Morire in trincea a 17 anni: la storia eroica di Roberto Sarfatti

Si chiamava Roberto Sarfatti, aveva 17 anni ed era tornato da poco da una licenza a Milano dopo alcune settimane al fronte. Volontario di guerra, aveva indossato la divisa degli Alpini ed era entrato a fare parte dei reparti arditi di tale corpo, guadagnandosi già una promozione a caporale sul campo, lassù sull’altopiano dei Sette Comuni irrorato dal sangue di migliaia di caduti. Se gli austriaci avessero sfondato, come già avevano tentato di fare nel 1916 con la “Strafexpedition”, la strada per irrompere nella pianura veneta, superare l’Adige ed arrivare al Po, era spianata. Sarebbe stata la disfatta finale e la fine della guerra. Già nel 1915, allo scoppio della guerra, non era stato con le mani in mano. Grazie a Filippo Corridoni, che gli aveva procurato documenti falsi, si arruolò volontario. Ma a Bologna, dopo due mesi di addestramento, qualcuno spifferò la cosa al comandante, il quale non trovò altra soluzione che riconsegnarlo al padre, anche se questo, come vedremo, non gli impedirà di tornare al fronte per morire da eroe.
Ma chi erano i genitori di Roberto Sarfatti? Il padre è un grande avvocato, socialista, impegnato in politica, molto esuberante, diventerà deputato. Morirà portando il lutto per la morte del figlio nel 1924. La madre è Margherita Grassini (in Sarfatti, perché con tale cognome sempre si sarebbe spesa): è figlia di una famiglia ebrea veneziana che ha costruito una fortuna imprenditoriale non da poco tanto da spostare la propria residenza dalla Giudecca (l’ex ghetto) al Canal Grande, in un palazzo dell’antica aristocrazia della Serenissima. Margherita cresce educata alla letteratura ed all’arte: D’Annunzio e Fogazzaro frequentano casa sua, e tanti artisti. Poi si sposta a Milano, dove conoscerà il marito; inizia a militare nel partito socialista, conducendo le prime battaglie nazionali per i diritti civili e sociali delle donne ed iniziando a collaborare con il giornale “Avanti!”. E’ qui che conosce Benito Mussolini, diventandone dapprima seguace ed amica, poi collaboratrice nel 1915 a “Il Popolo d’Italia”: a guerra terminata, la relazione con il futuro Duce cambia, si intensifica. Vedendo in Mussolini l’uomo che può cambiare le sorti d’Italia, nazione che la donna fortemente amava, attirata dall’intelligenza e dal profondo sentimento nazionale che anima quell’uomo, ne diviene forte sostenitrice e amante, intrecciando con lui una relazione amorosa che perdurerà fino almeno al 1935.

E’ Margherita Sarfatti, sostengono molti storici, che trasforma Mussolini da rivoluzionario romagnolo un po’ scapigliato, in capo politico e di governo. E’ Margherita Sarfatti che nella Villa del Soldo, a Rovellasca, vicina a Como ed al confine con la Svizzera, ospita Mussolini nei giorni antecedenti alla Marcia su Roma, giorni cruciali e rischiosi, in particolare quando si sparge la voce che Vittorio Emanuele III stia per firmare i poteri speciali a Facta per decretare lo stato d’assedio e sparare contro le camicie nere. E’ Margherita Sarfatti a porre le basi, fondando il “Gruppo del ‘900”, all’arte fascista, al suo sviluppo, a consentire ad artisti come Mario Sironi di sfondare e di consegnare la loro arte ed il loro nome alla celebrità dei posteri. E’ Margherita Sarfatti, instancabile costruttrice di relazioni diplomatiche con gli ambienti europei ed americani, a costruire un’immagine di Mussolini come uomo politico innovativo e capace, quando non progressista, tanto da essere accolta con il cerimoniale dedicato alle visite di stato, da Eleanore Roosevelt nel 1934 alla Casa Bianca. Resta diffidente verso la Germania, nel ricordo e nel dolore del figlio caduto in guerra, nella convinzione che la Grande Guerra ha rappresentato una sorta di vittoria di una nazione latina e romana, come l’Italia, contro il mondo germanico e teutonico, vittoria che riporta alle gesta di Gaio Mario, il console “popolare” che aveva salvato la penisola duemila anni prima dall’invasione dei Cimbri e dei Teutoni, massacrati dalle sue legioni a Vercelli e ad Aix en Provence. Nel 1934, quando intravede l’avvicinamento fra Italia e Germania e fra Mussolini ed Hitler, ostile anche alla guerra di conquista dell’Etiopia, inizia la crisi irreversibile con Mussolini che nel frattempo ha conosciuto una donna più giovane, Claretta Petacci. Nel 1936 le viene interdetto l’accesso a Palazzo Venezia e nel 1938, con le leggi razziali se ne va dall’Italia, prima in Francia, poi in Sudamerica.

Ma torniamo al figlio, Roberto Sarfatti. Fin da piccolo mette in mostra un carattere sensibile, indomito e acceso. Vive in una casa piena di libri, di stampe, di quadri e frequentata da artisti e intellettuali. E’ un precoce osservatore delle cose e degli uomini. Non studia volentieri e malsopporta le coercizioni degli insegnanti, tanto da rifiutarsi di scrivere un tema dedicato al compleanno del Re, fatto per cui la madre si convince a toglierlo dal collegio. Irrequieto di natura, legge e vuole fare. Continua gli studi più o meno da privatista, fintantoché non diviene giovanissimo militante del fronte intereventista. Si è già scritto sopra del suo volere già a 15 anni partire Volontario. Riconsegnato al padre, la famiglia tenta di allontanarlo dalla guerra e lo fa imbarcare su una nave mercantile come aspirante ufficiale: viaggia fino a Rio de Janeiro, passando per Gibilterra e Dakar e facendo la guardia la notte contro i sommergibili. Finalmente, nel 1917 e dopo Caporetto, può arruolarsi. Si addestra e rifiuta il corso di Allievo Ufficiale di Complemento, fatto che gli avrebbe evitato di andare al fronte, dove freme per poter essere mandato. Ragazzo del 1900, entra negli Alpini e chiede di essere assegnato ai reparti arditi di questi. Partecipa coraggiosamente a vari combattimenti, scrive varie lettere al padre e la madre, vuole compiere il suo “dovere di italiano e di soldato”.

Il 28 gennaio 1918 inizia una battaglia importante per le sorti della guerra italiana, la battaglia dei Tre Monti: sarà la prima battaglia vittoriosa dopo la disfatta di Caporetto e stabilizzerà il fronte sull’altopiano di Asiago in attesa della futura controffensiva del Solstizio. E’ appena rientrato da una licenza, chiede subito di andare in prima linea, sul Col d’Echele: ha solo 17 anni, ma guida un assalto ad una postazione austriaca, catturando diversi prigionieri ed una mitragliatrice. Non si ferma, torna all’assalto di altra postazione e cade mortalmente ferito. E’ sepolto al sacrario di Asiago, riposa lì, decorato di Medaglia d’Oro al Valor Militare. La madre, nel 1935 riuscirà a fare erigere nel luogo in cui era caduto, un monumento progettato dall’architetto Luigi Terragni, uno dei più grandi architetti del razionalismo fascista degli anni ’30. Milano dedicherà a lui la via che oggi è sede dell’Università “Bocconi”. Sotto al suo ritratto tenuto in casa, la madre appone di suo pugno la scritta. “Roberto Sarfatti, morto a 17 anni perché la umana italianità viva”.

Andrea Benzi