PREFAZIONE
C'è, in questo ricordo di un passato lontano, nel tempo, ma sempre
presente, nella memoria, l'ingenua constatazione che gli abitanti della
Iugoslavia, della Russia sono uomini, donne, anziani, bambini come noi,
che vivono, faticano, gioiscono e soffrono come noi. “Che ci stiamo a fare
noi sulla loro terra?”, dice Giovanni, semplicemente esprimendo, la sua
umanità, un concetto che lo accomuna inconsciamente all'umanista
Erasmo!
Di particolare interesse, come documento storico, per il riscontro
reale che esso ha avuto a Ragusa, l'appello che i collaborazionisti italiani gli
hanno fatto leggere alla radio per invitare gli italiani ad arrendersi, dando
della Russia un'immagine tanto distorta quanto favorevole, immagine falsa
che tanto ha influito nelle vicende politiche dei contrapposti schieramenti,
negli anni successivi alla fine del conflitto. Di poche parole Giovanni,
puntuale, però, nel ricostruire le sofferenze dei campi di concentramento
russi. Ma senza acrimonia, senza condanne per gli aguzzini, vittime anche
loro, (vedi la gioia condivisa della liberazione dei prigionieri che costituisce
anche per loro una liberazione, anche per loro il ritorno a casa) di un
ingranaggio diabolico attivato, come sempre, da opposte ideologie, opposti
fanatismi, opposti interessi. E senza odio. Per nessuno. Una grande lezione,
la sua, di comprensione delle ragioni dei nemici, di accettazione di una sorte
della quale solo chi aveva voluto mandarli a combattere in Russia, contro
ogni rispetto del diritto internazionale e della libertà dei popoli, ne portava
tutte le responsabilità storiche, politiche, militari.
Diversa la vicenda di Gaudenzio. E non solo perché lui la guerra l'ha
fatta sulle liquide, estese, mobili pianure del mare, ma perché di quelle
vicende ha conservato memoria scritta. E sì, un quaderno di quelli di una
volta, quelli con la copertina nera, lucida e con i fogli listati di rosso, un
quaderno riempito pazientemente, minutamente con le annotazioni delle
vicende più importanti del suo lungo servizio militare conclusosi con la
prigionia ad Alessandria d'Egitto, prima, in Italia, dopo. Non un diario vero
e proprio con annotazioni a conclusione di ogni giornata, ma una sintesi
puntuale e attenta, a partire del 1942, delle vicende più importanti
verificatesi dall'aprile del 1940, anno della sua partenza per il servizio
militare, al 15 gennaio del 1944, anno del suo ritorno a casa. Un ritorno
precoce, favorito, prima, dall'essere originario di una delle regioni già
“liberate” dagli Alleati, poi, da un'insperata, personale “liberazione”
esclusivamente e bizzarramente riservata agli operai e/o conduttori di
vigneti. A queste annotazioni, che vengono qui riportate integralmente, nel
pieno rispetto del testo e della sequenza narrativa, solo qualche lieve
modifica dell'ortografia, Gaudenzio ha aggiunto, a completamento ed
integrazione, durante i nostri colloqui, ulteriori dati appresi
successivamente al suo ritorno a casa, con un'attenzione particolare alla
sorte di suoi commilitoni, come nel caso dello sfortunato Salvatore Bruno, o
riflessioni sulla guerra e sulle sue conseguenze. Anche i dettagli sulla
consistenza della flotta italiana, di quella inglese, sulle operazioni militari e
sulle battaglie sono in gran parte frutto di successive ricerche, letture
personali, ad integrazione di informazioni che, necessariamente,
risultavano incomplete o non in suo possesso nel momento in cui componeva
il suo diario.
Per quanto possibile, ho cercato di riproporre fedelmente il testo di
Gaudenzio, le varianti più rilevanti riguardano le aggiunte successive,
quando chi racconta è, ovviamente, un altro uomo rispetto al giovane
ventenne di allora.
Un ringraziamento va anche alle sorelle Dimartino, Maria e Agata,
per il loro insostituibile ruolo di raccordo svolto durante gli incontri con i
fratelli, e a Francesca Tumino, (la Ciccina che per la terribile esperienza dei
rifugi fatta da bambina durante i bombardamenti ha ancora paura dei luoghi
chiusi), per avermi messo in contatto con Giovanni e Gaudenzio,
consentendomi così di realizzare il presente lavoro.
Salvatore Licitra
“Frammenti di storie”, un altro tentativo, dopo “Se b'avissi a
cuntari”, (Ed. Barone & Bella 2005), di strappare al tempo vorace
frammenti di piccole-grandi vicende personali vissute da ragusani,
all'epoca dei fatti poco più che ventenni, nei teatri di guerra e nei campi di
prigionia durante la seconda guerra mondiale. Un doveroso impegno a dare
ancora voce, ancora vita a quanti furono scaraventati dalla follia della
guerra, assolutamente incolpevoli ed inconsapevoli, in vicende inenarrabilmente
drammatiche, le mille miglia lontano dal loro piccolo mondo
ibleo.
Ma non solo il ricordo delle persone, ormai pattuglia sempre più
sparuta, inesorabilmente falcidiata dalla pallida dama dalla nera falce,
ignara di pietà, si vuole preservare. C'è una voce, in questi ricordi, un
messaggio alle giovani generazioni, un richiamo rivolto a tutti, una
condanna, silenziosa, ma decisa, senza appello, della crudeltà della guerra,
dell'inutilità della guerra, della follia della guerra, della violenza della
guerra che genera sempre e soltanto altra violenza. E' la lezione dolorosamente
sperimentata nella loro esistenza, impressa indelebilmente dalle
sofferenze nella loro carne. E' il loro testamento spirituale. E' il loro estremo
contributo di cittadini alla comunità. Attraverso una serie di piacevoli
colloqui con i protagonisti delle vicende narrate sono riemersi, lucidi e pur
sempre dolorosamente carichi della loro sofferenza, pur se trascorsi ormai
oltre sei decenni, i ricordi di guerra di Giovanni e Gaudenzio Dimartino,
oggi due venerande canizie, molto più vicini ai novanta che agli ottanta.
Hanno così preso corpo e vita le vicende di Giovanni, giovane e
aitante cavalleggero del Savoia cavalleria, festuca ignara proiettata dal
rapace vortice della guerra in Francia, prima, poi in Iugoslavia, in Russia,
infine, un contrappasso, quasi, dall'assolata, franta Sicilia alle sterminate,
piatte e algide pianure russe. Prigioniero già nei primi mesi di quella
sconsiderata, folle nostra partecipazione alla spedizione in Russia, deve
forse a questa sua precoce cattività, al suo spirito di dignitoso adattamento,
alla sua giovanile sete di vita la sua salvezza e il ritorno a casa, dopo quattro
durissimi anni di gulag.