Migliaia di donne violentate dai soldati nemici ma anche dagli italiani: il tema degli stupri nella Prima guerra mondiale è stato a lungo censurato. E quando non lo era, lo stigma colpiva le vittime. Al punto che in un Paese che riteneva l’aborto il peggiore dei crimini, si parlò non di diritto, ma di «dovere dell’aborto»: il problema non era far decidere le donne, ma salvaguardare «l’onore» dei mariti. Ne seguì il dramma dei «figli della guerra»
Il dramma taciuto dei profughi
«Nel primo anno si vedeva ancora giungere, la faccia nascosta dal fazzoletto, qualche donna che proprio non poteva quel figlio strapparselo dal cuore, e appena il marito se ne era andato per due giorni a Udine o a Treviso, aveva a piedi fatto miglia e miglia e supplicava sfinita: — Me lo lascino baciare. Come sta? Sta bene? È cresciuto»: così Ugo Ojetti, il direttore che fascistizzò il Corriere della Sera, scrisse sul giornale a proposito delle donne che avevano avuto un figlio da un soldato, dopo una violenza o perché si erano prostituite per fame, nelle zone del fronte della Prima guerra mondiale. Ojetti ebbe in fondo coraggio: perché degli stupri seguiti a Caporetto, come pure dei bambini nati da donne del Nord-Est e da soldati italiani, si fa ancora fatica a parlare. Il Fascismo, per esempio, cancellò il fatto che i bambini nacquero fino al 1921 e che erano il risultato anche degli stupri dei nostri soldati sbandati dopo Caporetto, come pure della fame che seguì al conflitto e del fatto che la smobilitazione fu lenta.
Il tema degli stupri nella Prima guerra mondiale è stato talmente censurato che il dramma L’invasore, di Annie Vivanti, forse il primo sul tema, fu rappresentato in Italia, a Milano, nel 1915 (si riferiva alle violenze tedesche in Belgio) nei giorni delle manifestazioni interventiste, poi fu dimenticato e infine stravolto da un film del 1955 di Raffaello Matarazzo. Il punto era che denunciare gli stupri di massa distruggeva l’assurda idea (peraltro risuonata perfino nelle celebrazioni di cent’anni dopo) che la Prima guerra mondiale fosse stata l’ultimo conflitto «cavalleresco», un «affare da uomini» che non aveva coinvolto le popolazioni civili. Dei profughi di Caporetto, ovviamente non si è potuto tacere. Si è parlato meno delle deportazioni da parte del governo italiano: circa 3mila-5mila persone provenienti dall’Isontino, dal Cadore, dal Trentino furono internate con l’accusa di essere «austriacanti», sovversivi e spie. Alcuni, ritenuti più pericolosi, furono trasferiti in Sardegna. Ragazzi, donne e anziani furono invece allontanati dalla «zona di guerra» e costretti a risiedere in altre zone d’Italia, in particolare nelle regioni centro-meridionali, dove erano del tutto stranieri. Ancor meno si è parlato delle popolazioni fuggite all’avanzare dell’esercito italiano.
Il «dovere dell’aborto» per salvaguardare l’onoreIl destino dei bambini nati
In ogni caso, gli stupri sono rimasti quasi sempre al margine delle indagini storiche. Nel dramma L’invasore della Vivanti (poi da lei trasformato nel romanzo Vae Victis) la battuta centrale era quella rivolta da Florian, il fidanzato belga partito per il fronte, a Chérie, la donna violentata che ha deciso di non abortire: «Perché, perché hai messo al mondo questa creatura? Perché non l’hai ucciso prima che nascesse?». Questa fu esattamente la domanda che fecero i mariti e perfino i politici italiani alle italiane violentate dopo Caporetto. Per la prima volta, un Paese che riteneva l’aborto il peggiore dei crimini, si parlò non di diritto, ma di «dovere dell’aborto»: perché il problema non era far decidere le donne, ma salvaguardare «l’onore» dei soldati al fronte. Il dibattito che, per esempio, si svolse, sul Popolo d’Italia, prima di Caporetto, coinvolse fra l’altro una scrittrice, Anna Franchi, convinta interventista, secondo la quale, però, toccava alle donne decidere. E Francesco Mario Zandrino, giornalista e segretario della Lega antitedesca, che accusando la Franchi di antipatriottismo, scrisse: «Ma vuole ella dirmi, la gentile Signora, che avverrà il giorno (…) in cui i padri, i mariti, i fratelli ritorneranno alle loro case e si troveranno tra i piedi i bastardi dei tedeschi?». Fu quello che accadde. In realtà «i bastardi» erano anche figli di italiani. E comunque di uomini delle 12 nazionalità che componeva l’esercito austro-ungarico: nessuna fu esente da violenze.
In ogni caso il dibattito si spostò dagli stupri al destino dei bambini nati. Qualcuno arrivò a proporre di ucciderli. Altri, compassionevoli, ma convinti che non potessero in alcun caso restare con le loro madri, sostennero che lo Stato dovesse farsene carico. Oggi può sembrare curioso che l’Italia, nel Dopoguerra, avesse istituito una Commissione d’inchiesta che produsse, appunto, una «Relazione della Commissione d’inchiesta sulla violazione del diritto delle genti commesse dal nemico». In realtà non soltanto agli stupri era concesso poco spazio. Ma, soprattutto, l’inchiesta era stata fatta per ottenere maggiori compensi nei Trattati di pace. Ma già quelle pagine bastarono a descrivere l’orrore: gli stupri avvenivano spesso davanti ai bambini e ai familiari. Perché l’obiettivo era «disonorare» e umiliare i nemici. Molte donne avevano addirittura tentato di farsi scudo dei bambini. Dopo, cercarono di giustificare in tutti i modi gli uomini di famiglia che avevano assistito, senza poter far nulla, agli stupri. Poi, scelsero il silenzio. Perfino quelle che, in un primo momento avevano avuto il coraggio di denunciare. A vincere furono la vergogna e il senso di colpa: violentate o costrette a prostituirsi, le «poco di buono» erano loro. Avevano disonorato l’intera famiglia. Don Celso Costantini, un cardinale illuminato che avrebbe promosso il Concilio Vaticano II, raccontava, denunciando tutta l’ipocrisia della nostra cultura patriarcale: «Uomini che avevano guardato in faccia alla morte con ciglia asciutte e con cuore d’acciaio, me li son visti davanti come cenci, stroncati, disperati. Meglio se fossi morto alla fronte. Meglio se mi fossi sentito dire che lei era morta», dicevano. E quando don Celso obiettava: «Bisogna perdonarle, perché è stata vittima della violenza!», gli uomini rispondevano: «Ma almeno si porti via il bambino!».

I «figli del nemico»Morire per salvarsi dalla violenzaIl dramma della fame
Di che cosa sia successo a questi bambini parlano un bel libro a cura di Marcello Flores, Stupri di guerra. La violenza di massa contro le donne nel Novecento (Franco Angeli), una ricerca di Andrea Falcomer per Ca’ Foscari, Gli «orfani dei vivi» (pubblicata sulla rivista Dep e disponibile online) e un’indagine di Giovanni Strasiotto, appassionato di storia locale ed ex sindaco di Pravisdomini. In sintesi. Nell’agosto 1918 nacquero i primi «figli del nemico», frutto delle violenze sulle donne dei soldati delle diverse nazionalità che componevano l’esercito austro-ungarico. Gli stupri erano avvenuti soprattutto tra il 24 ottobre e l’8 novembre 1917. Ma continuarono fino ai primi giorni del gennaio 1918, quando gli austriaci riuscirono a far funzionare l’apparato amministrativo e giudiziario. Come abbiamo detto, però, ci furono casi sino alla fine della guerra. Nel luglio 1919 erano ancora alle armi 1.700.000 soldati, per lo più nel Triveneto, quindi molti nostri soldati non erano ancora stati smobilitati e le privazioni della popolazione non erano certo finite il 4 novembre 1918. Nessuno sa quanti furono gli stupri né quanti bambini nacquero. La Commissione d’inchiesta, che operò nel 1919-1920, non arrivò a una conclusione certa.
Le violenze furono definite «delitti contro l’onore femminile». Ovvero erano soprattutto gli uomini, in particolare i soldati al fronte, a essere considerati le principali vittime. Le denunce alla Commissione furono 735: un numero che sappiamo irrisorio rispetto alla realtà. Le donne uccise subito dopo lo stupro furono ufficialmente 53, altre 40 morirono nei giorni, o nei mesi, successivi a causa delle percosse ricevute, altre morirono per salvarsi dalla violenza, lanciandosi dalle finestre e buttandosi nel fiume. Sappiamo, come accade ancora oggi, che solo una piccola parte degli stupri è stata denunciata. Anche le donne che avevano trovato la forza di raccontare ai familiari o ai sacerdoti la violenza subita in un secondo tempo si rifiutarono di deporre davanti ai commissari, tutti uomini. Dallo stupro di gruppo di 180 donne, per lo più sfollate, avvenuto nei pressi di Oderzo, furono denunciate 40 nascite. E questo per fare un esempio. Impossibile stabilire quante donne del gruppo abortirono o uccisero i neonati. Le vittime erano anche bambine. Il parroco di Annone Veneto (in provincia di Venezia) scriveva nel registro dei morti: «Teresa, di anni 13, mesi 11, oggi alle ore 1 pom. fu assassinata da un soldato, dopo essere stata violentata…».
Un caso tra tanti. Benché lo «stupratore» tipico non avesse una nazionalità specifica, i «germanici» (ossia quelli che parlavano tedesco) furono indicati come i più brutali. Sono state raccolte testimonianze di donne violate presso i cadaveri dei familiari che le avevano difese. La Commissione d’inchiesta definì tutti i nati «bambini del crimine». Ma sappiamo già che i rapporti sessuali fra soldati (stranieri e italiani) e italiane furono spesso la conseguenza della fame: tante donne fecero sesso con gli occupanti per avere in cambio un po’ di brodaglia ed un pezzo di pane nero. Per sé e per gli altri figli. Qualcuna sicuramente si innamorò. Si innamorarono quelle di cittadinanza italiane e quelle di cittadinanza austriaca, perché non va dimenticato che, prima di Caporetto, gli «invasori» (per «liberare» Trento, Gorizia e Trieste) eravamo stati noi e che le zone di guerra erano molto spesso in territorio austriaco. Quanto alla fame si calcola che, nei territori occupati dagli austriaci dopo Caporetto, i morti per stenti e per mancanza di medicine siano stati 27mila. Ovvero, in un solo anno, il tre per cento della popolazione rimasta: si contarono più morti civili che militari. Fra i più colpiti, gli sfollati dal Piave e le più esposte alle violenze, le loro donne. Fra l’altro, le donne, rimaste senza cibo e spesso con numerosi figli, andavano a cercarlo anche lontano da casa, privandosi delle poche cose preziose che possedevano. Non di rado, sulla via del ritorno, venivano rapinate (nella foto, i profughi lasciano Maser, Treviso, nel novembre del 1917).

L’Istituto San Filippo Neri di Portogruaro
Ma i bambini, dunque? Che fare dei «figli della guerra»? I piccoli, che gli uomini e le stesse famiglie non volevano accogliere, che erano rifiutati dalla comunità e, spesso, comprensibilmente, risultavano odiosi perfino alle madri, furono guardati con disprezzo, considerati figli del nemico. Ma nessuno riusciva a decidere che farne (aborti, infanticidi, abbandoni e gesti eroici a parte). Il peso cadde sulle madri. Finché arrivò una soluzione parziale: nel dicembre 1918 don Celso Costantini creò l’Istituto San Filippo Neri di Portogruaro, aiutato da diverse persone, a cominciare dalla sorella. Nei primi mesi d’attività ricoverò 110 gestanti, «madri vergognose e dolenti» che temevano il ritorno del marito-soldato. Presto sorsero strutture simili a quella di Portogruaro in altre cittadine venete. Fu proprio il cardinale Costantini a introdurre l’espressione di «figli della guerra» e abbandonare quella di «bambini del crimine». I bambini continuarono a nascere per tutto il 1920 e fino agli inizi del 1921. I parroci, intanto, dal pulpito, presero a scagliarsi contro il lassismo dei costumi. Per loro le donne non si vendevano per fame: la loro era lussuria. Che fine hanno fatto, dopo, questi bambini? Sappiamo che 102 ragazzi furono restituiti, in tempi diversi, alle famiglie, altri furono dati in affidamento. I mariti che si separarono furono pochi, ma andarono via con i figli «legittimi» come allora prevedeva la legge, lasciando le donne ancora più nella disperazione e senza alcun sostegno. La maggior parte, comunque, aveva preteso che «l’intruso» non entrasse in famiglia. Alcuni dei ricoverati rimasero in Istituto fino alla maggiore età. Fecero appena in tempo a uscire, che furono spediti a combattere nella Seconda guerra mondiale. Che paradosso: per tutta la vita erano stati etichettati con disprezzo come «el todesco» o «el much». Ora Mussolini li mandava a morire proprio dalla parte dei tedeschi.