Notiziario: Muli, cavalli, piccioni e cani: la strage silenziosa degli animali nella Grande Guerra

Muli, cavalli, piccioni e cani: la strage silenziosa degli animali nella Grande Guerra

La Grande Guerra è indissolubilmente legata, sul fronte italiano, alla figura del mulo, instancabile compagno di cordata degli Alpini sui ghiacciai dell’Ortles-Cevedale o delle Dolomiti, che, assieme al suo conducente, al suo sconcio come viene ancora chiamato tra le Penne Nere, portava sul proprio dorso cannoni e mitragliatrici, munizioni e vettovaglie, tirando nelle discese slitte cariche di feriti. E allora, muso basso e sempre avanti: alla fine del conflitto, tanti furono i muli a cadere sotto il fuoco nemico o precipitati nei dirupi, tanto che risultarono quasi del tutto estinti in diverse parti d’Italia. E Piccionepoi, oltre ai muli, moltissimi furono i cavalli mandati al macello assieme ai loro cavalieri, in sanguinosi quanto inutili assalti alla sciabola contro la mitragliatrice ed il cannone: recentemente, la loro storia è stata portata sul grande schermo da Steven Spielberg in War Horse, storia di un cavallo requisito dall’esercito britannico e del suo padrone partito soldato. Ma anche piccioni e falchi, usati per mandare brevi messaggi dalle prime linee ai comandi nelle retrovie e viceversa, così come utilizzati dai primi corrispondenti di guerra, che legavano alle zampe dei volatili brevi “lanci” per le edizioni dei quotidiani.

Soldato austriaco con cane porta messaggiMa nelle trincee trovò posto anche il più fido degli animali, il miglior amico dell’uomo: il cane. Tantissimi furono quelli che vennero utilizzati nelle trincee avanzate per il trasporto di munizioni e viveri là dove i sentieri e i camminamenti erano impervi e difficili per le tradizionali colonne delle salmerie. Sul fronte italiano, ad esempio, in particolare sull’Adamello, assieme ai conducenti dei muli, tantissimi cani furono equipaggiati di slitte e Monumento Alpini e mulo al Lago Maggiorecarretti, arrivando a trainare perfino pezzi di artiglieria di piccolo calibro. Ma il cane nella Grande Guerra venne utilizzato e addestrato per la ricerca e il soccorso, di chi veniva travolto dalle valanghe o cadeva in qualche crepaccio o risultava disperso durante le azioni di combattimento: possiamo affermare, senza smentita, che, negli anni 1914-1918, nacquero gli antecedenti dei soccorsi cinofili alpini. Eric Baratay, storico francese, ha stimato in quasi undici milioni di cavalli, muli e asini, 200.000 piccioni e volatili e 100.000 cani gli animali “arruolati” tra gli eserciti alleati e degli Imperi Centrali. Quanti di loro caddero assieme ai soldati? Nessuno lo sa di preciso, ma è stato calcolato in oltre il 50%: uccisi negli assalti, nei bombardamenti, di fatica e di stenti, precipitati in crepacci e dirupi. Trent’anni dopo, questo sacrificio silenzioso si sarebbe ripetuto nel corso del secondo Cavalleggero cadutoconflitto mondiale, con ancora una volta gli animali, soldati silenziosi senza uniforme, al fronte con i loro compagni, con i loro conducenti e con i loro sconci. E se qualcuno dubitasse ancora della loro umanità, restano le parole di Giulio Bedeschi, ufficiale medico alpino e autore di Centomila gavette di ghiaccio sulla campagna di Grecia e di Russia, che così ricorda: “Una volta, un conducente rimase ferito da una scheggia che gli fratturò la gamba ed io, che ero ufficiale medico, tentai di prestargli qualche cura, quando ad un certo punto il suo mulo gli si avvicinò e infilò il muso tra la terra e la nuca del ferito, in modo da sostenerlo, riscaldarlo, confortarlo. Una scena che non dimenticherò mai”.