Notiziario: La guerra nazista descritta dai soldati tedeschi.

La guerra nazista descritta dai soldati tedeschi.

di Jan Fleischhauer, Der Spiegel, 8 aprile 2011

Il mito che nel periodo nazista le forze armate tedesche, la Wehrmacht, non furono coinvolte nei crimini di guerra si è protratto per decenni. Adesso due ricercatori tedeschi lo hanno distrutto del tutto. Recentemente sono state rese pubbliche le registrazioni di conversazioni tra prigionieri di guerra tedeschi, segretamente registrate dagli Alleati, che rivelano dettagli raccapriccianti di violenza contro i civili, stupri e genocidi.

E’ il 6 marzo 1943 e due soldati tedeschi stanno parlando della guerra. Il pilota di caccia Budde e il caporale Bartels sono stati catturati dagli inglesi poche settimane prima. La guerra è finita per loro, ed è il momento dei ricordi.

Budde: «Ho fatto due attacchi devastanti. In pratica, abbiamo bombardato degli edifici …»

Bartels: «Ma non erano attacchi distruttivi con un obiettivo, come quelli che abbiamo fatto?»

Budde: «No, abbiamo incontrato alcuni obiettivi più belli, come le case di montagna. Quando volavamo più in basso e gli sparavamo, si potevano vedere i vetri delle finestre che si frantumavano, e poi il tetto che saltava in aria. C’è stato una volta che abbiamo colpito Ashford [Irlanda]. C’era un evento sulla piazza del mercato, una folla di persone, dovevamo intervenire. Abbiamo cominciato a spruzzarli [mitragliarli]. E’ stato fantastico!»

Due altri piloti, Bäumer and Greim, hanno avuto la loro dose di esperienze divertenti che hanno descritto ad altri soldati:

Bäumer: «Avevamo una mitragliatrice da 2 cm installata sulla parte anteriore (dell’aereo). Dunque volavamo a bassa quota lungo la strada e , quando vedevamo una macchina che ci veniva incontro, accendevamo i nostri fari in modo che pensavassero ad un’auto che gli veniva incontro nella direzione opposta. E poi gli sparavamo con la mitragliatrice. […] E’ stato fantastico, divertente! Abbiamo attaccato anche treni, e altre cose, nello stesso modo.»

Greim: «Una volta abbiamo eseguito un attacco a bassa quota a Eastbourne [Inghilterra]. Quando siamo arrivati abbiamo visto un grosso castello, dove c’era un pallone o qualcosa del genere. In ogni caso c’erano un mucchio di donne graziosamente abbigliate e una banda musicale. Siamo passati una prima volta, ma poi siamo tornati indietro è gli abbiamo attaccati lasciandoli di stucco. Vedi, caro amico, era molto divertente!»

Un tono sconcertante.

Quello che i soldati Budde, Bartels, Bäumer e Greim usano in queste conversazioni è un tono familiare e sconcertante. Ha poco a che fare con il tono che incontriamo nei documentari televisivi o nelle testimonianze di guerra. Ma è il modo in cui parlano i soldati quando raccontano le loro esperienze di guerra.

Il discorso pubblico sulla guerra è caratterizzato dal disprezzo per i lati sanguinosi della professione militare, un disprezzo al quale i soldati si conformano quando gli viene chiesto di descrivere le loro esperienze. Ma c’è anche un altro aspetto della guerra, che non è solo un incubo senza fine ma anche una grande avventura che alcuni soldati ricordano successivamente come uno dei periodi migliori della loro vita.

Nella seconda guerra mondiale, 18 milioni di uomini, ovvero più del 40 per cento della popolazione maschile del Reich, prestò servizio nell’esercito tedesco, nella Wehrmacht e nelle Waffen-SS. Non c’è stato quasi nessun altro periodo storico che sia stato studiato così tanto come i sei anni che iniziano con l’invasione tedesca della Polonia nel settembre del 1939 e finiscono con la capitolazione totale della Germania nel maggio del 1945.

Anche per gli storici è difficile tenere traccia della letteratura sul conflitto più mortale della storia umana. La monumentale opera «La Germania e la seconda guerra mondiale», che è stata completata tre anni fa dal Military History Research Institute di Potsdam, vicino a Berlino, comprende da sola 10 volumi.

Ogni battaglia di questa mostruosa guerra per il controllo dell’Europa ha un  proprio posto fisso nella narrazione storica odierna, così come, naturalmente, l’orribile violenza che ha visto 60 milioni di morti in tutto il mondo, tra cui le sofferenze della popolazioni civili, l’assassinio degli ebrei e la guerra partigiana.

Una realtà edulcorata.

Ma l’esperienza della guerra, con la presenza costante della morte e della violenza, non solo cambiava ciò che i militari  percepivano e ciò di cui avevano paura, ma nello stesso tempo li divertiva anche – e questo aspetto tende ad essere escluso dai resoconti storici. La storia è stata a lungo diffidente rispetto alla visione soggettiva degli avvenimenti, ritenendo preferibile attenersi a date e fatti verificabili.

Ma anche questa diffidenza degli storici ha a che fare con l’incompletezza delle fonti. Le lettere dei militari, il resoconto dei testimoni del tempo e le memorie forniscono una versione edulcorata della realtà. Le persone destinatarie di questi storie personali erano le mogli e le famiglie dei soldati, oppure un pubblico più ampio. La descrizione delle attività quotidiane della guerra, durante le quali capitava che i soldati massacrassero gli abitanti di un villaggio oppure ‘pennellassero ‘ alcune ragazze, così era chiamato lo stupro nel gergo militare, non trovavano spazio in queste narrazioni.

I soldati non fornivano resoconti veritieri circa quanto era accaduto non solo per andare incontro alle aspettative dei destinatari –  a fine guerra, con il passare del tempo, si modificava l’opinione dei soldati circa l’esperienza che avevano fatto. In altre parole, chi volesse ottenere un quadro preciso di come i soldati vedevano la guerra, dovrebbe  poter accedere ad essi e guadagnare la loro fiducia il prima possibile, in modo che ne possano parlare apertamente, senza la paura in seguito di doverne rendere conto.

Ciò che sembra difficilmente praticabile nelle attuali operazioni militari, come la guerra in Afghanistan, è quasi impossibile quando si parla di un evento accaduto parecchio tempo fa, come nel caso della seconda guerra mondiale. Tuttavia, due storici tedeschi sono riusciti a riprodurre esattamente, come in un documentario dal vivo, le percezioni della guerra attraverso  registrazioni che hanno un valore storico.

Attraverso le proprie parole.

Il materiale che lo storico tedesco Sönke Neitzel ha scoperto negli archivi britannici e americani è a dir poco sensazionale. Nel 2001, mentre era alla ricerca di materiale sulla guerra sottomarina nell’Atlantico, ha scoperto le trascrizioni di conversazioni tra ufficiali tedeschi, che erano state registrate di nascosto, nel corso delle quali  parlavano apertamente delle loro esperienze militari. E più scavava a fondo negli archivi, più materiale trovava. Alla fine, Neitzel e lo psicologo sociale Harald Welzer hanno analizzato in totale 150.000 pagine di materiale originale. Il risultato è stato un libro appena pubblicato: «Soldaten» (edito da da S. Fischer Verlag). Il volume può potenzialmente cambiare la nostra visione della guerra.

Le registrazioni, che erano state effettuate su nastri speciali dagli Alleati, e che venivano utilizzate per ascoltare di nascosto le conversazioni tra i prigionieri di guerra tedeschi, offrono una visione dall’interno della seconda guerra mondiale. In questo modo verrà distrutto una volta per tutte il mito di una Wehrmacht ‘pulita’.

Nel libro, i soldati parlano, dal loro punto di vista, del nemico e dei propri leader, discutono nei dettagli le missioni di combattimento, e fanno un resoconto altrettanto dettagliato delle attrocità a cui hanno assistito o che hanno commesso.

C’è sempre un motivo per uccidere.  A volte può essere futile, come qualcuno che non cammina sul lato opposto della strada o non abbastanza in fretta o che non consegna un oggetto.

Zotlöterer: «Ho sparato ad un francese alla schiena. Era in bicicletta.»

Weber: «A distanza ravvicinata?»

Zotlöterer: «Si.»

Weber: «Volevi prenderlo prigioniero?»

Zotlöterer: «Sciocchezze. Volevo la sua bicicletta»

Gli Alleati speravano di scoprire segreti militari.

Alla primavera del 1945, circa un milione di membri della Wehrmacht e delle Waffen-SS erano stati catturati dagli anglo-americani. La maggior parte di loro era stata collocata in normali campi di prigionia. Ma tra il settembre del 1939 e l’ottobre del 1945, più di 13.000 prigionieri tedeschi erano stati trasferiti sotto ‘stretta osservazione’ in strutture speciali, che gli Alleati avevano inizialmente individuato in Inghilterra (nel castello di Trent Park, a Londra, e nella Latimer House nel Contea di Buckingham) e, a partire dall’estate del 1942, a Fort Hunt in Virginia.

Lo scopo di questi campi speciali era quello di carpire ai soldati tedeschi dei segreti militari. Gli Alleati ritenevano  che ottenere informazioni di questo tipo gli avrebbe dato un vantaggio strategico. A parte i microfoni nascosti nelle celle, gli Alleati avevano infiltrato un certo numero di informatori tra i prigionieri con il compito di pilotare le conversazioni nella direzione desiderata.

Si può presumere che la maggior parte dei prigionieri non era consapevole di essere spiata ma, anche se lo fosse stata, in poco tempo avrebbe abbandonato qualsiasi cautela nelle conversazioni con i compagni. Il bisogno umano di conversare è notevolmente più forte della paura che il nemico stia ascoltando.

Migliaia di trascrizioni.

Gli archivi contengono un volume impressionante di materiale ottenuto in questo modo. Gli inglesi  avevano preparato 17.500 trascrizioni, che vanno da mezza pagina a più di 20 pagine ognuna. Anche gli americani hanno conservato migliaia di trascrizioni integrali in tedesco delle conversazioni registrate segretamente, molte delle  quali includono una traduzione in inglese.

La decisione di trasferire i prigionieri di guerra a Trent Park e a Fort Hunt era  stata fatta da agenti dei servizi segreti alleati, i quali selezionanavano i candidati più idonei attraverso una procedura che prevedeva più fasi di interrogatorio. Mentre gli inglesi concentrarono la loro attenzione sugli ufficiali di rango superiore, e quindi sull’elite della Wehrmacht, gli americani erano più propensi ad ascoltare le conversazioni delle truppe combattenti regolari. Circa la metà dei carcerati a Fort Hunt erano soldati semplici, soprattutto dell’esercito, un terzo erano ufficiali e sottufficiali, e solo un sesto erano ufficiali di rango superiore.

La grande varietà di voci che descrivono le proprie esperienze offre una visione quasi completa della guerra dal punto di vista del soldato. I prigionieri spiati  provengono da quasi ogni corpo dell’esercito, dal nuotatore da combattimento di una unità navale, al generale. Il materiale comprende anche una gamma straordinariamente ampia di aree operative. Quasi tutti i prigionieri che finirono nei campi speciali furono catturati sul fronte occidentale o in Africa, ma poichè la maggior parte di loro avevano combattuto su vari fronti nel corso del conflitto, vi sono anche molti racconti relativi al fronte orientale, che differiva nettamente da quello occidentale.

Gli scienziati e gli studiosi sono sempre stati interessati a cercare di comprendere come gente normale può rapidamente trasformarsi in macchine per uccidere. Il materiale che Neitzel e Welzer hanno scoperto suggerisce che la risposta è semplice:  molto rapidamente.

‘Mi è dispiaciuto per i cavalli’.

E’ un affermazione che ha senso dire che la guerra brutalizza le persone. Chiunque è stato esposto a violenza estrema per un periodo di tempo prolungato ha perso le proprie inibizioni e, spesso,  è diventato lui stesso perpetratore di violenza. Questo è il punto di vista degli accademici che hanno studiato la violenza con un approccio  psico-sociale, ed è supportato dagli scritti autobiografici, dove l’essere umano appare capace un attimo prima di dare accarezzare sulla testa i propri figli e, poco dopo,  ammazzare a sangue freddo.

L’uso della violenza è un esperienza che ha un certo fascino, maggiore di quanto generalmente siamo disposti ad ammettere dopo 65 anni di pace in Europa. A volte tutto ciò che serve è un arma o un aereo, come rivela la seguente conversazione del 30 aprile 1940 tra un pilota e un esploratore tedesco:

Pohl: «Durante il secondo giorno di guerra, ho dovuto sganciare bombe su una stazione ferroviaria a Pozdan, in Polonia. Otto delle 16 bombe sono cadute proprio in mezzo alle case, e la cosa non mi è piaciuta. Il terzo giorno non mi importava più nulla, e il quarto giorno ho cominciato a divertirmi. Ci divertivamo ad uscire prima di colazione a caccia di singoli soldati spersi per le campagne con le mitragliatrici, per poi lasciarli lì con due pallottole nella schiena».

Meyer: «ma è sempre successo con i soldati?»

Pohl: «Troppa gente. Abbiamo attaccato convogli per le strade. Ero seduto nella ‘catena’ (una formazione di tre aerei), l’aereo si è dimenato un pò e abbiamo virato velocemente a sinistra; poi abbiamo fatto fuoco con tutte le  MG (mitragliatrici). Le cose che si possono fare. A volte abbiamo visto i cavalli che volavano tutt’intorno.»

Meyer: «Che schifo! …i cavalli. Ma  dai!»

Pohl: «Mi dispiaceva per i cavalli, ma non per tutta quella gente …»

A proposito delle loro gesta.

Quando i soldati parlano della guerra, parole come ‘morte’ e ‘uccidere’  non sono quasi mai utilizzate. E perchè dovrebberlo esserlo? E’ ovvio che la cosa importante non è il lavoro ma il risultato. Un operaio edile, come hanno sottolineato Neitzel e Welzer, non parlerà dei mattoni e della malta durante la pausa pranzo.

Molte delle registrazioni trascritte danno la sensazione di conversazioni scherzose. I prigionieri non sembrano interessati a confidarsi l’uno con l’altro. Appaiono sorprendentemente composti, nonostante gli orrori che hanno vissuto. Cercano invece di svagarsi e di divertirsi tra loro. Come spesso accade quando gli uomini si raccontano a vicenda le proprie gesta, c’è un accento vanaglorioso nelle loro storie.

Le loro reazioni alle storie che stanno ascoltando sono altrettanto rivelative. Nel caso in cui certe cose vengono date per scontate, non c’è confusione, distinguo o proteste. Questo rivela ciò che veniva consideravano normale e ciò che era percepito come qualcosa che violava la norma.

I soldati raramente parlano della morte oppure dei loro sentimenti e delle loro paure. Forse perchè non ha alcun potere di svago l’essere stati in preda alla disperazione o avere avuto paura da morire. Inoltre, nel mondo dei militari, ammettere di non essere riusciti a fare fronte ad una situazione estrema  è generalmente considerata una prova di debolezza. E’ vero che tutto questo non è poi così molto diverso da ciò che accade ai civili, i quali sono ugualmente restii a confidarsi, se non agli amici più stretti, di avere avuto così paura da essersela fatta nei pantaloni o di aver dovuto vomitare.

Nessuna distinzione.

Gli uomini amano la tecnologia, un argomento che permette loro di trovare rapidamente un terreno comune. Molte delle conversazioni ruotano intorno alle attrezzature, alle armi, ai calibri e alle variazioni su come ‘hanno fatto fuori’ o ‘tirato giù’ altri esseri umani. La vittima è solo il destinatario, che deve venire colpito e distrutto – sia che si tratti di una nave, di un edificio, di un treno o di un ciclista, di una persona a piedi o una donna che spinge una carrozzina. Sono molto pochi i soldati che provano rimorso per la sorte di civili innocenti, e l’empatia è quasi completamente assente nelle loro conversazioni. «La vittima in senso empatico non viene presa in considerazione», concludono gli autori. Molti dei soldati della Wehrmacht che sono stati spiati non facevano distinzioni tra obiettivi civili e militari. Infatti, poco tempo dopo l’inizio della guerra, queste distinzioni non esistevano più se non sulla carta. Dopo l’attacco all’Unione Sovietica questa mancanza di distinzione riguardava tutti.

Alcuni soldati erano particolarmente orgogliosi di avere ucciso il più alto numero di civili possibile. Nel gennaio del 1945, il tenente Hans Hartigs di una squadra aerea di caccia parla di 26 raid contro l’Inghilterra il cui obiettivo era  «sparare a tutto, ma proprio a tutto». «Abbiamo falciato donne e bambini in carrozzina», l’ufficiale riferisce con soddisfazione.

Nel marzo  del 1943, Solm, un marinaio di un sottomarino, racconta ad un compagno di cella come hanno «buttato giù un mezzo che trasportava i bambini», 50 dei quali annegarono. Si tratta probabilmente della nave passeggeri britannica City of Benares, che fu affondata nell’Atlantico del Nord il 17 settembre del 1940.

«Sono tutti annegati?»

«Si, sono tutti morti»

«Quanto era grande?»

«6.000 tonnellate»

«Come hai fatto a saperlo?»

«Via radio»

La mancanza di scrupoli morali.

La guerra non elimina l’importanza delle categorie morali, come ci si potrebbe aspettare, ma altera il loro campo di validità. Questo vale anche per le battaglie della seconda guerra mondiale. Finchè il soldato opera nei limiti che ritiene indispensabili, percepisce la sua azione come legittima. Questa può anche comprendere atti di estrema brutalità. Ecco perchè il soldato sembra non avere particolari scrupoli morali circa la responsabilità per comportamenti che in tempo di pace provocherebbero repulsione.

Quando la morale non è abolita, ma solamente sospesa, le norme continuano ad esistere. I piloti che venivano abbattuti e che erano ancora appesi al paracadute non erano dei bersagli legittimi, mentre verso gli equipaggi dei carriarmati che venivano distrutti non veniva riservata alcuna premura. I partigiani venivano sempre fucilati sul posto: la logica era che chi aveva teso un imboscata non meritava nulla di meglio. La fucilazione di un grosso numero di donne e di bambini era considerata una pratica selvaggia nella Wehrmacht, il che non significa che non sia successo più volte.

Nell’ottobre del 1944, il radiotelegrafista Eberhard Kehrle e il fante delle SS Franz Kneipp hanno avuto una conversazione informale circa le tecniche di guerra contro i partigiani.

Kehrle: «Nel Caucaso, quando qualcuno di noi veniva ucciso, non c’era bisogno che ci dicessero che cosa dovevamo fare … Appena erano a vista imbracciavamo i fucili e sparavamo a donne, bambini, a tutto.»

Kneipp: «Una volta, un gruppo di partigiani ha attaccato un convoglio che trasportava morti e feriti. Li abbiamo catturati dopo mezz’ora vicino a Novgorod. Li abbiamo messi in una cava di sabbia e abbiamo cominciato a sparargli contro con la mitragliatrice.»

Kehrle: «Dovevate ucciderli lentamente».

‘Uccidiamo 20 uomini in modo da stare tranquilli

La storia raccontata dal caporale Sommer, che parla con un tenente che aveva combattuto sul fronte italiano, ci fa comprendere come era uso comune terrorizzare la popolazione civile:

Sommer: «Anche in Italia, ogni volta che arrivavamo in un posto nuovo, ci dicevamo: ammazziamo un paio di persone. Poi possiamo parlare con gli italiani. Così avevo sempre compiti speciali. Lui mi ha detto sorridendo: ‘Ok, uccidi 20 uomini così staremo tranquillamente in pace. Poi abbiamo messo in scena un piccolo attacco, e con astuzia gli abbiamo detto: «Se ci procurerete la minima difficoltà, ne uccideremo altri 50».

Bender: «Quali criteri sono stati utilizzati per selezionarli? Oppure sono stati presi a caso?»

Sommer: «Si, 20 uomini. Quelli che ci sembravano meglio. ‘Vieni qui’, gli dicevamo. Poi li abbiamo messi in fila nella piazza del mercato. Abbiamo portato la mitragliarice e … ra-t-tat-tat. Questo è successo. Poi lui ha detto: «Grandi maiali! Io odio gli italiani così tanto, che non potreste crederci.»

‘L’abbiamo buttata fuori e gli abbiamo sparato’.

Quasi nessuno è immune dalla tentazione della ‘disumanità impunita’, come una volta il filosofo Günter Anders aveva giustamente descritto il terrore più sfrenato. Quando si apre la porta alla violenza, i padri di famiglia abbandonano  le loro inibizioni. Tuttavia gli eserciti si differenziano per i loro metodi, come è accaduto durante la seconda guerra mondiale.

L’Armata Rossa non è certo stata inferiore alla Wehrmacht in quanto a propensione per la violenza. Infatti, l’accentuato culto per la violenza da entrambe le parti ha portato ad una radicalizzazione del conflitto sul fronte orientale. Le forze anglo-americane si sono comportate in modo molto più civile, perlomeno dopo la prima fase di combattimenti in Normandia, prima della quale gli Alleati non prendevano prigionieri.

Il modo in cui l’uso della violenza viene praticato da un corpo di soldati non dipende dal singolo. Fare affidamento sull’autocontrollo di ognuno, può creare dei fraintendimenti rispetto alla psicodinamica dei conflitti armati. Il punto critico è l’aspettativa che la disciplina deve arrivare dall’alto.

Crimini di guerra si sono verificati in quasi tutti i conflitti armati prolungati, come hanno evidenziato recentemente le foto scattate da un americano della ‘Squadra della Morte’ in Afghanistan, le quali hanno scioccato l’opinione pubblica quando sono state pubblicate due settimane fà. Tutto dipende da ciò le autorità militari considerano un reato  il fatto che questi crimini vengono puniti o meno. Durante la prima fase della guerra contro l’Unione Sovietica, la leadership della Wehrmacht non considerava necessario punire i soldati per gli attacchi contro i civili russi, e anche gli ufficiali dell’Armata Rossa presi prigionieri venivano fucilati immediatamente.

Storie spacciate come ‘Turismo sessuale’.

Una parte della quotidianità della guerra che è stata comprensibilmente lasciata fuori nelle lettere e nei ricordi dei militari è rappresentata dalla vita sessuale dei soldati, anche se la sessualità ha un ruolo importante in ogni esercito. Secondo la letteratura su questo argomento, i generali hanno sempre avuto molte difficoltà a mantenere sotto controllo la sessualità maschile attraverso i bordelli. Le malattie sessualmente trasmissibili erano così diffuse che intere compagnie dovevano essere sottoposte periodicamente a cicli di cure.

La registrazione di una conversazione del giugno del 1944 rivela l’importanza del donnaiolo tra gli uomini. Il trascrittore ha deciso di riassumere la discussione invece che riportarne le parole esatte.

«18.45 Donna

19.15 Donna

19.45 Donna

20.00 Donna»

Quando le persone in ascolto si prendevano la briga di trascrivere tutto ciò che veniva detto, i discorsi erano abbastanza scontati e ruotavano intorno alle ragazze migliori, a quanto costavano e quali opportunità di fare sesso c’era nelle retrovie. In queste conversazioni, gli uomini trattavano queste storie come esperti turisti sessuali.

Müller: «Quando ero a Kharkov (nell’attuale Ucraina ), era tutto distrutto, tranne il centro della città. Una città meravigliosa, di cui ho un meraviglioso ricordo. Tutta la gente parlava un po’ il tedesco che gli avevamo insegnato. E a Taganrog (in Russia ) c’erano delle sale cinematografiche e delle caffetterie meravigliose, e una splendida spiaggia. Sono stato dappertutto con il camion. E tutto ciò che vedevi  erano donne che facevano i lavori forzati »

Fausst: «Oh, mio Dio!»

Müller: «C’erano delle ragazze eccezionalmente belle che costruivano delle strade. Così le abbiamo caricate su, le abbiamo trapanate e le abbiamo buttate di nuovo fuori. Ragazzi, … ci avranno sicuramente maledetto. »

Mentre il racconto di stupri di massa provocavano al massimo un rimprovero mite da parte degli interlocutori, un certo numero di soldati riteneva che la violenza sessuale aveva limiti che dovevano essere rispettati, anche nello spogliatoio di un campo di prigionia.

Violenza sessuale sadica.

Il materiale esaminato contiene una serie di descrizioni di atti di violenza sessuale con sadismo, che il lettore avrebbe difficoltà a sopportare. Di norma, questi racconti venivano narrati in terza persona, una tattica usata  per prenderne le distanze.

Reimbold: «Nel primo campo dove mi hanno portato gli agenti della polizia penitenziaria c’era un ragazzo molto stupido, uno di Francoforte, un giovane tenente’. C’erano otto di noi che, seduti intorno ad un tavolo,  parlavano della Russia. Lui ha detto: ‘Andiamo a predere la spia russa che abbiamo catturato nei paraggi. Prima le abbiamo dato una bastonata sulle tette con uno stecco, poi abbiamo percosso la sua parte posteriore con la baionetta. Dopo averla scopata, l’abbiamo trascinata fuori e le abbiamo sparato. Mentre stava distesa sulla schiena, le lanciavamo delle granate. Tutte le volte che una cadeva vicino al suo corpo, lei urlava’ . E pensare che c’erano otto ufficiali tedeschi seduti al tavolo con me, e tutti che sono scoppiati a ridere. Io non ne potevo più. Così mi sono alzato e ho detto: ‘Signori, questo è troppo’.

I soldati della Wehrmacht erano a conoscenza della Shoah.

Quanto sapevano i soldati della Wehrmacht della Shoah? Molto di più di quello che furono poi disposti ad ammettere. Tutt’oggi, la partecipazione della Wehrmacht alla Shoah resta un tema controverso. La mostra ‘Guerra di sterminio. I crimini della Wehrmacht‘, che l’Istituto per la Ricerca sociale di Amburgo ha portato in diverse città tedesche tra il 1995 e il 1999, ha sempre scatenato forti contestazioni. Alcuni critici sostenevano che l’intera opera era un falso perchè alcune immagini non venivano mostrate nel corretto ordine cronologico.

La Shoah era generalmente un argomento marginale nelle conversazioni tra i soldati tedeschi, che hanno potuto prenderne per la prima volta visione nella sua interezza in occasione di quella mostra.

Nella ricerca di cui parliamo, sono citate circa 300 pagine di trascrizioni  sull’argomento che, in rapporto alla mostruosità dell’evento, sono un numero irrisorio.

Una spiegazione potrebbe essere che i soldati non erano a conoscenza di ciò che capitava dietro il fronte. Ma l’interpretazione più attendibile potrebbe essere che lo sterminio sistematico degli ebrei non giocava un ruolo significativo nelle conversazioni  perchè non aveva il carattere di novità.

Quando le conversazioni riguardavano lo sterminio, l’accento veniva posto su problemi di natura pratica. Difficilmente vi erano passaggi nei quali gli ascoltatori si sorprendevano di ciò che stavano udendo. Quasi nessuno dava l’impressione che le storie raccontate avessero dell’incredibile o che fossero state ascoltate per la prima volta. «Si può concludere che i soldati erano generalmente a conoscenza dello sterminio degli ebrei, o per lo meno in misura molto maggiore rispetto a quanto è emerso anche dagli studi più recenti sull’argomento», scrivono Neitzel e Welzer.

Dettagli sulla Shoah.

Le trascrizioni complete contengono dettagli sullo sterminio, tra cui le fucilazioni di massa, le uccisioni con il monossido di carbonio in camion appositamente preparati, e più tardi il dissepellimento e l’incenerimento dei corpi, come previsto dalla ‘Operazione 1005‘, attraverso la quale, a partire dal 1943,  le SS cercarono di eliminare le prove della Shoah.

Difficilmente troverete un soldato che ammetta di esserne stato direttamente coinvolto, ma molti parleranno di ciò che altri hanno visto o sentito. I resoconti spesso sono sorprendentemente dettagliati e, in ogni caso, molto più precisi di quanto gli investigatori tedeschi potrebbero raccogliere interrogando dei testimoni. Nell’aprile del 1945, il maggiore generale Walter Bruns descrive quello che è successo durante una  tipica ‘operazione ebraica’, di cui è stato testimone:

Bruns: «Le trincee erano circa 24 metri di lunghezza per 3 di larghezza. Hanno dovuto sdraiarsi come sardine in un barattolo, con le loro teste verso il centro nella parte superiore, c’erano poi sei tiratori con il fucile mitragliatore che gli sparavano dietro il collo. Era già pieno quando sono arrivato, così che quelli che erano ancora vivi erano sdraiati in cima, e gli hanno sparato. Erano disposti in strati ordinati, in modo da non occupare troppo spazio. Prima che gli accadesse questo, erano stati costretti a  consegnare i loro oggetti di valore in un altro punto di stazionamento. Eravamo al bordo della foresta. C’erano tre trincee quella Domenica, e una fila di un chilometro e mezzo che si muoveva molto lentamente. Erano in fila per essere ammazzati. Quando arrivavano più vicini, si rendevano conto di quello che gli sarebbe capitato li dentro. A quel punto gli venivano fatti consegnare i  gioielli e le   valigie. Più avanti, dovevano spogliarsi di tutti i vestiti, tranne la camicia e le mutande. Tra loro vi erano anche donne e bambini piccoli che potevano avere due anni.»

Nessun tentativo di mantenere il segreto.

Molti racconti sono relativi a richieste irragionevoli che venivano fatte ai tiratori scelti, il cui lavoro monotono nei plotoni di esecuzione doveva essere alleviato dopo poche ore ‘a causa del super-lavoro’, e per il particolare stress provocato da questo lavoro a cottimo. Sparare ai bambini piccoli era considerato problematico – non per ragioni etiche – ma perchè non volevano stare fermi come  gli adulti.

Molti soldati tedeschi divennero testimoni della Shoah perchè gli capitò di essere presenti o perchè furono invitati a prendere parte alle fucilazioni di massa. In una conversazione all’interno della sua cella, il generale Edwin Graf von und Rothkirch Trach parla di quando si trovava nella città polacca di Kutno:

«Conoscevo abbastanza bene un capo delle SS, e un giorno mentre parlavamo del più e del meno mi disse: ‘Senti, vuoi filmare una di queste fucilazioni? Voglio dire, non ha importanza. Queste persone vengono sempre fucilate al mattino. Ma se siete interessanti, ne abbiamo ancora un pò, e potremmo fucilarle nel pomeriggio, se vi fa piacere».

Ci vuole un senso di abitudinarietà per essere in grado di fare una proposta simile. Il fatto che le persone coinvolte non cercavano di nascondere la loro attività dimostra come ritenevano un fatto scontato ‘la fucilazione di massa degli ebrei’ , come  fu definita da uno dei prigionieri di Trent Park. In realtà, nei territori conquistati,  le esecuzioni svilupparono qualcosa che poteva assomigliare ad un attività turistica. Oltre ad i soldati di stazza nelle vicinanze,  i residenti locali erano spettatori delle esecuzioni, e talvolta portavano con sè anche i propri figli.

Un terrificante esperimento sociale.

La guerra è la più completa esperienza sociale a cui le persone sono sottoposte, quando variano le circostanze alle quali si devono adeguare. Non c’è bisogno neppure di un ordine o di una struttura speciale di comando perchè un esercito di persone sia in grado di sparare a qualunque cosa si muova. Tutto ciò che serve come parametro di riferimento è ciò che viene ritenuto opportuno e corretto cambiare.

Non tutto può essere giustificato dalle circostanze. Anche in condizioni di violenza estrema, ci sono persone che sfidano la morale dominante del gruppo. Nella maggior parte dei casi, e con validi motivi, sono gli outsiders che mostrano quali comportamenti sarebbero civilmente auspicabili.

In uno dei casi meglio documentati di crimini di guerra , il massacro nel villaggio vietnamita di My Lai commesso da soldati americani nel marzo del 1968, fu proprio un pilota di elicottero a trattenere i suoi compagni dal compiere un numero ancora maggiore di omicidi.  Il massacro terminò solo quando il maresciallo Hugh Thompson minacciò di sparare ai suoi uomini in base al loro tasso glicemico.

La percentuale di persone nella Wehrmacht con una propensione naturale alla violenza e al sadismo si aggirava intorno al 5 per cento, così come in tutti i gruppi sociali. Secondo i ricercatori, questa è la percentuale di popolazione che è soggetta a tendenze sociopatiche, tenute sotto controllo in tempo di pace dalla minaccia di una punizione. Dal 1939 in poi,  la composizione della Wehrmacht rifletteva mediamente le caratteristiche della popolazione maschile che viveva normalmente in Germania.

Non essere percepiti come barbari.

E’ del tutto sorprendente – e deprimente – rendersi conto di quanto rapidamente il concetto di superiorità razziale ha potuto sostituire i valori e le norme del periodo democratico pre-bellico. Dalle leggi razziali del 1935, che deprivarono tutti gli ebrei del diritto di cittadinanza, dalla loro deportazione e sterminio erano passati solo sei anni.

Il fatto che la persecuzione sistematica di un gruppo che rappresentava meno dell’uno per cento della popolazione tedesca fosse possibile senza nessuna parvenza di resistenza non è la prova dell’improvvisa immoralità  di una società. Al contrario, questa esclusione è stata possibile solo perchè la maggioranza della popolazione tedesca non lo percepiva come un atto di barbarie. Come Neitzel e Welzer hanno sostenuto nel loro libro, il gruppo che veniva perseguitato era da tempo percepito come estraneo alla società tedesca e per questo motivo la loro soppressione non era più considerata un  problema che incideva sulla morale della comunità nazionale.

«Dal 1941 in avanti, le stesse persone che avevano accolto con scetticismo il regime nazista nel 1933, osservavano i treni dei deportati in partenza dalla stazione ferroviaria di Grunewald (Berlino)», scrivono gli autori, «Non pochi di loro avevano già comprato gli accessori da cucina ‘arianizzati’ (che erano appartenuti agli ebrei), i soggiorni, il mobilio e  le opere d’arte. Alcune imprese ne curavano il trasporto oppure si erano insediate in edifici che erano appartenuti a ebrei. E tutto questo era considerato normale».

Cambiare la moralità.

Naturalmente, quello che appare a noi oggi è un colossale cambiamento delle norme sociali applicate anche alle forze armate e al loro modo di condurre la guerra. In ogni caso, queste prove confermano che all’epoca la maggior parte dei soldati tedeschi erano convinti di battersi per una giusta causa, piuttosto che l’ipotesi opposta che essi mettessero segretamente in discussione le loro azioni.

Anche alcuni membri dei plotoni di esecuzione percepivano il loro lavoro come il compimento di un ‘obbligo sacro’, che le parole emotivamente cariche dei nazisti esaltavano. Si può scorgere lo stesso sentimento che c’era nelle famose parole di Heinrich Himmler sulle SS che aveva orgogliosamente comandato: al di là di tutte le critiche, erano ‘rimaste decenti’. Ciò che è apparso come un esercizio di enorme cinismo alle generazioni del dopoguerra, era di fatto il convincimento  di essere stato al servizio di una moralità superiore. In questo caso, si trattava di un individuo che si sentiva scientificamente legittimato nel suo determinismo biologico omicida.

L’intuizione inquietante a cui si arriva dopo avere letto le trascrizioni è che la morale che plasma le azioni delle persone non è radicata nello stesso popolo, ma nella struttura che lo circonda. Se la struttura cambia, tutto è possibile – anche il male assoluto.