Notiziario: L’odissea della lancia IA463 nel Mar Rosso

L’odissea della lancia IA463 nel Mar Rosso

Varato il 1° maggio 1927, il Cacciatorpediniere Manin, assieme ai gemelli, SauroBattisti e Nullo, faceva parte della III Squadriglia Cacciatorpediniere, dislocata nel Mar Rosso e con base a Massaua. Quando, dopo l’entrata in guerra dell’Italia e le alterne vicende belliche in Africa Orientale, quando si approssimò la fine dell’impero coloniale voluto e creato da Benito Mussolini, anche la Regia Marina fu costretta a prendere una difficile decisione: per quelle unità dotate di scarsa autonomia, e incapaci di raggiungere porti amici o neutrali, fu ordinato di compiere una missione suicida o, in alternativa, autoaffondarsi. I sei cacciatorpediniere italiani (oltre ai tre della III Squadriglia, erano presenti anche il Tigre, il Leone e il Pantera, della V Squadriglia) furono così dirottati verso Port Sudan e Suez, due tra le più difese basi inglesi, contro le quali avrebbero riversato tutto il fuoco disponibile prima di autoaffondarsi. Con il Leone fuori combattimento a causa di un incendio a bordo, le restanti cinque unità furono dirottate tutte verso Port Sudan: il 2 aprile 1941 iniziò l’attacco: poco dopo essere salpate, il Battisti dovette autoaffondarsi per un’avaria ai motori. All’alba del giorno dopo, una formazione di circa settanta tra bombardieri Bristol Blenheim e aerosiluranti Fairey Swordfish attaccarono il gruppo navale italiano.
Il Sottotenente di Vascello Fabio Gnetti, ufficiale del Manin, così ricorda quello scontro: “Il Sauro salta per aria, distrutto in pochi secondi, da una bomba d’aereo inglese sparendo nella vampa dello scoppio del deposito di munizioni prodiero. La sola prua svetta verso il cielo nell’immane deflagrazione che causa anche la perdita dell’aereo nemico, per ripiombare indietro e sparire, lasciando in superficie pochi relitti e qualche naufrago. Gli altri due Caccia, Tigre e Pantera, riescono a raggiungere la costa araba ed autoaffondarsi dopo diverse peripezie”. A questo punto, soltanto il Manin resisteva: riuscì a manovrare sotto i furiosi attacchi della RAF inglese per oltre due ore, prima di essere colpito da due bombe da oltre 400 kg che lo immobilizzarono. Solo allora venne ordinato di abbandonare l’unità e di autoaffondarla: nel tentativo rimasero uccisi il Comandante in Seconda, Tenente di Vascello Armando Crisciani, il Direttore di Macchina, Capitano del Genio Navale Rodolfo Batagelj, e il Sottocapo Silurista Ulderico Sacchetto. Fabio Gnetti, assieme ad una quarantina di uomini, presero posto sulla lancia contrassegnata IA463.
Gli uomini furono così protagonisti di una lunga odissea nel Mar Rosso, fino al 10 aprile 1941, quando riuscirono ad approdare sulle coste dell’Arabia Saudita. Ma in quella settimana di mare, molte furono le sofferenze e i patimenti sofferti dall’equipaggio: costretti a razionare cibo e acqua, tre di loro non sopravvissero al caldo, alle fatiche che il naufragio comportava e alle ferite riportate durante l’attacco aereo inglese. I Sottocapi Alberto Ferraro e Tullio Crivellaro e l’Ascaro Mohamed Adum, furono gli uomini che non resistettero alla traversata: ricevuti gli onori militari da parte del Sottotenente di Vascello Fabio Gnetti e dei suoi uomini, i loro corpi furono calati in mare e affidati ai flutti secondo le più antiche tradizioni marinaresche. E’ sempre il giovane ufficiale Gnetti a ricordare quei drammatici giorni nelle sue memorie: “Non possediamo né bussola né altri strumenti nautici. Ci dirigiamo di giorno col sole, di notte ci orizzontiamo con la luna e le stelle, ma il cielo è spesso ricoperto di nubi che ci impediscono la vista di una qualsiasi costellazione”. La traversata del Mar Rosso ebbe termine il 10 aprile 1941, quando la lancia IA463 approdò sulle coste meridionali dell’Arabia Saudita: i marinai italiani furono presi in consegna da una tribù araba, per poi essere consegnati agli Inglesi e tenuti prigionieri per i successivi due anni. Il 21 marzo 1943, infatti, avvenne uno scambio di prigionieri tra Italiani e Inglesi: recuperati dalla Nave Ospedale Gradisca, Fabio Gnetti e i suoi uomini raggiunsero il porto di Bari il 27 marzo successivo.