cracovia, un edificio rinascimentale pieno di quadri d’epoca, da adulto reporter del settimanale “Stern”, quasi tre decenni fa pubblicò il libro “Der Vater: Eine Abrechnung” (“Il padre: i miei conti”). E da allora continua a fare i conti con la figura di un uomo che incarnava il Male assoluto e radicale e che tuttavia era suo padre. L’abbiamo intervistato per avere uno sguardo particolare sul ricordo, in occasione della giornata della memoria.

Avvertenza: questo è un colloquio tra un cronista che ha avuto quasi tutti i parenti, ebrei polacchi, assassinati nella Shoah, e il figlio del carnefice; quindi una certa intimità è stata evitata, per timore di cadere nel kitsch.

Signor Frank, lei ripete spesso la frase: «Grazie a Dio, mio padre è stato impiccato». Perché?
«Perché se non fosse stato impiccato, se fosse sopravvissuto al processo di Norimberga, mio padre avrebbe rovinato la mia adolescenza con le sue parole velenose e nefaste. Avrei avuto bisogno di molto tempo e di grande forza per liberarmene. Io sono contro la pena di morte, ma lui se l’è meritata».

La frase «se l’è meritata» è valida solo per suo padre o riguarda tutti i criminali nazisti?
«Non mi sono mai curato degli altri nazisti, a me importa la figura di mio padre. Posso dire questo: la colpa è individuale. I nazisti sapevano che le loro azioni erano contrarie alle leggi e a tutto ciò che rende umani gli umani. E allora sì, la pena di morte se la sono meritata tutti quanti».

Porta sempre con sé la foto del cadavere di suo padre, pochi istanti dopo l’impiccagione a Norimberga?
«L’ha visto in un filmato, vero? E allora, mi spiego. La portavo in tasca, anni fa. Un’ondata di xenofobia e razzismo si stava riversando sulla Germania. Volevo quindi essere sempre sicuro che mio padre fosse davvero morto, che non stesse sorridendo e ammiccando, perché se fosse stato vivo, in quel momento sarebbe stato contento. Avrebbe pensato che le sue idee e i suoi pensieri non erano morti».

Oggi, invece al centro di Berlino, a due passi dal Parlamento, dall’edificio del Reichstag, c’è il memoriale della Shoah...
«Certo, i carnefici costruiscono monumenti alle loro vittime...»

Amara ironia la sua...
«Ma si rende conto che questi monumenti, questo presunto lavoro sulla memoria non è espressione autentica, non viene dal profondo del cuore né dal travaglio dell’anima?»

Sta dicendo che la costruzione della memoria in Germania è artificiale?
«Sì. La maggioranza silenziosa del mio Paese non vuole fare i conti col passato. I miei connazionali non hanno mai provato empatia per gli ebrei, mai hanno pensato a come si dovesse sentire una madre ebrea che cercava di proteggere i propri bambini dai tedeschi mentre le stavano strappando i figli per uccidere prima loro e poi lei. Non siamo mai stati empatici con le vittime. E oggi, nel mio Paese vengono incendiate le dimore dei richiedenti asilo e l’estrema destra sta diventando sempre più forte».

Alla situazione attuale ci torneremo. Intanto, vuole raccontare l’infanzia al Castello reale di Cracovia? Suo padre era una specie di re, sua madre regina. E lei?
«Stavo molto bene. La Polonia era proprietà della famiglia Frank. Potevo permettermi tutto. Mi piaceva abitare in un castello dei re. E mi piaceva pure stare nella tenuta di Kressendorf, in polacco Krzesnice, espropriata da una famiglia di aristocratici polacchi. Mi ricordo una storia. Un giorno, l’inserviente che si occupava dei camini di questa magione versò, inciampando, un po’ di cenere su un letto di una stanza e sporcò le lenzuola. Mia madre cominciò a urlare: “Ora ti mando in un Lager, meriti di morire”. Io cominciai a piangere per lo spavento e perché volevo bene a quest’uomo. La mia reazione ebbe effetto e così, a guerra finita, lui raccontava ai vicini e amici che io, il piccolo Niklas Frank, gli salvai la vita. Ma certo, non potevo rendermi conto della situazione in cui vivevo».

Una volta raccontò di aver visitato il ghetto di Cracovia.
«Ci sono andato con mia madre. Eravamo su una Mercedes. Mia madre entrò in un negozio per accaparrarsi delle pellicce; lei adorava il lusso, le pellicce, i gioielli, ci teneva moltissimo allo status di una donna dell’alta società. Mi rammento le facce tristi delle persone, mi ricordo gli uomini con la frusta in mano (le SS, ndr.). Mi stupivo che anche i bambini fossero tristi e così a uno di questi avevo fatto la linguaccia, doveva essere due anni più grande di me. Il bambino si voltò se ne andò e io mi sentivo come se avessi vinto un duello. Mi ero alzato in piedi in macchina e avevo fatto il gesto di trionfo con le braccia. La mia tata, si chiamava Hilde, mi costrinse a rimettermi a sedere».
Un momento del processo di...
Un momento del processo di Norimberga, in cui Hans Frank fu condannato a morte

Come fa a ricordarselo?
«Circa trent’anni dopo Hilde stava morendo di cancro e io sono andato a trovarla. Le raccontai quella scena e lei mi spiegò che si svolse davvero nel ghetto di Cracovia».

In quel momento nel ghetto di Cracovia si trovava un bambino diventato famoso: Roman Polanski. Sua madre faceva la donna delle pulizie al Castello dove lei abitava. È stata assassinata ad Auschwitz, in una camera a gas, mentre era incinta. Lei ha mai incontrato Polanski?
«No. Non ci siamo mai visti. Quando scrissi il libro su mio padre glielo mandai, gli chiesi se voleva farne qualcosa, o forse parlami. Io lo ammiro come regista. Ma lui, molto gentilmente declinò».

Vorrebbe dirgli qualcosa ora, tramite questa intervista?
«Ho detto tante cose a tanti ebrei, polacchi, ucraini. Posso solo ripetere: quello che abbiamo fatto agli ebrei (ma anche ad altri popoli nei Paesi occupati) è stato spaventoso e disumano. E io sono molto dispiaciuto».

Tutto qui?
«Guardi, quando i miei amici coetanei ebrei mi raccontano le loro vite, si risveglia in me un sentimento di rabbia velenosa nei confronti di mio padre. Per me resta incomprensibile come abbia potuto fare quello che ha fatto».

Cosa è la memoria per lei?
«Prima di tutto dolore. Provo un immenso dolore quando penso a ciò che abbiamo fatto. Ma nel contempo, nella mia vita privata e intima non mi sono mai lasciato distruggere dai misfatti di mio padre e di mia madre. Mai. La vita è più forte di loro, delle loro menzogne, dei loro crimini. La vita è anche più forte della Shoah. Si guardi intorno, la gente continua a vivere. Ma noi tedeschi dobbiamo riconoscere ciò che abbiamo fatto. E non è facile. Io ho sempre trovato la storia tedesca bellissima, fino al 1933. A partire da quell’anno ci siamo chiamati fuori dal consesso dei popoli. E il dolore, ripeto è immenso. E tuttavia, io ho avuto una vita buona. Non mi sono lasciato distruggere. Amo la vita».

Però, non poter amare proprio padre, continuare a odiarlo, è una situazione da vittima.
«Ma cosa sta dicendo? Non sono una vittima, ho avuto una vita bella e piena di soddisfazioni anche professionali, da giornalista. E per quanto riguarda mio padre: come avrei potuto amarlo? Ha distrutto milioni di vite umane. Perché mai avrei potuto e dovuto perdonare questo assassino senza cuore? Mio padre non si è mai pentito davvero (a Norimberga ebbe un atto di conversione; e pronunciò frasi da cui si poteva dedurre che gli dispiaceva per quello che aveva fatto, ndr). Il suo presunto pentimento era finto, era un insieme di menzogne».


Sua madre Brigitte? Anche su di lei ha scritto un libro...
«Era una donna fortissima. Si era arricchita in una maniera inverosimile con i beni degli ebrei (ma anche dei polacchi). Lei era una segretaria, una dattilografa. Così negli anni Trenta conobbe mio padre, nazista, vicinissimo a Hitler e ministro della Giustizia in Baviera. Da segretaria aveva l’abitudine di fare sempre una copia carbone dei testi che batteva o scriveva. Un giorno, tra le sue carte trovai una lettera a un’amica con le seguenti parole: “Se penso al passato, devo ammettere che noi eravamo spietati”. È una frase che ha cambiato il mio rapporto con lei».

E poi?
«Dopo la guerra, ridotta in povertà, doveva provvedere al mantenimento di quattro figli. Per guadagnare da vivere vendeva il libro di memorie di mio padre. Dalle 3 del mattino e fino alle 10 di notte, scriveva lettere a tutti i preti di Germania in cui chiedeva di acquistare il volume. Ogni lettera era diversa e personale. È morta di cancro ai polmoni a 63 anni».

Signor Frank, qual è il suo rapporto con la Germania?
«Diffido dei tedeschi. Come dicevo, nel rapporto con i profughi viene fuori l’anima cattiva dei miei connazionali. Non voglio generalizzare. Siamo pur sempre un popolo di 82 milioni di persone, ma ho molta paura. Penso che rischiamo di diventare una società orribile».

Però la cancelliera Merkel sui profughi ha avuto posizioni chiare e buone...
«Fece un bel gesto quando disse di volerli accogliere. Ma non siamo una società matura per confrontarci con un fenomeno di migrazione massiccia».

Ha mai visitato i campi di sterminio?
«Sì, sono stato a Birkenau, anche se quel luogo non faceva parte dei territori governati da mio padre».

Quante volte c’è stato?
«Più volte».

E come si è sentito?
«Ho sentito una rabbia furiosa».