La storia dimenticata dei dannati dell’Asinara

Se vi capita di andare sull’isola dell’Asinara, all’estremità nord-occidentale della Sardegna, fatevi portare nella località di Campo Perdu. A differenza della colonia penale, del carcere di massima sicurezza che ospitò i terroristi delle Brigate Rosse, i capi di Cosa Nostra e anche, reclusi anch’essi con le loro famiglie, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino quando dovevano lavorare alle carte del maxiprocesso alla Cupola, le memorie di Campo Perdu sono un po’ neglette. Non attirano tanti turisti e le guide (cui bisogna affidarsi per visitare via terra l’isola che è parco naturale) dedicano in genere poche parole alle statue che resistono ancora all’erosione del vento e della pioggia, alla spoglia chiesetta e all’ossario in stato di quasi abbandono. Eppure si tratta di testimonianze importanti d’una storia che dovrebbe entrare di diritto nella memoria collettiva degli italiani. Quella dei “dannati dell’Asinara”.
Comincia, la storia dei “dannati dell’Asinara”, molto lontano da questo bellissimo scenario di mare, nello spazio e nel tempo. È l’autunno del 1915. Gli eserciti austriaco e bulgaro hanno invaso la Serbia e occupato Belgrado. Il re, il governo e quel che resta dell’esercito sconfitto si sono rifugiati a Niš, nel sud del paese, ma i nemici stanno arrivando anche qua. Bisogna fuggire, e nella fuga portare anche i tantissimi prigionieri dell’esercito austro-ungarico che erano stati catturati nelle prime fasi della guerra, quando ai serbi non andava ancora così male. Si tratta di almeno 50 mila soldati, che non possono essere liberati perché tornerebbero a combattere. Comincia così una lunga e penosissima marcia attraverso le montagne della Serbia meridionale, del Kosovo e dell’Albania verso la costa dell’Adriatico, dove i serbi contano di poter ricevere l’aiuto degli alleati: francesi, britannici e italiani.
Si tratta di un esodo spaventoso, una marcia a piedi nella pioggia, nel freddo e nella neve dell’inverno che arriva, senza vestiti né scarpe adeguate. È dura per tutti, ma per i prigionieri è un inferno: quando il grosso dei fuggitivi arriva sulla costa, a nord di Valona, i prigionieri austro-ungarici sono poco più della metà di quelli che erano partiti. I superstiti sono in condizioni disperate. Lo storico Luca Gorgolini in un bel libro in cui racconta la storia dei “dannati dell’Asinara” riporta le testimonianze drammatiche tratte dai rapporti e dalle lettere degli ufficiali del contingente italiano che si trovava in quei giorni a Valona. Gli uomini sembrano scheletri che camminano, i cadaveri sono dovunque e molti presentano mutilazioni che fanno pensare ad episodi di cannibalismo. I soldati serbi vengono trasferiti a Corfù, ma a quel punto si pone il problema del che fare con i prigionieri. Nel porto di Valona ci sono navi francesi, britanniche e italiane. I francesi vorrebbero imbarcare loro i superstiti, poco più di 24 mila, e portarli in Francia dove, in spregio alle convenzioni internazionali (che durante la prima guerra mondiale nessuno rispettava) verrebbero messi a lavorare al posto degli uomini chiamati alle armi. Ma gli italiani si impuntano. Il governo Salandra, che pochi mesi prima ha deciso l’entrata in guerra, ritiene che l’Italia debba giocare un ruolo importante nell’assetto futuro dei Balcani e considera l’Albania come propria zona d’influenza, prigionieri nemici compresi. Dopo un braccio di ferro diplomatico, il 10 dicembre la responsabilità viene riconosciuta all’Italia.

Ma dove debbono essere portati i prigionieri di Valona? In Italia esistono diversi campi di prigionia, ad Avezzano, Santa Maria Capua Vetere, Altamura e in altre località del continente. Ma gli uomini da sistemare non sono soltanto debilitati dalla fame e dalle sofferenze della lunga marcia che hanno affrontato. Molti sono afflitti da gravi malattie infettive: polmoniti, tubercolosi, dissenteria, tifo. Perciò prima di essere internati debbono essere sottoposti a quarantena. Le autorità sanitarie, da Roma, impartiscono una direttiva tassativa: i prigionieri debbono essere portati per la quarantena in un’isola minore. La scelta cade subito sull’Asinara dove, oltre alla colonia penale, dal 1885 esistono una colonia militare e un lazzaretto, istituito in seguito a un’epidemia di colera subito dopo la deportazione forzata di tutta la popolazione civile dell’isola a Stintino, sulla terra ferma (anche questa è una storia che meriterebbe di essere raccontata). Certo, il lazzaretto è minuscolo e poco attrezzato, ma nella fretta di decidere non si trova di meglio.
Il 13 dicembre viene disposto il trasferimento di tutti i prigionieri all’Asinara. Una decisione del tutto irrazionale, vista la carenza di strutture sull’isola, e subito complicata da uno sviluppo che si sarebbe dovuto prevedere: tra gli uomini ammassati in condizioni igieniche precarie scoppia un’epidemia di colera. A questo punto gli ufficiali del contingente italiano, temendo il contagio per i propri uomini, costringono gli uomini della marina ad imbarcare i prigionieri non a gruppi di mille, come era stato programmato, ma tutti insieme e in tutta fretta. Anche i controlli sanitari che erano stati disposti all’imbarco saltano subito per mancanza di medici.
Il 16 dicembre due navi, la “Dante Alighieri” e l’”America” salpano da Valona la prima con 1997 prigionieri, la seconda con 1787, più gli equipaggi. A bordo non c’è alcuna assistenza sanitaria: sulla “America” c’è un solo medico per quasi duemila persone. Nei giorni e nelle settimane successive seguiranno altri imbarchi, su navi italiane e francesi, l’ultimo l’8 marzo. In queste condizioni, la traversata, che dura diversi giorni, è un calvario. Dei 24 mila prigionieri che partono all’Asinara ne arriveranno vivi meno di 16 mila. E il calvario non termina con l’arrivo nelle acque dell’isola. Poiché l’esercito sta lavorando all’ampliamento del lazzaretto e alla costruzione di qualche struttura in muratura, le navi sono costrette a restare in rada per giorni e giorni. I morti vengono gettati in mare, ma quando sono troppi le imbarcazioni riprendono il largo per andare a scaricarli in mare aperto. Per settimane il mare restituirà sulle coste della Sardegna settentrionale centinaia di cadaveri. Alcuni verranno avvistati perfino al largo della Gallura, un centinaio di chilometri più ad est.

Per quelli che si sono salvati, le condizioni di vita sull’isola sono tremende. È inverno e la pioggia e il freddo non danno tregua. Chi può dormire sotto una tenda può dirsi fortunato, per gli altri c’è solo l’addiaccio. Sull’isola non ci sono pozzi e l’acqua è solo quella degli stagni che si formano con la pioggia o quella raccolta nelle cisterne, che gli uomini condividono con gli animali. Il cibo è scarso e poco nutriente. Solo chi riceve qualche aiuto da casa può permettersi l’acquisto di verdure fresche e frutta dagli abitanti di Stintino che vengono di nascosto sull’isola. La durezza delle condizioni sull’isola porta molti prigionieri alla pazzia. Molti vengono portati nel manicomio di Sassari. Inoltre non mancano tensioni tra i prigionieri. L’esercito austro-ungarico era composto di tutte le nazionalità dell’Impero: austriaci, ungheresi, croati, sloveni, cechi, ruteni, galiziani, slovacchi, bosniaci, serbi di Bosnia. Tra i prigionieri c’erano anche 299 italiani, originari del Trentino e della Venezia Giulia, allora parti dell’Impero, che all’ingresso del loro campo avevano messo un cartello con su scritto “Trieste italiana”. I contrasti erano particolarmente duri tra i cechi e gli austriaci e tra gli slovacchi e gli ungheresi e i soldati italiani dovettero faticare non poco per sedare risse e tenere separati gli uni dagli altri.
Nonostante questo, però, si arrivò a una certa convivenza civile. Molti prigionieri furono messi al lavoro (le poche strade che esistono ancor oggi sull’isola furono realizzate da loro), alcuni si dedicarono alla costruzione di alloggi meno precari e della chiesetta di Campo Perdu. Qualcuno con velleità artistiche si dedicò alla scultura o alla organizzazione di cori e concertini. Per un certo periodo fu confezionato addirittura un giornaletto satirico.
A chi visita oggi l’Asinara non è offerto molto sulla memoria di quella tristissima pagina della prima guerra mondiale. C’è l’ossario, in cui il governo austriaco e la diocesi di Sassari fecero trasferire negli anni ’30 i resti dei caduti che erano stati sepolti nelle fosse comuni, ci sono le statue e la chiesetta di Campo Perdu, ma, a differenza di quel che si è fatto per la colonia penale e il carcere, non c’è un museo che documenti quella pagina di storia, che pure meriterebbe di essere considerata come una lezione sulla follia della guerra. E anche sull’ottusa crudeltà con cui uomini di stato e militari ossessionati da un malinteso senso del prestigio della nazione condannarono alla morte o a terribili sofferenze i “dannati dell’Asinara”.