Furono trucidati in quindici, quella domenica di Pasqua del 1944. Era il 9 aprile. Tra gli uccisi vi furono anche due ragazzi non ancora ventenni, Giannantonio Pellegrini Gislaghi, studente sedicenne, e Giorgio Bonacasta, operaio di diciotto anni. L’eccidio delle Fosse Reatine fu solo l’ultimo atto di un’operazione antipartigiana iniziata ben diversi giorni prima, alla fine di marzo, quando le autorità germaniche decisero di utilizzare il pugno di ferro nei confronti della Brigata Garibaldi Antonio Gramsci, responsabile di numerose azioni di sabotaggio e guerriglia nelle retrovie, che misero a dura prova l’efficienza e l’operatività delle truppe tedesche che stavano contrastando l’avanzata alleata nel sud della penisola. Compiuto in larga parte da effettivi del 69° Panzer Regiment del Colonnello Ludwig Schanze, l’azione scattò il 29 marzo 1944 con una metodologia che verrà poi attuata nelle azioni di Marzabotto e Sant’Anna di Stazzema: avanzando di paese in paese, a cerchi concentrici, stringendo sempre di più la morsa attorno a Leonessa, gli uomini della Brigata Gramsci nulla poterono contro il volume di fuoco che veniva scatenato dai Tedeschi. Questi ultimi, già quattro giorni dopo, il 2 aprile diedero inizio ai rastrellamenti indiscriminati, fucilando e mitragliando tutti coloro che capitavano a tiro: i primi sei civili a restare uccisi sotto le raffiche dei mitragliatori furono gli abitanti della piccola frazione di Villa Carmine, a cui seguirono tredici uccisi a Cumulata. E fu qui che la guerra civile fece la sua orribile comparsa: odi personali e rancori maturati, videro una cittadina del luogo, tale Rosina Cesaretti, indicare chi si era unito alle formazioni partigiane, tanto da compiere due delazioni nei confronti di suo fratello Attilio e della moglie Anna Renzi. Quest’ultima venne poi graziata dal Comandante Schanze, che decise di risparmiarle la vita perché incinta.
Ma il peggio doveva ancora arrivare. Il 7 aprile 1944, nonostante una tregua concordata con i Tedeschi per permettere di dare una sepoltura alle vittime e celebrare una Santa Messa, visto anche l’approssimarsi delle festività pasquali, da parte Don Concezio Chiaretti, parroco di Leonessa, un autocarro con quindici soldati delle SS fece irruzione nel paese già martoriato dai lutti e dai combattimenti: seguì un altro rastrellamento, dove vennero catturate altre ventiquattro persone, rinchiuse all’interno del Municipio Cittadino. Portati fuori a gruppi di cinque alla volta, percorsi qualche centinaio di metri, si udirono le scariche di fucile e di mitragliatrice: tra i giustiziati, oltre allo stesso Don Chiaretti, anche Ugo Tavani, Commissario Prefettizio di Leonessa. Altri otto abitanti, furono, infine, uccisi durante lo sgombero dalla cittadina: in totale, cinquantuno vittime. Altri quindici, però, riuscirono inizialmente a salvarsi: erano alcuni partigiani catturati armi in mano nei primi giorni dei combattimenti, quando l’operazione di rastrellamento era agli inizi. E saranno proprio questi prigionieri i quindi fucilati alle Fosse Reatine: inizialmente rinchiusi nel carcere, furono prelevati la mattina del 9 aprile 1944 e condotti in Località Quattro Strade. All’interno di un cratere ricavato dall’esplosione di una bomba d’aereo, si consumò il massacro. Scrisse poco prima di morire Giannantonio Pellegrini ai suoi genitori: “Non piangete: non sia mai detto che dei veri Italiani piangano perché il proprio figlio è andato a combattere per la Patria!”.
Tra coloro che vennero uccisi il giorno di Pasqua del 1944 vi fu anche Giuseppe Felici, poi decorato di Medaglia d’Oro al Valor Militare alla Memoria. Originario di Roma, dove era nato nel 1923, venne chiamato a prestare servizio in qualità di Allievo Ufficiale della Regia Aeronautica nel momento in cui stava per conseguire la Laurea in Ingegneria: l’armistizio dell’8 settembre lo colse nella Capitale, dove si unì fin dall’inizio a quei gruppi spontanei di militari italiani (e civili) che presero le armi contro i Tedeschi in varie parti della città, partecipando attivamente agli scontri avvenuti lungo Porta San Paolo. Fu nelle convulse giornate tra il 9 e il 10 settembre che Giuseppe Felici venne ferito, costringendo a trovare aiuto nelle campagne laziali, dove si unì ai primi gruppi di partigiani dandosi alla macchia. Unitosi alla Brigata Antonio Gramsci, attiva soprattutto in Umbria e nel Lazio Settentrionale. E quando i reparti della Wermacht e della SS diedero avvio all’operazione di rastrellamento tra la fine di marzo e l’inizio di aprile 1944, Giuseppe Felici fu uno dei partigiani catturati: condotto sul luogo dell’esecuzione assieme agli altri quattordici arrestati, oggi il suo nome figura sul monumento eretto a memoria dei martiri. Recita la motivazione della massima onorificenza al Valor Militare conferita alla sua Memoria: “Ferito dopo aspro combattimento contro forze preponderanti tedesche nella difesa di Roma nel settembre 1943, riprendeva subito le armi, ancora convalescente, nella lotta partigiana contro l’invasore, in plurime azioni di sabotaggio e di guerriglia tra le più audaci, si distingueva per le virtù di capo valoroso, sereno valutatore del pericolo, sempre presente ovunque il rischio fosse maggiore. Braccato dai Nazi-Fascisti che avevano posto su di lui una forte taglia, persisteva con indomito coraggio alla testa dei suoi compagni infliggendo al nemico, in epici combattimenti ed azioni, gravi perdite. Arrestato da due ufficiali tedeschi riusciva a fuggire. Subito dopo in duro combattimento veniva ferito e cadeva prigioniero. Con teutonica ferocia fu fucilato, ancora sanguinante per le gloriose ferite. Fioriscono in lui le figure più nobili del popolo italiano. Roma, 8 settembre 1943; Rieti, 9 aprile 1944”.