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LE SCARPE AL SOLE di Paolo Monelli

1914-2014. Raccontare la Grande Guerra: La voce di Paolo Monelli. Scritto nel 1919 e uscito in prima edizione nel 1921, “Le scarpe al sole” (Cronaca di gaie e di tristi avventure d’alpini, di muli e di vino) racconta la vicenda autobiografica dell’autore, convinto interventista e ufficiale degli Alpini dalla fine del 1915. L’espressione mettere le “scarpe al sole”, in gergo degli alpini, significa “morire in combattimento”. E’ considerato uno dei più intensi libri-diari di guerra, di prospettive non consuete, e conobbe presto un grande successo. Presentazione e invito alla lettura dell’opera di Gaetanina Sicari Ruffo.

Si moltiplicano le pubblicazioni relative all’anniversario della Prima Guerra mondiale nel tentativo di meglio intendere se fu “un’inutile carneficina”, com’ebbe a dire Benedetto XV, e se poteva essere evitata come pensano i contemporanei. Provocò un grande squilibrio, come tutte le guerre d’altronde, ma essa, attestatasi come guerra di trincea, con povertà di mezzi ed equipaggiamenti specialmente da parte dell’Italia, fu particolarmente cruenta e caotica e rivelò il fallimento degli obiettivi per cui era stata voluta, aprendo successivi fronti che cambiarono l’assetto dell’Europa.Paolo Monelli, ufficiale degli Alpini, giornalista e scrittore (Fiorano Modenese 15 luglio 1891 - Roma 19 novembre 1984), fu un convinto interventista e militò dal ’15, quando lo scenario bellico poté considerarsi pressocché definito. Quindi è importante capire dal suo racconto se la sua sicura condivisione dell’inizio si sia mantenuta tale fino alla fine.

Prima d’essere un giornalista di grande successo, lodato per il gusto del particolare, la prosa brillante, la fine arguzia, l’eloquio di grande impatto emotivo, fu un forte ed infaticabile combattente, apprezzato dai suoi alpini. Mai aveva pensato di darsi al giornalismo, essendo laureato in giurisprudenza, ma, dopo l’esperienza bellica, la sua voglia di comunicare non s’arrestò più. Figlio del Direttore dell’Ospedale militare di Bologna, Paolo Monelli considerò la guerra un impegno d’onore e un dovere che affrontò con determinazione e lucida partecipazione. Talvolta gli capitò di considerarla “un mestiere”, quasi avesse comuni caratteri convenzionali. Certo amò l’azione, il vino e l’amore e mise in gioco la sua giovinezza e la sua vita pur di non starsene in disparte. Definì l’esperienza bellica “una ricchezza segreta ed indistruttibile” che gli valse fama e prestigio.
Profuse tutte le sue energie nei combattimenti e meritò tre volte la medaglia di bronzo. Arruolato nel battaglione “Val Cismon” del 7° reggimento Alpini, presente sul fronte del Trentino sud orientale, combattè in Valsugana Logorai orientale nel ’16, sull’Ortigara, sul monte Tondarecar nel corso del ’17. Fu pure al comando della 301 Compagnia del battaglione Alpini Sciatori Monte Marmolada. Nel ’18 fu fatto prigioniero e ripreso due volte dopo inutili tentativi di fuga.

Da queste esperienze nacque il diario Le scarpe al sole, in cui descrisse fedelmente le vicende occorsegli ed i luoghi percorsi sulle cime innevate del Trentino e del Cadore. Il suo primo impatto con la guerra fu il giorno di Natale del 1915 e fino all’armistizio provò di tutto: gli stenti, la fame, le veglie, gli scomodi ed improvvisi attraversamenti per sfuggire o sorprendere il nemico, gli attacchi proditori, le difficili battaglie come quella sanguinosa dell’Ortigara nel ’17 ed infine la cattura e la prigionia narrate nella terza parte del diario con un tono profondamente cambiato e divenuto dimesso. Alcuni punti del suo racconto concordano con la narrazione di Gadda(http://www.altritaliani.net/spip.ph...).
Ma mentre questo testo presenta dell’incisività nel penetrare la visione del conflitto fino al punto d’innestarla con una riflessione universale sul male, Monelli si limita realisticamente a descrivere i giorni critici, le difficoltà dei mezzi, la povertà degli equipaggiamenti e la bellezza dei luoghi montani a conferma della sua attitudine al giornalismo. Si discosta pure dal racconto del diario di Lussu, impegnato con la brigata Sassari in quel di Asiago, per impedire agli Austriaci di arrivare fino a Vicenza e Verona. Il suo libro Un anno sull’altopiano (Edizioni italiane di cultura, Parigi, 1938), che racconta la guerra di un convinto interventista “democratico”, esprime una forte riprovazione della guerra.
Paolo Monelli non la ama, ma la ritiene necessaria e la presenta come una azione dovuta per salvare l’onore dell’Italia. Cerca di evitare depressioni e malinconie per conservare le sue giovanili energie e quelle dei suoi compagni. Trova con naturalezza l’impeto giusto per affrontare il nemico senza pensare alla morte in agguato, riuscendo temporaneamente a neutralizzarla.Il sottotitolo del suo diario: Cronaca di gaie e tristi avventure di alpini, di muli e di vino la dice lunga sulla sua voglia di vivere come in un’avventura e di narrare talvolta episodi di allegria, di grandi bevute, di incontri, di allegre canzoni per esorcizzare la paura e il pericolo incombenti. La guerra non è Grande. Gli appare solo un mezzo rapido per vincere la partita e giungere alla vittoria, mentre giudica incerto il confine tra vivi e morti. Essi sono i protagonisti di tutta la sua storia. Lo scrittore attraversa con leggerezza le linee d’ombra che dovrebbero separarli e a loro si rivolge ora con accenti elegiaci, ora con crudo realismo, invitandoli a dire la verità.

Per il resto conta solo l’azione e l’azzardo dei combattenti, ai quali sono comminate le fucilazioni che di solito spettano ai disertori, se solo provano a non obbedire agli ordini.
Un episodio di tal fatta è raccontato nel diario con crudezza di particolari per due alpini che, in occasione della battaglia dell’Ortigara (giugno del ’17), usciti per una corvè non vi erano più rientrati. Allo scrittore non interessa dare solo la notizia della loro esecuzione, ma si attarda a descrivere minutamente nel dettaglio i particolari, forse per far capire la rigidità delle regole e l’assurdità d’un fuoco amico che apparve già fin da allora spropositato ed inutile. In realtà oggi si dà molta importanza a queste decimazioni, volute numerose dai comandi militari (circa in 200.000 furono accusati di diserzione) e si disse allora per assicurare la disciplina, ma si pensa ora anche per assolvere dalla responsabilità i capi e attribuire gli insuccessi all’inerzia e alla leggerezza dei soldati: “La giustizia degli uomini è fatta. Questioni, dubbi s’affacciano alla mente riluttante e li respingiamo con terrore, perchè contaminano troppo alti principi: quelli che accettiamo ad occhi chiusi come una fede per timore di sentir fatto più duro il nostro dovere di soldati.

Al di là del dissolvimento dei confini e della precarietà dei destini individuali, la “cognizione del dolore”, cara a Gadda, non sollecita però Monelli a riflessioni che travalichino l’episodio e si pongano come commento negativo d’un certo limite nazionalistico. La guerra diviene una disciplina che foggia il carattere e dà lo sprone ad una vita intensa di partecipazione e di forti emozioni come fu la sua anche nel prosieguo.Infatti dopo l’exploit del primo conflitto mondiale che Monelli ha vissuto come un impegno serio e sentito (Indro Montanelli, “Corriere della sera”, 13 settembre 1997, lo definisce “cronista galantuomo”), non si estinse il suo interesse per la guerra e fu protagonista di altre esperienze simili: partecipò al secondo conflitto mondiale, sempre restando nel corpo degli Alpini come inviato speciale e fu, nel corso della sua lunga esistenza, più volte relatore, sponsor e retore della necessità di essa. Talvolta si compiacque della sua partecipazione: La guerra è bella, ma scomoda (Treves, Milano,1929, testo illustrato con 46 tavole di Giuseppe Novello), altre volte la ricordò semplicemente come un mestiere, descrivendone le occasioni: La naja parla (Longanesi 1943, ripubblicato da Mursia nel 2001 con il titolo: Ricordi di naja alpina), oppure: Le parole della guerra.

La sua carriera nella carta stampata come giornalista del “Resto del Carlino”, “La Stampa”, “Il Corriere della Sera”, “L’Europeo”, “Il Mondo”, “La Gazzetta del Popolo”, lo vide ora come inviato speciale o corrispondente (Cecoslovacchia, Berlino, Ginevra, Etiopia, Vienna) e a stilare réportages di molti viaggi in tutto il Mediterraneo e nell’Europa continentale. E’ difficile seguirlo in questo andirivieni di esplorazioni, ma fu un giornalista ambizioso di costituire con l’arte dell’informazione un genere alternativo alla narrativa ed alla poesia che pure lo tentarono.

Con la sua assunzione alla torinese “Gazzetta del Popolo”, di cui era direttore E. Amicucci, segretario del Sindacato nazionale fascista dei giornalisti, Monelli, insieme a Barzini, Missiroli, Ansaldo, Vergani, Malaparte, Longanesi, cedette alle tentazioni della dittatura. Non ebbe remore ad entrare in amicizia con Ciano e Bottai. Ne condivise le scelte ed i programmi e con il volumeBarbaro dominio (Hoepli, Milano 1933) aprì la campagna di purificazione della lingua italiana, minacciata da influenze straniere. Voleva un’Italia libera da influssi culturali esteri, pronta a dominare e a distinguersi. Il nazionalismo lo contagiò ed egli ne fece una bandiera.

Più tardi prese le distanze da tale esperienza, scrivendo il libro Roma 1943 (Migliaresi 1945), condiviso da un altro alpino scrittore, Gadda, anch’egli autore dell’antimussoliniano Eros e Priapo. I libri di Monelli che seguirono: Da Milano a Dongo, L’ultimo viaggio di Mussolini, Mussolini piccolo borghese, sono sulla linea di questa revisione. Una stagione di facili entusiasmi si chiudeva e se ne apriva un’altra di maggior rigore, ma sempre varia e movimentata. E’ come se egli avesse vissuto più vite. Nel secondo dopoguerra Monelli fu impegnato oltre che nel giornalismo (collaborò al mensile “Mercurio” di Alba De Cespedes) anche nel tentativo di riuscire in campo letterario. 
Seguì infatti varie attività, mosso dai più svariati interessi umani e sociali. Tentò la via della narrativa: Sessanta donne (’47), Morte del diplomatico (’52), Avventura nel primo secolo (’58), ma senza molto successo. Frequentò gli amici dei Premi Bagutta e Strega, senza comunque conseguire brillanti risultati. Negli ultimi anni recitò persino a teatro, nella commedia Mio figlio Professore di Renato Castellani ed in Primula bianca di Carlo L. Bragaglia, rivelando di possedere un grande vitalismo alla maniera dannunziana anche per la sua vita che aveva sognato fosse “inimitabile” come quella del Vate. Morì a Roma all’età di 93 anni, nel 1984. Lasciò sotto il nome di “Fondo Monelli” il suo archivio personale ed i suoi numerosi volumi alla Biblioteca statale di Roma “Antonio Baldini”. 
A Bologna, nel Complesso monumentale della Certosa, dedicato ai caduti della Grande Guerra (Museo del Risorgimento), Paolo Monelli è ricordato come un protagonista dell’evento insieme ad altri bolognesi appartenenti al Corpo degli Alpini: Gaetano Berti, Attilio Frescura, Angelo Manaresi. La sua figura è stata, durante gli anni intercorsi fino a questo centenario, quasi al centro della memoria collettiva che si rinnova. Recentemente, infatti il 22 ottobre2014, nel castello di S.Giusto a Trieste è stata inaugurata la mostra “Al fronte con Paolo Monelli” e lo hanno riguardato molte altre iniziative.

LE SCARPE AL SOLEIl suo libro-diario Le scarpe al sole che, nel gergo degli alpini, significa morire in combattimento, scritto nel ’19 e pubblicato nel ‘21 da Cappelli, Bologna, è composto di 227 pagine. Il suo successo fu rapido e strepitoso tanto da divenire presto popolare. Fu tradotto fin dal 1930 a Londra, Parigi, New York e considerato uno dei più intensi diari di guerra. Il tono della narrazione è prima leggero e poi grave, animato da fede patriottica, ma gli Italiani sembrano disorientati e, nonostante numerosi eroici episodi di resistenza, disorganizzati e mal guidati. Scritto in una prosa colorita e scattante con espressioni gergali e l’uso di una libera sintassi, in forme linguistiche spesso del linguaggio parlato, vive e disinvolte, intramezzate da poesie, canzoni, echi letterari, impressioni soggettive e frammenti di dialogo, il diario non genera mai monotonia, ma, proprio per la sua varietà, riesce a tener desta l’attenzione del lettore, puntando su considerazioni umane di intensa emotività:

Più alta che la patria, più forte che il dovere. Umanità. Ci sgozziamo ferocemente, in un macello che ci ripugnerà forse domani, per valori che saranno angusti o nulli domani. Ma uomini siamo, con dignità di uomini, con questa potenza di chiudere in un gesto la giustificazione e la ragione della vita.

All’inizio la lettura si apre all’insegna d’un gran fervore giovanile, di viva curiosità nell’accogliere le novità, anche se con il contrappunto di disagi, veglie, improvvisi trasferimenti, freddo e fame: “Allegri asceti siamo noi, che confortiamo di buon vino e di fantasie libere la prontezza quotidiana al sacrificio”. Si entra poi a far conoscenza della comunità militare con cui si fraternizza senza perdere la memoria del luogo di provenienza. Ci sono squarci superbi di descrizioni naturali di tono elegiaco: di notturni, tramonti, albe.

Via via però il tono si fa più aspro, meno confidenziale e la dura realtà quotidiana, tra il pericolo dei cecchini, i fischi delle granate, l’asperità dei luoghi, prende il sopravvento. Si aprono scene di sconfinamenti inenarrabili, in cui la prosa drammatica si sostituisce alla poesia. Allora lo scenario cambia. Si offre alla vista un grande carnaio umano, fragile e logoro che tenta inutilmente ed eroicamente di resistere. L’olfatto aiuta la vista a meglio comprendere l’evidente orrore: cieli neri e carni putrescenti. I bagliori che si accendono sui monti divengono sempre più vicini. La morte, che prima sembrava giocare a rimpiattino, rivela il suo ghigno mostruoso. Fortuna che agli alpini vengono concesse abbondanti bevute nelle rare soste che fanno, come risarcimento alle marce forzate ed alle improbe fatiche degli accerchiamenti e degli scontri. Ma l’oblio non si ottiene con così facile prezzo. Ci pensano il freddo e la fame a tenerli svegli oltre misura. Alcune battaglie poi, pur così sofferte e cruenti, non danno il risultato sperato: quella dell’Ortigara ad esempio, con il vallone dell’Agnelizza colmo di morti, è stata giustamente chiamata il Golgota degli Alpini.E’ il ’17 l’anno cruciale, negativo. La vita sembra sia congelata e non riesca più a trovare risorse e la parte terza del diario di Monelli disperatamente narra la mestizia dei cedimenti, delle sconfitte, pesantissima quella di Caporetto del 9 novembre non vissuta direttamente, perchè l’autore vien fatto prigioniero ed avviato verso Trento e poi al Castello di Salisburgo. 

(5 Dicembre) Melanconico corteo verso le retrovie nemiche. La fame atroce sovrasta beneficamente al dolore. Al buio ci mischiano con un’orda enorme di altri prigionieri. Tra quelli quanti sono che alzarono le mani senza combattimento? Le bestiali necessità del cibo e del riposo superano ogni senso di dignità; già soldati si scrollano di dosso il fardello della disciplina, gettano contro l’ufficiale il loro odio, il loro rancore, la soddisfazione d’essere prigionieri”.

Qui non c’è più la retorica dell’epicità della guerra, la soddisfazione d’aver compiuto un dovere, ma la squallida costatazione d’un mutamento indesiderato, d’un esito infelice, la confessione di errori compiuti, la perdita della dignità. La milizia che non si sente fiera, ma rassegnata e affranta ed anche, ad armistizio compiuto, delusa per un risultato insoddisfacente: “D’un colpo, tutto è crollato. Attoniti udiamo il frastuono del nuovo mondo, or che si è fatto silenzio in noi, e il cuore è gonfio di echi irrevocabili”.