“Con l’arrivo del caldo e la fine delle piogge primaverili, l’epidemia si era attenuata e il virus indebolito. In tutta la Serbia, gli infetti erano ora meno di centomila e i morti solo un migliaio al giorno; a questi però bisognava aggiungere i casi della terribile cancrena post tifoide. Febbraio doveva essere stato un mese tremendo, con centinaia di moribondi e deliranti abbandonati nel fango delle strade per carenza di ospedali”. Chi scrive è John Reed, giornalista americano che, tra il 1914 il 1915, venne inviato in Europa a documentare quella Grande Guerra iniziata con due colpi di pistola nella calda estate del giugno 1914 tra le strade di Sarajevo. E quello che vide, iniziando il suo reportage tra le strade di Salonicco per giungere in Serbia, fu qualcosa di ben più subdolo di una raffica di mitragliatrice, qualcosa di ben più mortale di un colpo di cannone, qualcosa di più letale di una ferita di una baionetta. Era un qualcosa che colpiva indistintamente militari e civili, chi era sulla prima linea del fronte e chi stava a casa, ricchi e poveri. Ciò che Reed si apprestava a documentare era un’epidemia, che stava devastando non solo l’Esercito Serbo ma anche la popolazione civile, con folle ammassate per le strade coperte di stracci, cadaveri insepolti abbandonati agli angoli delle vie e medici e infermieri del tutto impotenti di fronte a tanto orrore. Quando scrisse La guerra nell’Europa Orientale i morti accertati furono oltre centomila: e a portarlo nella piccola Serbia molto probabilmente furono i soldati dell’Impero Austro-Ungarico giunti dalla Galizia che, fatti prigionieri e abbandonati dai loro comandi, si ritrovarono improvvisamente nella mani delle autorità serbe, impreparate a gestire gli oltre sessantamila soldati di Vienna catturati.
Tutto partì quasi esclusivamente da un unico, grande, focolaio, individuato nella città di Valjevo, dove inizialmente vennero ammassati i prigionieri prima di essere smistati in altri campi per prigionieri: le autorità serbe, però, a causa anche della vicinanza del fronte e delle operazioni militari in corso, non posero la cittadina in quarantena. Scrive a tal proposito Milovan Pisarri nel volume Sul fronte balcanico: “I soldati si ritrovarono ammassati in grandi luoghi aperti o al chiuso, a stretto contatto tra di loro, in una condizione di promiscuità generale. Indeboliti, senza un adeguato sostentamento, i Serbi davano loro quello che potevano, e in precarie condizioni igieniche, senza servizi sanitari, senza giacigli e psicologicamente mortificati, questi prigionieri rappresentarono il terreno ideale per la diffusione dell’epidemia”. Ma il tifo, causato dai pidocchi che si annidavano tra gli indumenti logori e sporchi dei soldati, si diffuse ben presto non solo tra i prigionieri ma, letteralmente, in ogni angolo del Paese, provato non solo dalla guerra mondiale in corso, ma anche dalle guerre balcaniche che avevano avuto luogo nel biennio precedente al 1914. Ma non c’era solo il tifo a imperversare in Serbia, mietendo centinaia, se non migliaia, di vittime al giorno. Scrive ancora Reed: “Vaiolo, scarlattina e difterite si propagavano lungo le grandi vie di comunicazione raggiungendo anche i villaggi più sperduti. Era già apparso il colera che, con l’arrivo dell’estate, si sarebbe certamente diffuso in quelle terre devastate. Dai campi di battaglia, dai villaggi e dalle strade si alzava il fetore dei corpi malamente sotterrati e i corsi d’acqua erano contaminati da cadaveri di uomini e cavalli”. Dei circa 350 medici presenti in Serbia allo scoppio delle ostilità con l’Austria-Ungheria, una buona parte di loro venne reclutata per le esigenze belliche e inviata al fronte o nelle retrovie al seguito delle truppe: con il risultato che tantissimi troveranno la morte sotto un bombardamento o in fondo ad una trincea.
Ben presto la lotta all’epidemia divenne una lotta per la sopravvivenza di un’intero popolo e di una Nazione intera. Per prima cosa, tra i prigionieri austriaci, furono arruolati medici e infermieri che potessero prendersi cura degli ammalati, anche se la penuria di medicinali restò un serio problema. Una prima soluzione, poi, fu risolta con l’assunzione di medici stranieri, che giunsero prevalentemente da Russia e Francia: furono organizzate vere e proprie missioni internazionali di soccorso, che videro impegnate centinaia di medici, chirurghi e infermiere volontarie, che rivolsero il loro aiuto sia ai militari che alla popolazione civile, che si riversava per le strade abbandonata a sé stessa. Il contenimento dell’epidemia iniziò lentamente a funzionare, mentre le norme igieniche che via via venivano imposte rallentarono il contagio, anche se con molta difficoltà: nel marzo 1915 il tifo sembrava che stesse per dilagare anche al di fuori dei confini e il Governo di Belgrado fu costretto ad adottare misure ancora più restrittive, come il divieto per i soldati di tornare a casa durante i periodi di licenza. Tra marzo e aprile vi fu il picco maggiore, con un numero di contagiati giornalieri che sfiorava i novemila casi, causati soprattutto dall’insepoltura dei morti. Continua Pisarri: quando venne definitivamente sconfitto, il tifo aveva causato in sei mesi 150.000 morti, tanto che nel periodo peggiore dell’epidemia “arrivavano negli ospedali militari anche 2500 ammalati al giorno, mentre il numero di casi di contagio riportati tra i civili era allora almeno di tre volte superiore. La mortalità, a seconda dei luoghi e delle condizioni, variava dal 30 al 60%, con picchi del 70%; metà dei 60.000 prigionieri austro-ungheresi morirono per il tifo. La mortalità toccò i livelli più alti laddove l’ambiente era più malsano e la gente più povera e indebolita; a Djevdjelija, dove vivevano 7000 persone, molte delle quali in condizioni di povertà, pare che prima che il tifo si placasse morì ben il 75% della popolazione”. La fine della guerra era ancora lontana. Quando, nel novembre 1918, le armi tacquero su tutti i fronti di battaglia, quasi 970.000 furono le vittime in Serbia: seicentomila erano civili, molti dei quali ascrivibili più alle “cause collaterali” della guerra, come carestie e le epidemie, che al conflitto stesso.