I soldati sovietici, mai più di una dozzina (con minimi rifornimenti dall’esterno), riuscirono a tener testa al fuoco incessante e continuo dei nazisti, che sparavano contro l’edificio giorno e notte, e agli assalti da terra con mezzi corazzati. Durante le pause fra gli scontri, i russi scendevano nella piazza e sparpagliavano i cadaveri dei tedeschi, talmente numerosi che venivano usati dagli assalitori come scudo difensivo. Questa battaglia-nella-battaglia è assai significativa perché, sino ad allora, i tedeschi erano riusciti a conquistare con relativa semplicità paesi e avamposti sovietici, conquiste pagate con un immenso prezzo di vite umane per i soldati russi.
Mentre i soldati sovietici si battevano per la difesa della postazione, al piano terra dell’edificio continuavano a vivere alcuni civili. L’ordine 227 di Stalin, “non un passo indietro”, aveva coinvolto anche loro. La vita all’interno del palazzo non era certo semplice: il cibo era scarso e di bassa qualità, non c’erano letti e addirittura l’acqua era un bene preziosissimo. La tempra dei sovietici era però inesauribile, e il 25 Novembre del ’42 le truppe naziste furono definitivamente allontanate dalla zona, con gli uomini di Pavlov che poterono abbandonare le postazioni. Jakov Pavlov fu premiato come “Eroe dell’Unione Sovietica”, e dopo la guerra venne eletto per tre volte deputato al Soviet Supremo Russo.
Vasilij Čujkov, il Generale che difese Stalingrado, affermò che gli uomini di Pavlov avessero ucciso più tedeschi di quanti ne fossero caduti nella presa di Parigi
I nazisti si trovarono di fronte il primo vero scoglio inespugnabile, un “caso” che fu fra i primi a ribaltare le sorti della cruenta battaglia per la conquista di Stalingrado, dal quale iniziò l’offensiva sovietica verso occidente e che culminò, tre anni dopo, nella presa di Berlino.
Oggi la Casa di Pavlov è un edificio residenziale con un monumento costruito su uno degli angoli, realizzato con le pietre che caddero durante gli attacchi.
Matteo Rubboli
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