Nella seconda metà del 1917, l’esercito russo non aveva praticamente più capacità bellica: questo permise ai germanici di sottrarre al fronte orientale un cospicuo numero di divisioni.Date le pressanti richieste del nuovo imperatore d’Austria, fu creata un’armata agli ordini del capaceGenerale Von Below, allo scopo di ricacciare gli Italiani sulle posizioni del 1915. L’operazione fu preparata con grande cura e dispiego di mezzi.
Per aprire la strada agli attaccanti nella conca di Plezzo, fu fatto arrivare al fronte anche uno speciale battaglione lanciagas, che piazzò centinaia di tubi lanciagranate di fronte alle linee italiane (i reparti che Cadorna avrebbe in seguito tacciato di codardia, erano già destinati a morire, in battito d’ali, per intossicazione da gas fosgene nemico).La mattina del 24 ottobre 1917, l’alta valle dell’Isonzo era piena di nebbia e il tempo era freddo e piovoso. Nonostante conoscessero l’ora d’inizio dell’attacco nemico, gli artiglieri italiani restarono immobili.
Ben presto, una valanga di fuoco si abbatté sulle prime linee e poi avanzò a sconvolgere le retrovie, ma i vertici militari italiani erano stati chiarissimi, quando avevano imposto di non sparare fino a che ciò non venisse esplicitamente richiesto e autorizzato.Tuttavia, sotto un simile uragano di ferro, le linee telefoniche saltarono subito; i segnali ottici non servirono e i portaordini non riuscirono a recapitare alcun ordine, falciati ovunque dal fuoco nemico.
In realtà, il tiro di contropreparazione sarebbe dovuto iniziare prima e non dopo quello austrotedesco (il che, quando accadde, come nella battaglia del Solstizio, azzerò le possibilità di successo dell’attacco), dato che tutte le informazioni indicavano un ammassamento di truppe d’assalto assai a ridosso della prima linea e, quindi, poco protette da un efficace sbarramento d’artiglieria.Il Generale Pietro Badoglio fu il principale esecutore dell’ordine che imbavagliò le artiglierie; ilGenerale Luigi Capello, dopo giorni di farneticazioni e preparazioni di controffensive strategiche, cadde malato: il caos totale regnava dunque sovrano e gli austro-tedeschi violarono e dilagarono facilmente per la val Natisone e la valle dell’Isonzo, in mezzo a isolate sacche di resistenza e a grottesche incapacità dei comandi italiani.
La difesa si spostò dapprima sulla linea al Tagliamento e quindi sul Piave e sul Grappa (dove le truppe del neodecorato “Pour le mérite” Tenente Ervin Rommel, condottiero delle avanguardie austro-tedesche, ebbero poi modo di spuntarsi le corna contro i battaglioni degli Alpini).Qui e sull’Altopiano dei Sette Comuni, si combatté una terribile battaglia d’arresto, che durò, in pratica, fino al febbraio del 1918; infine, l’esercito italiano si ricompattò con ritrovato fervore patriottico e riprese la pugna a oltranza.
Nella battaglia vi parteciparono per l’Italia 257.400 soldati, con 1.342 cannoni, per l’Austria 350 mila uomini con 2.518 cannoni.Per l’Austria il bilancio fu di 50 mila tra morti e feriti, tra i 10.000 e i 13.000 furono i morti italiani, 30.000 i feriti, decine di migliaia tra prigionieri e disertori, oltre un milione i profughi civili.
Dopo Caporetto, l’esercito italiano, tra il Brenta e il mare, poteva contare su non più di 300.000 uomini - ma erano uomini che la tragedia di Caporetto aveva profondamente cambiato e, in qualche modo, forgiato e preparato al ben più radioso futuro del 1918