LIBRI: Deportare e concentrare

di Renzo Paternoster

L’autore di questo libro è Renzo Paternoster, storico collaboratore della nostra rivista. Il suo nuovo lavoro offre un’attenta e ampia analisi sugli universi concentrazionari, un saggio meticoloso che parte da Fenestrelle e si conclude a Guantánamo, passando per i Lager, i Gulag, i campi europei, asiatici, latinoamericani e africani.
Questo è un libro che non si può leggere tutto d’un fiato senza avere capogiri, perché necessita di pause, di respiro, per non lasciarsi trascinare nel vortice dell’orrore. Le testimonianze crudamente trascritte imbarazzano, creano sentimenti di sgomento e orrore, sconfinando nell’incredulità di storie abbondantemente piene di dolore umano, perché nei campi “tutto è possibile”.
Paternoster, basandosi sulla più recente storiografia, non si limita ad analizzare la genesi e la storia dei campi ma, attraverso testimonianze, alcune inedite da lui stesso raccolte, descrive il male dei campi e le condizioni di “non-vita” al loro interno. Nel saggio, come lo stesso autore avverte, il termine “campo” è usato in senso simbolico, poiché sono descritti anche altri luoghi come fortezze e prigioni in cui il fine appare identico a quello dei campi.
Nell’immaginario degli orrori che la storia politica ha prodotto, i campi occupano una posizione privilegiata. Nati e predisposti in un contesto di necessità militare, i campi si evolvono diventando la più alta forma di ingegneria sociale per rimodellare un ordine socio-politico.
Come tutti i lavori di Paternoster, anche questo si apre con un Prologo (Spiegare per conoscere) e si conclude con un Epilogo (Conoscere per capire), in cui rispettivamente l’autore avverte che «la sola aritmetica delle perdite umane non basta a classificare un campo e un progetto politico come più criminale di un altro. Ogni campo rappresenta il trionfo del male, la celebrazione di un arbitrio che si fa norma in un determinato regime politico» [p. 15], concludendo che «i sistemi concentrazionari non sono buchi neri della storia moderna» [p. 406], ma strumenti “logici” di un potere che esclude, «il luogo perfetto dove disintegrare la pluralità, la soluzione ideale che permette di ri–territorializzare persone considerate “fuori posto”, la cui vita fisica e morale diventa irrilevante» [p. 407]. I campi, avverte Paternoster, non costituiscono neppure una prerogativa di regimi politici non democratici, manifestandosi in tempi, luoghi e contesti politici molto diversi.
Nel primo capitolo l’autore spiega il processo che ha portato dalle prigioni agli universi concentrazionari, illustrando la “forma campo” e le sue funzioni: «La logica dei campi di concentramento per civili risponde a sette criteri: isolare, punire, eliminare, sfruttare, correggere, terrorizzare, economizzare» [p. 26].
I campi, così come noi li conosciamo – un pezzo di terra recintato dove “parcheggiare” in massa persone considerate estranee e/o nemiche di un ordine politico-sociale – nascono tradizionalmente a Cuba nel 1896, durante la guerra ispano-americana. Il professor Paternoster, tuttavia, anticipa la loro genesi di una trentina d’anni, almeno come idea. In pratica è durante il Risorgimento italiano che compaiono luoghi come Fenestrelle, San Benigno in Genova, Livorno, Alessandria, Milano, Bergamo, San Mau­rizio Canavese e così via, dove si internano in massa i duosiciliani per “convincerli” e “rieducarli” al nuovo corso della storia d’Italia. Certo non sono campi in senso classico, ma l’idea dell’internamento in massa al fine di “rieducare” nasce proprio con i Savoia.
Il secondo capitolo tratta della deumanizzazione dei nemici, pratica indispensabile per decidere del loro futuro nei campi: internamento, lavori forzati o sterminio. Dopo i luoghi di internamento dei Savoia, la lunga storia prosegue con i primi classici modelli di campi di concentramento, tutti di origine coloniale (Cuba, Filippine, Sudafrica, Africa sudoccidentale), continuando con quelli istituiti durante la Prima Guerra Mondiale, quelli per gli armeni, quelli creati dalla dittatura portoghese di Salazar, i campi repubblicani e franchisti della Guerra di Spagna e quelli francesi della Repubblica di Vichy, sino a quelli fascisti di Mussolini.
L’autore presenta gli altri campi suddividendoli secondo le loro funzioni e includendoli in capitoli specifici: campi per sterminare (capitolo IV), come quelli nazisti e ustascia nell’Europa occupata; campi per rieducare e punire (capitolo V), come quelli degli Alleati dopo la Seconda Guerra Mondiale, i Gulag sovietici, i Laogai cinesi, i campi e le prigioni dell’Europa comunista; i Gulag titini; i campi asiatici del Vietnam, Laos, Cambogia, Corea del Nord, Indonesia; le UMAP cubane; i campi del fascismo ellenico; i centri clandestini di detenzione latinoamericani.
Un capitolo, il sesto, è dedicato ai campi in cui gli internati diventano cavie umane per gli esperimenti scientifici per una guerra bio-batteriologica (Lager nazisti e Unità scientifiche giapponesi).
Infine il capitolo VII descrive i campi per isolare, da quelli creati da statunitensi, canadesi e inglesi durante la Seconda Guerra Mondiale per separare dalla società gli alien enemies (i cittadini stranieri o di origine straniera residenti), a quelli istituiti durante la guerra nella ex Jugoslavia, sino ai campi prigione di Guantánamo e Israele.
La copiosa bibliografia conclude il lavoro.

In anteprima per i lettori di Storia in Network il Prologo, intitolato “Spiegare per conoscere”.
«Se vi dicono che la storia ha conosciuto fantasmi in carne e ossa voi direte che è falso. Eppure la storia non mente. Gli universi concentrazionari possono, da questo punto di vista, suggerire qualche risposta.
I campi (di internamento, di concentramento, di lavoro forzato, di sterminio) sono un prodotto della politica che si fa totalitaria, dispotica, violenta, padrona; manifestando la volontà di dominare la storia, per accelerarla, deviarla, modificarla, indirizzarla. Sono politica oscena, che cerca il trionfo anche nella carne e nel sangue. Sono il paradigma biopolitico della modernità. Infatti, è con la modernità che la violenza politica si esprime in forme sempre più degradanti dell’essere umano in quanto tale.
Attraverso la violenza si assegnano nell’ordine della politica determinati valori alla vita e alla morte, e si decide quale posto è dato alla vita, alla morte, al corpo umano (in particolare al corpo da uccidere, al corpo–cadavere, al corpo violentato, al corpo imprigionato, al corpo scomparso, al corposuppliziato). La politica, così, si trasforma in biopolitica, e il corpo dell’indi­viduo diventa la posta in gioco delle strategie politiche. La biopolitica negativa non è solo morte, ma anche un lavorio sul corpo della vittima, che va ben al di là della morte stessa.
La peculiare esperienza dei campi di concentramento e affini è direttamente connessa alla volontà di dominare la storia, anche attraverso la coincidenza tra il corpo biologico dell’individuo e la sua dimensione politica.
Nella storia, i campi di concentramento sono serviti per demolire ciò che doveva essere, per convertire le volontà, per annichilire l’essere umano nel corpo e nella personalità. Insomma, si è trattato «di costruire un’umanità riunificata e purificata, non antagonista» [S. Courtois, Perché?, in S. Courtois (a cura di), Le Livre noir du communisme. Crimes, terreur, répression, Lafont, Paris 1997, trad. it., Il libro nero del comunismo, Mondadori, Milano 2000, p. 698]. In questo modo, «da una logica di lotta politica si scivola presto verso una logica di esclusione, quindi verso una ideologia dell’eliminazione e […] dello sterminio di tutti gli elementi impuri» [Ibidem], oppure della loro rieducazione e del loro controllo.
Di fronte a questi contesti di violenza politica totale, due importanti aspetti sembrano intrecciarsi: la necessità di spiegare per conoscere, il bisogno di conoscere per capire. Naturalmente conoscere e capire non devono essere equivocati: non si tratta di giustificare (conoscere non vuol dire legittimare e, soprattutto, capire non è assolvere), ma di intenderli come comportamenti prettamente umani, contro la comune concezione che riconduce la violenza a inumanità, malvagità, follia, qualcosa che sta di là dalla cultura e dalla civiltà. La violenza e la crudeltà politica non sono categorie residuali della civiltà e della cultura, esse appartengono a ogni epoca e continente: «Quando l’uomo si riunì in comunità e si diede istituzioni e leggi, divenne, a detta di Aristotele, un «animale politico» e le sintesi politiche si susseguirono, buone o cattive, prosperando o degenerando, ma diffondendo anche violenza provocata da corse al potere e spietate competizioni fra nuovi aspiranti […]. La minaccia e, come estrema risorsa, l’uso della violenza, oggi come ieri, fanno parte del «bagaglio» con cui individui o gruppi cercano di determinare il cambiamento o di salvaguardare lo status quo». [E. Cecchini, Storia della violenza politica, Mursia, Milano 1994, pp. 6–7.]
Attraverso i campi, la violenza politica si è espressa e si esprime in forme sempre più degradanti e criminali.
È ragionevole creare una scala di valori al negativo sui campi? No, rispondo subito, non ci può essere una gerarchia dell’or­rore, non c’è nessuna possibilità di stabilire una graduatoria del male. Ogni campo rappresenta una precisa forma di barbarie, al di là del progetto politico che può averla indotta.
Che il razzismo nazista si esprimesse su base antropologica e quello comunista su fondamenti socio–economici, cambia i fatti, ma non i termini della questione, e nemmeno la sostanza delle moda­lità criminali. Si perdeva la dignità di esseri umani tanto ad Auschwitz quanto a Kolima, Phnom Penh, Goli Otok, Pitesti e così via. La sola aritmetica delle perdite umane non basta a classificare un campo e un progetto politico come più criminale di un altro. Ogni campo rappresenta il trionfo del male, la celebrazione di un arbitrio che si fa norma in un determinato regime politico, rientrando nella legalità giuridica e morale di quello regime. Perciò ogni classificazione crea confusione e disturba, facendo perdere l’uguale dignità alle vittime.
Prima di procedere nel repertorio dell’arbitrio dell’uomo sull’uomo, credo sia utile fare una precisazione. In questo lavoro, non mi propongo di intraprendere una ricostruzione completa della storia di tutti i campi in tutti i Paesi in cui essi sono esistiti o ancora sopravvivono. Vorrei invece esporre il senso del fenomeno concentrazionario, indagando sulla sua evoluzione, sulla non–vita al loro interno, lasciando anche spazio alle memorie dei sopravvissuti, di chi è sceso negli abissi dell’Umanità e ha avuto la fortuna di risalire. Per questo ho utilizzato il termine “campo” in senso simbolico, per rappresentare nel suo insieme una variegata e complessa realtà fatta non solo di campi, così come la storia ci ha fatto conoscere, ma anche di altri luoghi come prigioni e fortezze in cui l’intenzione appare identica come nei campi.
Il saggio che il lettore ha tra le mani è frutto di lunghissimi anni di ricerca e studio. Tutto è iniziato dopo l’incontro casuale in Romania con il signor Petru, ex prigioniero del carcere di Pitesti. Non volevo credere a quello che egli mi stava raccontando, dei terribili supplizi e delle blasfeme parodie per rieducare anche l’anima del prigioniero, subite in quello che egli ha definito “la prigione di concentramento del corpo e dello spirito”. È seguita così una lunga maturazione. L’emozione provata durante una visita ad Auschwitz e Birkenau mi ha dato l’impulso definitivo. Ho così iniziato una lunga ricerca dei sopravvissuti, non tanto dei Lager nazisti (esiste un’ampia memorialistica riferita ai campi nazisti), quanto di altri luoghi di internamento e concentramento.
Ho così trovato chi ha vissuto l’esperienza dell’assurdo, ma molti non hanno voluto raccontare per vergogna e per “mancanza intenzionale” di memoria. Di quelle persone che lo hanno fatto, alcuni hanno voluto restare anonimi, pregandomi di non citarli, nemmeno con un nome di copertura. Non vi nascondo che ho provato imbarazzo ad ascoltare l’inimma­gi­nabile. Nei confronti di queste persone ho dunque contratto impagabili debiti umani e di riconoscenza. Allo stesso tempo mi scuso con loro, per avergli testardamente fatto rivivere i tormenti, interrogando le loro profonde ferite.
In questi lunghi anni di ricerca e studio, ho anche contratto debiti affettivi e intellettuali con persone che mi hanno offerto premurosa attenzione attraverso la ricerca e il contatto con ex internati, significativi suggerimenti e spunti di riflessione, mettendomi pure a disposizione le loro conoscenze e i loro materiali. Tra questi Gaetano Paolillo, Slavica Mitić, Julio Mariangel Toledo, Bosko Gajic, Mila Mihajlovic, Vasso Ana e il signor Xiong. A tutti esprimo la mia gratitudine.
Ovviamente ringrazio gli autori dei saggi che ho preso in considerazione e che ho, con piacere e dovere, citato nelle note e nell’ampia bibliografia.
La mia riconoscenza va pure a tutte quelle persone, sono davvero tante, che mi hanno aiutato a tradurre testi da lingue per me incomprensibili, beneficiando anche della loro pazienza.
Un ulteriore prezioso supporto mi è stato offerto da Concetta Tortora, che ringrazio per la lettura della bozza alla ricerca di errori e imperfezioni. Ovviamente tutte le pecche rimaste nel testo, come ogni sconvenienza e omissione sono, naturalmente, mia esclusiva responsabilità.
Ora prepariamoci a scendere negli abissi dell’Umanità».
Renzo Paternoster, Campi. Deportare e concentrare: la dimensione politica dell’esclusione – Aracne, Roma 2017