"L’ultimo volo del Gobbo maledetto"
Racconto di vita militare realmente di fantasia
Premessa
Il Savoia Marchetti SM 79 era chiamato dagli Alleati "Il Gobbo maledetto" perché ricurvo e perché i suoi piloti erano estremamente determinati.
Questa è l'unica verità, perché ogni fatto o riferimento a cose o persone di questo racconto è puramente casuale.
L’impressione che tutto sia reale e veritiero è dovuta al fatto che la vicenda si snoda un una situazione che tutti avremmo voluto risolvere in varie maniere. Anche così.
1.
Il ministro della Difesa lo aveva convocato per lunedì della Settimana Santa.
La richiesta era piuttosto strana. Lui, Francesco Fuchs, eroe veterano della Seconda guerra mondiale, era sempre rimasto in contatto con il Ministero della Difesa. Lo invitavano ad ogni compleanno, lo vezzeggiavano e si facevano raccontare per l’ennesima volta qualche aneddoto legato alla sua campagna in Russia, quando pilotava il Gobbo Maledetto.
Era il trimotore più temuto dagli alleati. Costruito dalla Savoia Marchetti nel 1934 come aereo passeggeri, portava il nome di «S.M.79 Sparviero», ma ben presto la versione da guerra venne ribattezzata «Gobbo maledetto» dai nemici che lo temevano per le sue capacità di manovra e per la forma particolare della cabina che gli dava quella grinta di aereo ricurvo assatanato sulla preda.
I Tedeschi, a fianco dei quali Fuchs aveva combattuto in Russia, invidiavano quel velivolo che era paragonabile al loro Junkers Ju 52/3m. Un aereo certamente meno importante, che gli italiani chiamavano «la Ju-Tante», in italiano l’Aiutante e in tedesco la Zia Ju. Insomma la versione femminea dell’S.M.79.
Comunque sia, Fuchs si recò a Roma, nonostante i sui 100 anni suonati. Aveva ancora il brevetto di pilota professionista, ma nessun medico se la sentiva di dargli il nulla osta al volo anche se aveva una salute di ferro.
«E se si sentisse male in volo?» – Gli chiedevano i medici.
«Perché – rispondeva, – ai giovani non può accadere che si sentano male?»
«Certo, ma se si sente male lei mi danno dell’idiota.»
«Corra il suo rischio! È un ufficiale medico!»
Ma non c’era niente da fare, era costretto a volare sempre con a fianco un secondo pilota. Una badante di volo, una specie di A-Ju-tante…
Per questo accettò di recarsi nuovamente al Ministero. Forse gli davano il certificato che gli lasciasse fare ancora un ultimo volo. Beh, ultimo è una parola grossa… Uno degli ultimi, ecco.
Entrambi i suoi figlioli erano già in pensione. Ma uno abitava nella sua città, Trento, che lo accompagnava al treno e l’altro, residente a Roma, che lo andava a prendere alla stazione e lo portava dove voleva. Al Ministero della Difesa, dove altro sennò.
Giunto al N. 11 di Via XX Settembre, scese dalla macchina del figlio e si presentò alla guardia. Due minuti dopo un ufficiale dell’aeronautica l’aveva già preso per portarlo ai piani superiori.
«Comandante, come sta?»
«Benone. E lo sapete.»
«Comandante, era una domanda di cortesia… Venga, la stanno aspettando.»
Chi lo stesse aspettando, in realtà non ne aveva idea.
Ma stavolta rimase meravigliato. Il ministro in persona gli venne incontro, mentre due altri personaggi in borghese e uno in divisa dell’aeronautica rimasero in attesa sorridenti.
«Comandante Fuchs , sono davvero felice che abbia accettato l’invito, – disse il ministro. – Venga, si accomodi.»
Fuchs si andò a sedere in una poltrona del salottino, con una certa inquietudine. Rimase in silenzio.
«Dunque, i miei collaboratori dicono che lei vorrebbe volare da solo, – riprese il ministro una volta seduto anche lui. – Almeno un ultimo volo, vero?»
Gli altri tre sorridevano, annuendo. Per Fuchs c’era puzza di bruciato. Non era nato ieri. Anzi, neanche l’altro ieri, quasi un secolo prima.
«Cosa sta per chiedermi, signor ministro?»
Il politico rimase interdetto per un attimo, ma non era nato ieri neanche lui.
«Io? No. Non sono un tecnico, solo un semplice politico. Però gli amici che sono con me hanno da farle una proposta.»
Fuchs sapeva che si trattava di una trappola oceanica, ma sentiva che avrebbe abboccato volentieri.
Il ministro si alzò.
«Io devo lasciarla. Sono onorato di averla potuta conoscere di persona. Il Paese può vantarsi di avere persone come lei.»
Si strinsero la mano e Fuchs venne portato in una sala più piccola, o meglio più riservata.
«Vedo la trappola e vedo l’esca, – disse Fuchs sorridendo. – Quello che non vedo è la cosa principale, l’obbiettivo. Cosa volete esattamente da un vecchio pilota della Seconda guerra mondiale?»
«Lei pilotava il S.M.79 Sparviero, vero?» – Chiese uno dei due uomini in borghese.
«Sì. – Sorrise Fuchs. – Il Gobbo maledetto.»
«Lo ha mai pilotato da solo?»
«Una ventina di volte, quando era ferito il mio secondo.»
«Ha mai perso l’aereo?»
«Mai. Sono tornato in fiamme, sforacchiato, senza benzina… Ma l’ho sempre portato a casa.»
«Già, – continuò l’ufficiale. – Mi raccontavano che il capopattuglia si faceva guidare da lei quando c’era da bucare le nuvole.»
Fuchs rise. «Sì, dicevano che ero fortunato. O che avevo naso. Io trovavo la colonna di carri armati tedeschi da rifornire. Atterravamo, scaricavamo il materiale e ripartivamo.»
Il pilota dell’Aeronautica era incerto tra l’ammirazione e l’invidia.
«Abbiamo una richiesta da farle.» – Intervenne il terzo uomo.
«L’avevo capito, – sorrise Fuchs. – Sparate.»
«Abbiamo trovato un altro esemplare di S.M.79 Sparviero. – Disse l’uomo in borghese che fino a quel momento era rimasto in silenzio. – In ottime condizioni.»
Fuchs rimase ad ascoltare. Non voleva aiutarli.
«La struttura è perfetta. I motori sono una meraviglia, un’orchestra. I tre motori radiali 126 RC 34 sembrano appena usciti dall’Alfa Romeo.»
«Un’orchestra? – Ripeté Fuchs. Era il termine che usavano loro per dire che l’aereo era in perfette condizioni. Sentiva di avere ingoiato l’esca. – Signori, cosa volete da me?»
«Le chiediamo di visionarlo, provarlo e, se le sembra in grado di funzionare, di pilotarlo di persona fino a portarlo in Italia.»
Il silenzio che seguì fu imbarazzante. Si accorsero di aver fatto il pensiero più lungo del braccio.
«Ehm… Lei ne ha già portato uno in Italia dal Libano, vero?» – Osservò l’ufficiale.
«No, – rispose Fuchs risoluto. – L’ho trovato, l’ho fatto smontare e trasportare in Italia per il Museo Caproni di Trento. Non era in grado di volare.»
«Questo sì, può volare…»
Fuchs si alzò in piedi. Era minuto, come si usava un tempo per i piloti, e come aveva accentuato la sua età. Ma era lo stesso autorevole quanto basta per infondere soggezione.
«Signori, non offendete la mia intelligenza. Ditemi tutto in una volta, altrimenti me ne vado.»
2.
Il giorno di Venerdì Santo, Francesco Fuchs si era imbarcato in prima classe del volo Alitalia AZ 720, diretto ad Atene. Lì aveva cambiato aereo, imbarcandosi su un 777 di linea che lo portava ad Abu Dhabi, per poi arrivare finalmente a Bombay.
Totale, 11 ore di volo e 5 di attesa in aeroporto. Avrebbero sfiancato un cristiano, ma Fuchs era eccitato. In missione. Come ai vecchi tempi. Erano passati 65 anni dall’ultima volta…
Al Chattrapathi Shivaji Airport di Mumbay c’era ad attenderlo un’auto dell’Ambasciata Italiana a New Dehli in India, con tanto ai autista in livrea.
«Comandante, ha fatto un buon viaggio? – Gli chiese cortesemente. – La stanno aspettando al consolato di Mumbay.»
Arrivò per ora di pranzo. Gli vennero incontro l’ambasciatore in persona, il console e i suoi più stretti collaboratori. Tra questi c’era anche Massimo Alfierini, uno dei due uomini in borghese incontrati al Ministero della Difesa. Lo avevano accompagnato dall'ambasciata altri uomini in borghese. Troppa gente per i suoi gusti.
Ma il pasto fu cordiale e ricco di portate decisamente piacevoli. Che però Fuchs assaggiò appena. Chiese invece di andare a letto nel pomeriggio, perché l’indomani sarebbe stata una giornata difficile.
Cinque ore di fuso orario gli avevano suggerito di limitarsi a fare un’abbondante prima colazione, come se fosse stato all’orario di casa sua. Si alzò poi per ora di cena, che per lui fu il pranzo. Quindi fece quello che corrispondeva al suo riposino pomeridiano.
Alle 3 di mattina si svegliò e, insieme agli altri uomini della partita cominciò i preparativi.
Alle 4 uno spuntino, quello giusto, come se fosse cena. Alle 5 i bagagli e le carte. Alle 6 era all’aeroporto privato di Shahrukh.
La pista, poco più lunga di 500 metri, era un aeroporto a tutti gli effetti. Un capannone di lamiera ondulata, o magari di eternit come sospettava qualcuno, era l’unica costruzione.
Quando Fuchs entrò c’era uno strano viavai di persone, decisamente inusuale per quell’ora e in un posto del genere.
Il comandante venne accompagnato in una stanzetta, dove vennero dispiegate alcune cartine per l’ultima volta. Poi entrò il motorista, l’uomo di Roma, Alfierini.
«È tutto pronto, comandante. – Gli disse. – Quando vuole…»
«Allora non perdiamo tempo – rispose arrotolando le cartine, – la strada è lunga.»
«Comandante, la Polizia di Mombay deve chiederle qualcosa.» – Intervenne un addetto dell’ambasciata.
Fuchs e il suo motorista uscirono.
«Sono il comandante Fuchs.»
«Comandante, ci hanno informati che lei vuole fare un volo di prova con il vecchio velivolo che c’è qui fuori.»
«Esatto.»
«Ehm, comandante, è sicuro di quello che fa?»
«La spaventa la mia età? – gli domandò Fuchs con sicurezza. – Sono l’unico a poter far volare questo rottame.»
«Ehm, sì signore. No, scusi. Però, sa… C’è un centro abitato. Non è che sarebbe meglio se fosse affiancato da un pilota… più giovane?»
Fuchs si trattenne a stento.
«Ecco, questo è il mio brevetto, rinnovato una decina di giorni fa, con tanto di certificato medico.»
Glielo avevano miracolosamente dato. Era una condizione sine qua non.
«Comunque sia, c’è con me il signor Alfierini. – Lo indicò. – È lui il mio secondo.»
Era una balla. Alfierini era solo un esperto meccanico e ottimo restauratore di motori d’epoca.
«Volete fare anche voi un giro con me sulla città? – Chiese Fuchs ai due poliziotti, sfidando la sorte. – Faccio solo un giro di prova per vedere se funziona, se vale la pena acquistare l’aereo.»
«No no, per carità. Ma è sicuro che questo… affare… voli?»
«Questo è un SM 79, Sparviero, detto Gobbo Maledetto. – Rispose con una certa fierezza. – È un esemplare del 1939, versione lancia siluri. Ha 22 anni meno di me.»
«Porta anche i siluri?» – Rise volgarmente il più grasso dei due poliziotti.
«No, però ho bisogno di altri due passeggeri per equilibrare il peso dell’equipaggio standard del velivolo. »
Fece cenno a due italiani che stavano guardando la scena.
«Forza ragazzi, salite a bordo che si parte, – gridò loro. – Ambasciatore, sale anche lei?»
«Io? Ehm, no…»
I due poliziotti risero.
«Allora se ne vada.»
L’ambasciatore si rabbuiò, salì sulla limousine e tornò in ambasciata. I due passeggeri improvvisati invece salirono a bordo.
Fuchs salutò i poliziotti e salì a bordo, chiudendo il portellone dietro di sé.
Dopo una decina di minuti si accese il primo motore, poi seguì il secondo e infine quello centrale.
Erano magnifici. Aveva ragione il motorista. Era un’orchestra dell’Alfa Romeo.
«Signori, si parte per Tipperary!» – Disse Fuchs. Era un vecchio rito scaramantico che
usavano quando partivano per una missione piuttosto lunga: cantavano la canzone del nemico: "It’s a long way to Tipperary"...
I due ospiti si erano seduti in carlinga, il motorista si era messo a fianco del pilota.
Fuchs guardò tutte le strumentazioni di bordo, provò i flaps, mosse la cloche, gli impennaggi erano leggerissimi. Sembrava perfetto.
«On y va?»
«Allons!»
3.
Con un ultimo fantastico ruggito, i motori andarono al massimo e dopo un po’ il pilota lasciò andare i freni.
Il guidone segnalava un vento al traverso di babordo, ma la pista era una sola. Nessun problema.
Partì e tutto gas e dopo solo un paio di centinaia di metri l’aereo si sollevò da terra e Fuchs lo portò contro il vento di babordo. Si sollevò come un fuscello.
«Niente radio, mi raccomando! – Gli ricordò il motorista. – Rotta?»
«Mai usata la radio. Rotta 270, 2-7-0. Ovest. Oceano indiano.»
«A questa velocità saremo fuori dalla acque territoriali in un’ora.»
«In 35 minuti, – precisò il pilota. – Ma proseguiremo per un’ora. Non mi fido degli indiani nella misurazione delle acque territoriali…»
Fuchs era rinato. L’età lo aveva rallentato un po’ in tutto. Mangiava appena, dormiva poco, parlava piano, si muoveva con delicatezza. Ma ora che si trovava al comando del suo vecchio apparecchio era tornato il giovanotto di una volta. L’adrenalina gli stava facendo da supporto biologico. Sapeva che non poteva durare molto con quella pressione, ma era tornato il suo momento.
Una mezzora dopo era sull’Oceano indiano. Lui non aveva fatto l’aerosilurante, ma il bombardiere. Per un pilota militare italiano in guerra, comunque, il mare era la riserva di caccia. E conosceva alcuni trucchi.
«Comandante, non voliamo troppo bassi?» – Gli chiese il motorista.
Fuchs sorrise.
«I motori devono lavorare un po’ di più a soli mille piedi, – ammise. – Ma dall’alto è più difficile vedere l’S.M.79.»
«Come fa a dirlo?»
«Non ha guardato la colorazione superiore della livrea? È dipinta con un bel colore azzurro chiaro che si confonde col mare. È per renderlo invisibile ai caccia della RAF.»
«Della RAF? Ah scusi, dimenticavo…»
«Già. L’ultima volta che ho pilotato uno di questi, incrociai uno spitfire…»
«E l’ha mancato?»
«Io? Ha ha! No, non gli abbiamo sparato. Era lui che voleva abbattere noi.»
«E non vi ha colpiti?»
«Non ci ha sparato. Ci ha salutato sbattendo le ali come si faceva tra amici, o tra nemici quando non si avevano più munizioni…»
La radio gracchiò qualcosa.
«Posso rispondere, comandante?» – Chiese il motorista.
«Non ci hanno ancora chiamato. E la radio di bordo non funziona.»
«Lo so, ma come mi devo comportare?»
«Usi la radio che le hanno dato, ma solo tra un quarto d’ora. Per ora si limiti ad ascoltarla.»
«Gobbo Maledetto, qui Notredame. Potete rispondere?»
«Aspetti 10 minuti.» – Gli ordinò Fuchs.
Entrò in cabina il più giovane dei due passeggeri.
«Comandante, abbiamo visto degli aerei da caccia in quota. – Disse. – Ci stanno cercando.»
«Che rotta avevano rispetto a noi?»
«Ore 3…»
«Si muovono alla cieca…»
Proprio in quel momento però un jet li superò a prua. Cabrando velocemente per evitare l’impatto con l’oceano.
«No, ci hanno individuati.»
«Cosa facciamo, comandante? Non abbiamo armi di bordo…»
«Preparatevi a finire in mare. – Rispose il comandante Fuchs. – Se necessario so ammarare anche senza motori.»
«Non è consolante…» – Disse il motorista.
«Invece che lamentarsi, può darmi la posizione del nostro aereo?»
Il secondo guardò la carta.
«Ehi, siamo fuori dalle acque territoriali indiane da una decina di miglia!»
«Non significa nulla, – disse il passeggero. – Quelli se vogliono ci sparano lo stesso…»
«Sistematevi e legatevi bene con le cinture di sicurezza.» – Ordinò Fuchs.
Sperava di aver calcolato giusto. Dopo un minuto diede gas ai motori e alzò il muso dell’aereo, salendo sulla dritta, verso nord-nordovest.
Una serie di missili aria-aria andò a schiantarsi in mare sollevando spruzzi d’acqua.
«Sanno benissimo di non poterlo fare… Siamo in acque internazionali!»
Fuchs non disse niente. Abbassò la prua e si portò molto vicino al livello del mare. Immaginò gli spruzzi che sollevava. L’aveva fatto una volta per farsi vedere dalle ragazze che prendevano il sole in spiaggia in Dalmazia. Più basso di lui aveva volato un suo amico, che aveva toccato la superficie con l’elica del motore centrale. Aveva dovuto fare un ammaraggio di emergenza, ma lo fece così bene che, se i superiori gli diedero un mese di consegna, il comandante della Squadriglia l’aveva voluto con sé perché aveva dimostrato di saper cadere.
Fuchs no, non perdeva il suo aereo. Mai. Non l’avrebbe perso neanche stavolta.
«Mi dà la posizione di November Kilo 6 Papa?» – Chiese al motorista.
Lui lo guardò interrogativo.
«La chieda via radio.»
«Ah, ecco.»
Prese la radiolina che gli avevano dato.
«Qui Sparviero…»
«Gobbo maledetto!» – Lo corresse.
«Qui Gobbo. November Kilo 6 Papa, mi senti?»
Stava per ripetere, ma Fuchs lo fermò.
«Ci hanno sentito, aspetti che il comandante gli dia ordine di rispondere.»
Dopo un po’ la radio gracchiò.
«Qui Notredame. Cosa vuole il Gobbo da NK6P?»
«La sua posizione.»
Passarono 60 secondi, poi giunse la risposta. E il motorista non si fece dare ordini e guardò la carta nautica.
«La stiamo per raggiungere. Al massimo 3 minuti. – Rispose. – Ma non possiamo atterrare su una portaerei con questo… reperto!»
Fuchs non rispose. La presenza della portaerei Cavour non serviva certamente per atterrarvi, ma bastava che fosse lì. Quando la vide all’orizzonte, iniziò ad alzare l’aereo. Il pericolo non c’era più. Gli Indiani avevano bisogno di tutto fuorché di un combattimento con un aereo d’epoca italiano, al cospetto di una portaerei italiana. Sicuramente la Cavour non avrebbe alzato in volo gli Harrier, ma la sua presenza era una garanzia contro le concezioni piuttosto labili sul diritto internazionale degli indiani.
Quando sorvolò la portaerei, Fuchs sbatté le ali in segno di saluto. Allora puntò verso nord. Era come se avesse fatto il punto.
4.
« Alfierini, per favore mi dà la rotta per Karachi?»
Il comandante Fuchs aveva comunque già cominciato la virata a dritta.
Alfierini scartabellò, prese il goniometro e gli diede la rotta.
«348 gradi Nord.
«Se è 348, è nord per forza.»
Non rispose.
Dopo due ore arrivarono in posizione.
«Chieda a Notredame il permesso di chiamare la torre di controllo di Karachi.»
Dopo qualche scambio di messaggi, il motorista cambiò lunghezza d’onda e chiamò in inglese la torre di controllo dell’aeroporto internazionale Jimmah di Karachi.
«Vi abbiamo inquadrato, – disse la voce in inglese. – Conoscete l’aeroporto?»
«No, però il pilota l’ha studiato.»
«Allora gli dica di prendere la pista 13. Direzione sud-sudovest.»
Fuchs guardò automaticamente l’orologio. Era tarda mattinata, ora della brezza di mare.
«Che diavolo di aereo avete?» – Chiese l’operatore.
«Un trimotore a elica.»
«lo vedo, – rispose la voce. – Ma non ne fanno più trimotori a elica...!»
«Lo so.»
E così, al momento dell’atterraggio, pur avendo seguito le istruzioni alla perfezione, notarono che lungo la pista avevano dislocato gli automezzi dei vigili del fuoco… Bella fiducia.
L’atterraggio avvenne senza problemi e un’auto corse all’aereo prima ancora che si fermassero i motori.
Scese un uomo. I due passeggeri aprirono il portello e quello salì a bordo.
«Come sta comandante?» – Gli chiese affabilmente l’uomo, che era italiano, non appena infilata la testa in cabina.
«Bene grazie». – Rispose Fuchs, che si era alzato per scendere e sgranchirsi le gambe.
«La nostra idea è di fare il pieno immediatamente e ripartire il più presto possibile, – disse l’uomo. – Sono consigliere d’ambasciata e devo dirle che c’è un certo intreccio di messaggi allarmanti.»
«lo immaginiamo. – Rispose il comandante. – Non abbiamo fatto dogana… ha ha!»
«Avanti allora. – Indicò il piccolo automezzo appena arrivato per fare rifornimento. – Posso fare il viaggio con voi?»
«Anche lei non vuole fare dogana?»
«Beh, ho il passaporto diplomatico, ma se mi accettate mi semplificate la vita…»
Tra una cosa e l’altra l’aereo ripartì alle 15. Nessun problema con le autorità, ma il riuscire a prendere l’autorizzazione al decollo richiese più del previsto.
Fuchs ne aveva approfittato per riposare. Era l’ora in cui a casa sua dormiva più facilmente. Quando si svegliò era fresco come una rosa. In confronto agli altri, che avevano meno della metà dei suoi anni, era decisamente un fenomeno.
Appena giunto in quota, stavolta a 5.000 piedi, il motorista gli diede la nuova rotta.
«3-3-5 per 100 miglia, poi 3-5-5. Quasi nord.»
«Quota delle montagne?»
«Siamo vicini al tetto del mondo… – Rispose titubando. Il K2, seconda montagna più alta del mondo, è in Pakistan. – Ma il passaggio è stato previsto risalendo l’unico fiume dell’Afghanistan che si butta nell’Indo, il Kabul. Porta il nome della capitale.»
«Quota?»
«La vallata del Kabul è stretta, ma il fiume non supera i 1.800 metri di quota.»
«Allora ci portiamo a 6.500 piedi.»
5.
L’aereo impiegò un po’ a raggiungere la quota voluta, consumando più del previsto e affaticando un po’ i motori, che non erano proprio freschi di rodaggio… Il motorista espresse un po’ di preoccupazione, ma quando il diplomatico italiano salì in cabina, entrambi evitarono di mostrare problemi.
«Tutto prosegue come si deve?» – Chiede il nuovo passeggero.
«Siamo un po’ più lenti del previsto, ma tra due ore entriamo nel cielo dell’Afghanistan.»
«Bene allora. A carburante come stiamo?»
«Non si preoccupi, – disse il pilota, con una battuta che usava in guerra. – A terra si arriva sempre…»
L’uomo si ritirò in carlinga.
Come previsto, alle 18 - ormai la luce era rimasta solo a occidente - passarono il confine del Pakistan con l’Afghanistan. Il motorista informò i passeggeri infilando la testa nella botola.
«Tra altre due ore arriviamo.»
«Abbiamo abbastanza carburante?» – Domandò di nuovo il diplomatico.
«No. – Rispose Fuchs.»
Scoppiò il silenzio.
Dopo meno di due ore, Fuchs mandò a chiamare il diplomatico.
«Non ce la facciamo ad arrivare a Herat. – Gli disse indicando la freccia dei serbatoi. – Prenda la radio e faccia sapere a Notredame che atterreremo tra un’ora a Shindand.»
«A Shindand? Ma ce l'avranno un aeroporto?»
«Non ne ho idea. Ma è lì che atterreremo, perché è la prima base raggiungibile di pertinenza italiana.»
Il diplomatico parlò a lungo con i suoi, mentre il pilota si stava abituando alla luce della luna. Era Pasqua e la luna era al punto giusto. E il cielo sereno. Era il momento che più amava del volo. Lui, la notte, la luna, la vista che si adattava. Sotto di lui il mondo, sopra le stelle. Gli venne in mente la poesia di Giacomo Leopardi, canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Provò un attimo di commozione, poi si riprese. «Sto invecchiando, disse tra sé e sé».
«Ci aspettano a Shindand. – Disse il consigliere d’ambasciata. – Abbiamo kerosene per arrivare fin lì?»
«Non so, ma lì comunque arriviamo…»
Dopo mezzora ripresero le conversazioni con la radio.
«La pista non è illuminata…»
«Nessuno è perfetto.»
«Non stia a scherzare. Cosa posso chiedere di fare?»
«Gli dica di portare degli automezzi a illuminare la pista con i fari controvento. Anzi, no. Li faccia mettere in direzione sud-nord. Non avremo modo di cambiare approccio.»
Il kerosene finì esattamente un minuto prima dell’atterraggio. Le eliche continuavano a girare, per cui solo il motorista, oltre al pilota, si accorse che giravano spinte dall’aria. Meglio così: evitate scene di panico.
L’aereo atterrò senza problemi esattamente alle 20.34, ora locale. In Italia erano le 16.04. Aveva avuto la fortuna che c’era un forte vento contrario e l’atterraggio era venuto da manuale.
«Ho sempre riportato l’aereo alla base…»
Subito si fecero attorno i mezzi blindati dell’esercito italiano, a protezione del velivolo.
Qualcuno aprì il portellone e il comandante della Base, colonnello Corradi, salì a bordo.
Salutò militarmente il comandante Fuchs.
«Benvenuto in Afghanistan, comandante. Ho l’ordine di scortarvi fino al CH-47 Chinook che vi porterà a Herat.»
Scesero dal Gobbo maledetto e si portarono a piedi fino a uno dei due Chinook. In teatro di guerra vengono sempre fatti volare in coppia.
Un quarto d’ora dopo erano in volo. Fuchs ne approfittò e dormì per tutto il tragitto. Si dorme quando si può dormire. Poco, ma sufficiente: mezzora dopo erano alla base di Herat.
Ad attenderli, il generale comandante Belloni e il suo staff dello Stato Maggiore, compreso il colonnello comandante dell’aeronautica di Herat, colonnello Borgovechio. C'era anche il comandante del genio, colonnello Di Petri, il cui reggimento era di stanza a Trento.
«Avevi ragione, – gli disse quest'ultimo. – Fuchs è un personaggio unico al mondo.»
«Le do il benvenuto a nome del ministro della Difesa. – Disse il generale. – Vi abbiamo fatto preparare un lauto pranzetto alla mensa. Poi riposerete qui nella palazzina comando. Domattina il C130 vi porterà a Abu Dhabi. Vi sarà ad attendervi un Airbus dell’Aeronautica militare.»
Fuchs mangiò poco e dormì poco, ma ormai si stava rilassando. La sua missione, dal punto di vista operativo, era finita. Il Savoia Marchetti «S.M.79 Sparviero» sarebbe stato smontato con calma e trasportato in Italia con le dovute cautele.
Il volo fino ad Abu Dhabi fu fastidioso. La distanza in linea d’aria era di soli 1.332 km ma, per motivi immaginabili, la rotta prevedeva il sorvolo del Pakistan per evitare i cieli dell'Iran per poi risalire il Golfo Persico costeggiando l’Oman. Totale, quasi tre volte in più.
Anche se sedeva in cabina, nel divano per gli ospiti, non era un bel viaggiare. Il volo tattico che il pilota doveva fare per ordine del Comando operazioni per evitare eventuali razzi dei talebani, rendeva il tutto insopportabile per chiunque non pilotasse l’aereo.
«Vuole pilotare lei, comandante?» – Chiese il pilota.
Fuchs ci pensò, poi ringraziò, sorrise e rispose di no.
Quattro ore dopo atterravano ad Abu Dhabi e Fuchs guardò i grattacieli che si stagliavano disseminati un po’ in tutta l’area. Scosse la testa e si preparò a scendere.
Sbarcato, lesse ironicamente ad alta voce la scritta: «Si prega ti tenere le armi individuali sotto la giacca.»
Le operazioni di trasbordo richiesero un paio d’ore, poi finalmente i nostri personaggi presero posto a bordo dell’Airbus dell’Aeronautica militare. L’aereo era bianco con il solo numero di identificazione, con la scritta della nostra aeronautica in dimensioni discrete.
Per tutti era un normalissimo aereo commerciale.
6.
Dopo il decollo, i militari portarono da mangiare ai passeggeri. Insalata di pasta fredda, tutto sommato accettabile. Chi lo voleva aveva anche del vino. Provenendo da un paese musulmano, dove l’alcol era difficile da trovare anche alla base, qualcuno gradì un bicchiere perché era come anticipare il ritorno a casa.
Ci vollero un po’ meno di sei ore perché l’aereo atterrasse a Pratica di mare, dove la nostra aeronautica ha una base di 830 ettari. Tenendo conto che un campo da golf 18 buche di ettari ne richiede solo 40, chi l'aveva progettata negli anni Trenta era davvero lungimirante: aveva costruito una delle basi più grandi d’Europa.
Ora aveva una pista asfaltata di due km e mezzo, vietata ai voli commerciali.
Due pullman color oliva vennero a prendere i passeggeri in tuta mimetica e li portarono in un capannone. Nel giro di una mezzora avrebbero ricevuto i propri bagagli, come in un volo civile.
Fuchs, Alfierini e i tre passeggeri del Gobbo maledetto, tuttavia, non vennero fatti scendere. Scaricati i militari, furono portati nei pressi di un altro capannone. Lì scesero e vennero accompagnati all’interno della costruzione. La luce era diffusa e fecero fatica ad abituare la vista.
Un ufficiale dell’Aeronautica li accompagnò quasi in fondo, poi vennero fermati. Nessuno fece domande, sapevano che avrebbero capito tutto presto.
E poco dopo, infatti, si aprì una porta ed entrarono degli uomini. Fuchs riconobbe solo uno di loro, il ministro della Difesa. Il quale gli si fece incontro con un sorriso.
«Comandante Fuchs, Buona Pasqua!»
«Missione compiuta, signor ministro!» – Gli rispose Fuchs.
«Il Paese le è immensamente grato…!» – Rispose il ministro.
Poi il diplomatico salito a Karachi prese sotto braccio i due passeggeri caricati a Mumbay e li portò al cospetto del ministro e degli alti ufficiali.
«Signor Ministro – disse un altissimo diplomatico – ecco a voi Massimiliano Latorre e Salvatore Girone.»
I due erano in borghese e pertanto dovettero limitarsi a fare il saluto militare battendo le mani sui fianchi e sbattendo i tacchi.
«Signor Ministro, primo maresciallo Latorre, secondo capo Girone, Comandi!»
Il ministro apprezzò il saluto, ma poi andò ad abbracciare i due fucilieri di Marina. Erano stati tenuti prigionieri ingiustamente per anni in India e adesso erano finalmente tornati in Italia.
Gli ufficiali presenti lanciarono il berretto in aria e gridarono tre volte “urrah!”
Il Comandante Fuchs non era mai stato accolto così, neanche al ritorno vittorioso da una missione difficilissima. Sentì un attimo di commozione salirgli alla gola, ma lo bloccò.
«Sto invecchiando», disse nuovamente tra sé e sé.
Rimase a godersi la scena, notando che tra i presenti c’era anche l’ambasciatore italiano in India e il ministro degli Esteri di un precedente Governo che si era particolarmente accorato alla vicenda dei due Fucilieri di Marina.
Poi andarono tutti al buffet che avevano preparato di fianco e lui si permise di godersi il parmigiano trentino che qualcuno aveva pensato di far arrivare dalla sua provincia. Evitò con cura lo spumante, ma si lasciò gustare un calice di vino bianco fermo gelato. Lesse sull’etichetta che si trattava di un Silvaner, un vitigno che cresce in quota.
«Comandante, dobbiamo parlarle. – Gli disse poi un generale che non conosceva. – Può venire di là in sala comando?»
Entrarono praticamente tutti, ma almeno potevano parlare senza dover gridare.
«Vi ricordo l’impegno che vi siete presi quando venne approvata l’operazione. – Disse lo stesso generale che li aveva fatti entrare. – Le cose sono andate così. Il Comandante Fuchs è andato a Mombay a prelevare l’aereo in veste di unico pilota capace di provarlo in volo.
Aveva bisogno di peso e ha fatto salire i due “marò”, che erano lì per caso.»
Delle risatine sfuggirono ai presenti.
«La colpa è stata del comandante Fuchs, che di sua iniziativa è partito per l’Italia senza fare altre prove. In tutti i casi, nessuna autorità italiana sapeva nulla di tutto questo. E i due marò sono scappati contro la propria volontà.»
L’idea era nata dall’ex ministro e a progettarla era stato un alto ufficiale dei servizi segreti militari, di cui non venne fatto il nome, ma era evidentemente un uomo di Marina.
Quando era stata prospettata in chiaro l’operazione al comandante Fuchs, questi aveva accettato di buon cuore, dicendo che anzi avevano aspettato troppo.
L’ambasciatore italiano in India era stato prudenzialmente fatto rientrare. Con gli indiani non si sa mai, quindi non vi sarebbe più tornato. Avrebbe assunto la guida di un’altra ambasciata importante.
Poi venne formulata la versione ufficiale. Il Ministro della Difesa avrebbe dato l’annuncio al Parlamento, dicendo che non ne sapeva nulla e che condannava l’iniziativa presa a sua insaputa. Avrebbe preso i giusti provvedimenti con i responsabili dell’iniziativa che avrebbe potuto incrinare i magnifici rapporti in essere tra l’Italia e l’India. Era tuttavia certo che la sua autorità non gli consentiva di ordinare ai due fucilieri di Marina di tornare in India.
Qualche giorno dopo l’India, da parte sua, espresse la propria preoccupazione. Punto.
Il Savoia Marchetti S.M.79 Sparviero venne smontato a Shindand e trasportato a Herat. Da lì venne caricato in un container per poi essere consegnato al Museo Caproni di Trento circa un mese dopo. Venne montato e fece bella figura in coppia con l’altro Gobbo maledetto che lo stesso Fuchs aveva trovato in Libano.
Un mese dopo il ritorno a casa, gli venne consegnata - rigorosamente per posta - un’altra medaglia, la cui motivazione era doverosamente nebulosa.
Poco dopo lo raggiunse una raccomandata. Gli veniva comunicato che il certificato medico era scaduto e che avrebbe potuto volare ancora sì, ma solo con a fianco un secondo pilota.
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Dedicato a Massimiliano Latorre e Salvatore Girone