LA STRAGE DI BISCARI

Quando ci scontreremo con il nemico, non dimenticate di colpire e colpire duro. Gli porteremo la guerra in casa. Quando ci troveremo a faccia a faccia con il nemico, lo uccideremo. Non avremo pietà.
Generale George Patton, estate del 1943
L’operazione Husky, in italiano colosso, fu preparata con molta cura è una delle più grandi operazioni anfibie della seconda guerra mondiale. Lo sbarco in Sicilia fu attuato il 10 luglio del 1943 dalle forze alleate. Presero parte a quest’operazione la 7a armata statunitense, comandata dal generale Patton, e l’8a armata britannica, comandata dal generale Montgomery. Entrambe le armate erano sotto la responsabilità del generale britannico Harold Alexander. In Sicilia si trovavano circa 200.000 uomini delle truppe italiane e tedesche. Occorre ricordare che sulle cifre della presenza militare italiana e tedesca le fonti sono molto discordanti, partendo da un numero di 160.000 per giungere a 400.000. Per controbilanciare la massiccia presenza di soldati gli alleati furono costretti ad eseguire un grande sforzo bellico, almeno nella numerica: furono impiegati oltre 4000 aerei da combattimento e trasporto, 285 navi da guerra, due portaerei e 160.000 soldati. L’azione militare alleata fu più rapida del previsto grazie all'accordo raggiunto, ad Algeri, tra i servizi segreti della Marina Militare americana e alcuni esponenti mafiosi.
La mafia e l’esercito americano trovano un accordo?
Nel 1942 degli ufficiali del servizio d’informazioni della Marina americana si misero in contatto con Lucky Luciano, detenuto in carcere, su raccomandazione di un boss dei sindacati del porto di New York, Joseph “socks” Lanza. Luciano offrì collaborazione ottenendo in cambio il trasferimento nel più confortevole carcere di Comstock. L’aiuto offerto da Luciano era in relazione al sabotaggio d’alcune navi nel porto di New York, di cui furono sospettate spie naziste infiltrate tra i lavoratori del porto. Il risultato della collaborazione, tra la marina degli Stati Uniti e la Mafia, fu ampiamente positivo: in poco tempo i sabotaggi diminuirono e le navi militari in partenza furono al sicuro.
La collaborazione poteva concludersi con quest’operazione?
Una ricostruzione dettagliata degli incontri tra la Marina e Luciano si deve dall’avvocato Polakoff:  «Nessun mistero. Nel 1942, l’ufficio del procuratore distrettuale della contea di New York, per conto del controspionaggio della Marina americana, intendeva chiedere a Luciano una certa assistenza. Feci da intermediario.»
L’assistenza si concluse con il termine dei sabotaggi nel porto di New York oppure Luciano , con lo stato americano, collaborò per agevolare l’imminente sbarco in Sicilia?
All’accordo parteciparono altri boss, tra cui Joe Adonis e Jack Parisi. La Marina militare chiese una rete d’informatori e contatti in vista delle operazioni sul suolo italico. In seguito a questa richiesta iniziò a comparire nella cella di Luciano anche un dirigente della Secret Intelligence. Questa persona, Earl Brennan, era il coordinatore dell’Office of Strategic Service – Oss. A Luciano fu richiesta una lista di personaggi legati alla mafia presenti in Sicilia, da poter avvicinare per spianare il terreno all’avanzata alleata.
Molti storici liquidano queste affermazioni come appartenenti al mito e non alla realtà dei fatti.
La realtà?
I fatti che mi accingo a raccontare sono realtà eppure non appaiono nei libri di scuola e, fondamentalmente, sono dimenticati dalla storia.
Il generale Patton non lasciava spazi alla fantasia nelle proprie affermazioni.
«Se vedete che il nemico vuole arrendersi, oh no! Quel bastardo deve morire! Dovete ucciderlo. Infilzatelo tra la terza e la quarta costola. Dovete avere l’istinto assassino. Si, conserveremo la fama d’assassini e gli assassini sono immortali.»
Questo testo, ripreso da diverse fonti, ci permette di comprendere lo stato d’animo dei militari alleati pronti allo sbarco in Sicilia. Per la maggior parte di loro si trattò del “battesimo del fuoco” e lo affrontarono cercando diversi rimedi, tra cui l’utilizzo di bevande alcoliche. Alle truppe americane fu distribuito un libretto, dal titolo The Sicily zone handbook, che dipingeva l’isola come un luogo abituato al dominio e allo sfruttamento straniero. Le popolazioni locali erano considerate barbare, violente e dedite ad usanze tribali. I militari alle prime azioni legate alla guerra, aizzati all’uccisione del nemico e fortemente motivati al combattimento sbarcarono sul suolo italico. La difesa dell’esercito italiano poteva essere simbolica, nulla d’altro: all’enorme macchina da guerra alleata i nostri militari opposero moschetti logori, reduci dalla prima guerra mondiale, cannoni di legno lungo il litorale e qualche armamento dell’esercito tedesco.
Il primo crimine di cui si macchiarono le truppe alleate avvenne all’aeroporto di San Pietro, nei pressi di Caltagirone. Il luogo era presidiato da una guarnigione d’avieri e da un battaglione d’artiglieri. Da segnalare la presenza di un gruppo di truppe tedesche a supporto dei militari italiani. Gli avieri furono divisi in due gruppi: il primo fu lasciato in una casamatta nel tentativo di contenere l’avanzata alleata. Per qualche ora riuscirono a resistere ma le differenze belliche erano notevoli. La situazione comportò la resa dell’esiguo numero di militari. Uscirono dalla casamatta con le mani alzate sventolando fazzoletti bianchi. La reazione dei soldati americani non fu quell’attesa. Gli italiani furono perquisiti, maltrattati ed infine insultati. Contro la convenzione di Ginevra i soldati americani li divisero in due gruppi: uno trattenuto nell’area dell’aeroporto, l’altro messo in marcia verso Biscari.
«Kill, kill these bastard people!»
Uccidete questi bastardi.
All’improvviso e senza motivo i soldati americani fucilarono senza pietà gli italiani bloccati sulla pista. 
L’ordine fu impartito dal capitano John Compton che chiese «Chi vuole partecipare all'esecuzione?»
A sparare furono in 24. 
Di questo gruppo si salvarono solo due uomini: il caporale Virginio De Roit e il soldato Silvio Quaiotto. Tra i soldati tedeschi rimasti sul terreno anche l’atleta di salto in lungo Luz Long, amico di Jesse Owens, che partecipò alle Olimpiadi di Berlino nel 1936.
La domanda nasce spontanea, come siamo in grado di ricostruire questi eventi?
Il mattino seguente un cappellano della 45a divisione, che ricopriva il grado di tenente colonnello, trovò una fila di cadaveri sulla strada che dall’aeroporto conduceva al paese di Biscari. Nei pressi dei corpi bossoli di matrice americana. I cadaveri erano 33.
Le parole di William Edward King, cappellano militare, non lasciano dubbi: «Osservai quelle cataste di corpi, qualche militare mi corse incontro e mi disse – E’ una pazzia, stanno ammazzando tutti i prigionieri, padre faccia qualcosa.»
L’altro crimine di cui voglio raccontare concerne i prigionieri del secondo gruppo, quelli che si erano incolonnati verso Biscari. I militari, che si erano arresi, furono affidati al sergente Horace West. Dopo circa un chilometro di marcia gli uomini furono obbligati a fermarsi e disporsi in due file parallele. Il sergente West imbracciò un mitragliatore ed aprì il fuoco.
Non è possibile trovare un motivo a tale gesto.
Morirono tutti tranne Giuseppe Giannola le cui parole destano ribrezzo: «Fummo avviati nelle vicinanze di Piano Stella ove fummo poi raggiunti da un altro contingente di prigionieri italiani, e questi ultimi in numero di circa 34. Tutti fummo schierati per due di fronte. Un sottufficiale americano con fucile mitragliatore sparò a falciare i circa 50 militari che si trovavano schierati. Il dichiarante rimasto ferito al braccio destro rimase per circa due ore e mezzo sotto i cadaveri, per sfuggire ad altra scarica di fucileria, poiché i militari anglo-americani rimasero sul posto molto tempo per finire di colpire quelli rimasti feriti e agonizzanti.»
La denuncia e le segnalazioni del cappellano King, eroe della prima guerra mondiale, non potevano essere ignorate. I comandi alleati istituirono due processi dinanzi alla corte marziale.
Interessante rivedere questi momenti: il primo personaggio nelle cui mani passarono le segnalazioni di King fu Omar Bradley, comandante del 2° corpo della 7a armata. Ne parlò con il generale Patton che così annotava sui propri diari: «E’ venuto da me Bradley, uomo fin troppo corretto, molto nervoso per dirmi che un capitano ha preso sul serio il mio ordine di uccidere chi continuava a sparare anche quando eravamo a meno di 200 metri. Il capitano ha ammazzato quasi 50 prigionieri a sangue freddo. Gli ho risposto che probabilmente era una notizia esagerata.»
Invitò Bradley a costruire una verità di comodo perché, parole del generale Patton «Comunque sia andata, sono morti e non c’è più nulla da fare.»
Bradley non seguì il consiglio e fece arrestare sia Compton sia West. Patton non poteva opporsi. Compton fu accusato della morte di 36 prigionieri mentre a West furono imputati 37 omicidi.
Il dibattimento fu corto e si concluse con l’assoluzione di Compton, la cui difesa verteva sul rispetto degli ordini impartiti da Patton, e la condanna all’ergastolo, che si trasformò miseramente in 6 mesi di carcere effettivo, per West.
La differenza di trattamento?
Ritengo che la possiamo trovare nella diversa linea di difesa. West dichiarò: «Ero fuori di testa, probabilmente ero stanco dopo quattro giorni in prima linea senza dormire e per lo stress della battaglia. Ho visto due americani catturati dai tedeschi e uccisi e sono divenuto furioso in modo incontrollato.»
Nel 2005 la procura militare di Padova aprì un’inchiesta. Dopo l’individuazione di sette fucilatori gli atti passarono alla procura di Palermo. Nel 2007 da Palermo partì l’idea di portare a giudizio West che, qualora fosse ancora in vita, avrebbe superato i 90 anni d’età.
La richiesta era simbolica, una sorte di risarcimento per gli omicidi commessi dagli anglo-americani durante gli iniziali momenti dello sbarco in Sicilia.
Il 25 settembre del 2009 Giuseppe Giannolla fu ricevuto dal consigliere militare del Presidente della Repubblica, generale Rolando Mosca Moschini, cui consegnò una lettera nella quale chiedeva la ricerca dei corpi dei suoi commilitoni.
Siamo agli inizi di un percorso di ricerca e conoscenza di fatti inerenti un passato per molti lontano nel tempo, ma che dovrebbe avvicinare i nostri cuori alla richiesta della verità.
Il primo dovere di uno storico consiste precisamente nel revisionare la storia, nel mettere in questione le certezze comunemente accettate e, pertanto, nel proporre un’interpretazione del passato che concordi con le conoscenze e le esperienze del presente. Il mestiere dello storico non consiste solo nel raccontare la storia, ma anche nel rivedere o revisionare come la storia sia raccontata.
Javier Cercas, scrittore spagnolo
Fabio Casalini