“La verità italiana sull’Ortigara” di Paolo Volpato

Ortigara monte di sangue la battaglia che si poteva solo perdere

Venti giorni sull’Ortigara, senza il cambio per dismontaar, ta-pum ta-pum ta-puum, ta-pum ta-pum ta-puum.

La neve che prese a cadere l’8 novembre 1916 rassicurò gli uomini del Battaglione Sette Comuni. Col maltempo in arrivo, l’offensiva su Cima Portule non si sarebbe fatta. Intanto, forse si arriva vivi a Natale, poi si vedrà. Sui crinali montani tra l’altopiano di Asiago e la Valsugana era tutto rimandato alla buona stagione dell’anno nuovo. Non potevano sapere, quei bravi alpini, che sarebbe spuntata l’alba del 10 giugno 1917. A migliaia sarebbero usciti all’assalto, loro compresi del Sette Comuni, e l’Ortigara sarebbe diventata l’ennesima cima insanguinata della Grande Guerra. Un nome che solo a sentirlo ha fatto tremare per decenni, nel ricordare quanti erano caduti sotto i colpi di fucili e mitragliatrici, maciullati dai cannoni austriaci, arsi vivi dai lanciafiamme.

C’era nebbia domenica 10, alle 15, quando cominciò il primo dei venti giorni sull’Ortigara e la scarsa visibilità non giovò all’attacco, perchè ostacolava il tiro di accompagnamento dell’artiglieria. Le condizioni meteo sono uno dei primi aspetti affrontati nell’agevole e accessibile ricostruzione del ricercatore Paolo Volpato, proposta per le Edizioni Itinera Progetti di Bassano del Grappa nel volume “La verità italiana sull’Ortigara”, 159 pagine 19 euro.

Pioveva pure, un violentissimo temporale, quando gli alpini del Monte Baldo e del Bassano conquistarono il passo dell’Agnella e le trincee di quota 2003, facendo 200 prigionieri e bottino di armi. Non era più tardi delle 18,30. Un’ora dopo cadeva anche quota 2101, la seconda per altezza, bersagliata però dai tugnin, che tenevano ancora saldamente la 2105, cima Ortigara, un tozzo tronco di cono. E fu comunque una prova di alpinismo puro, che consentì a piccoli reparti di superare strapiombi sulla Valsugana e sorprendere il nemico da una direzione inaspettata.

Quello che ottennero pochi ardimentosi non riuscì invece alle povere masse grigioverdi all’assalto anche nei giorni successivi, perchè l’attacco era solo parte di un’offensiva più estesa per riprendere Cima Portule e ristabilire la linea preesistente alla Spedizione Punitiva austriaca della primavera 1916. Un progetto fallimentare, visto che il generalissimo Cadorna poté registrare gli unici progressi solo in zona Ortigara.

La scelta di tentare in montagna ondate alla baionetta, sullo stile del carnaio carsico, fa di questa battaglia un esempio atipico per la guerra in quota, uno scontro sfuggito di mano ai comandi, che finirono per alimentare inutili azioni di grandi ranghi, laddove risultavano più efficaci colpi di mano, subito appoggiati dai rinforzi, rimasti il più possibile al coperto.
Le perdite, per quanto ricalcolate da Volpato in 13.205 tra morti, feriti e prigionieri (non i 25.000 di solito attribuiti al macello dell’Ortigara), confermano un affollamento eccessivo degli attaccanti. Un trincerone strappato il primo giorno fece registrare la pesante contabilità di quattro caduti italiani per metro lineare. La quota trigonometrica 2105 venne presa a carissimo prezzo il 19 e persa la notte del 24. Una spietata concentrazione di artiglieria isolò i pochi reparti lassù, liquidati in pochissime ore da rarefatte truppe d’assalto austriache.
Il 29 giugno lasciammo anche quota 2003 e i venti giorni di sangue diventarono inutili. Cominciò il processo di rimozione della battaglia, che sparì dai Bollettino del Comando Supremo. Al contrario, dal primissimo dopoguerra venne esaltata quale simbolo doloroso del sacrificio.

Era un’offensiva inutile, dice Volpato, per un obiettivo che non si sarebbe mai potuto prendere né sfruttare: la linea del Portule. Gli imperiali avrebbero bloccato ogni sviluppo ulteriore e comunque fecero difetto dalla nostra parte la sorpresa tattica, il segreto dell’azione, la possibilità di scardinare una difesa basata più su caverne protette che su trincee esposte, per non dire dell’impossibilità di attaccare a fondo in montagna.
Era una battaglia che si poteva solo perdere.