L’eccidio di Schio

La provincia di Vincenza fu, negli ultimi mesi di guerra, una delle più martoriate dalla guerra civile, essendo alla fine del conflitto luogo di raccolta delle truppe tedesche in ritirata, snodo principale verso la pianura veneta e importante centro viario. E, come sempre accade, a pagarne le spese furono in maggioranza gli abitanti che niente avevano a che fare con alcuno degli schieramenti in lotta, fino all’ultimo sangue. Se, come scrisse Giorgio Pisanò sangue chiama sangue, i Vicentini, forse più di chiunque altro, ne pagarono lo scotto: dal cielo piovevano le bombe di Inglesi e Americani, mentre tutto intorno era un rogo e, trovarsi in un determinato luogo dopo qualche azione compiuta dalle forze partigiane, equivaleva a morte certa, rischiando di incappare nelle pattuglie di rastrellamento delle forze tedesche e italiane della Repubblica Sociale. Libri di inchiostro sono stati scritti sulla vera utilità di attuare, negli ultimi mesi del 1945, attacchi “mordi e fuggi” contro un esercito in ritirata e sconfitto, a cui facevano seguito, seguendo una prassi ormai consolidata, rappresaglie e fucilazioni. Come quelle che avvennero il 30 aprile 1945, nelle frazioni di Forni e Pedescala, nella Valdastico. Qui, infatti, i partigiani attaccarono due colonne tedesche in ritirata, scatenando, come era prevedibile, la ferocia tedesca: in tutto, 82 morti. Come ricorda anche Giampaolo Pansa nel suo Il sangue dei vinti, molti abitanti della zona “non hanno perdonato ai partigiani di aver assalito la colonna tedesca senza pensare alle conseguenze sui civili. E’ stato coniato uno slogan tremendo, contro le formazioni della zona: spararono e poi sparirono”.

Carcere di Schio - 1945A Schio, durante le fasi più acute della guerra civile, era attiva la Divisione Garibaldi Ateo Geremi, di estrazione prevalentemente comunista: a guerra terminata, su ordine delle autorità militari alleate (tra l’altro già preoccupate di una possibile avanzata delle sinistre in Italia) venne dato l’ordine di smobilitare il grosso delle formazioni partigiane, nonché di consegnare qualsiasi tipo di arma. In molti risposero all’appello, ma diversi gruppi decisero di non rispettare le disposizioni ricevute, speranzosi, una volta cacciati Fascisti e Tedeschi di continuare la lotta per la creazione di una Italia comunista. Così, iniziata una “caccia alle streghe”, nel carcere di Via Baratto cominciarono ad essere rinchiusi tanti fascisti o presunti tali, vittime più che altro di spiate anonime, scaturite più da vecchi rancori personali che da veri motivi politici e militari. Infatti, nelle giornate tra il 27 e il 28 giugno 1945, il responsabile della autorità alleate a Schio, Capitano Stephen Chambers, diramò un appello secondo il quale qualsiasi detenuto, incarcerato senza prove circostanziate, dopo cinque giorni di detenzione (senza che fosse stata provata la sua collusione con i Tedeschi e i Fascisti) sarebbe stato liberato. Seguirono proteste e cortei a fatica placati dalle autorità di sicurezza: la follia collettiva, però, esplose nella notte tra il 6 e il 7 luglio. Un reparto di partigiani, comandato da Igino Piva e Valentino Bortoloso, irruppe nel carcere, con il chiaro intento di fucilare sommariamente chiunque fosse capitato a tiro. Senza tenere conto di chi fossero gli arrestati (molti di loro, infatti, erano in attesa di essere scarcerati in quanto decadute ogni tipo di accuse mosse nei loro confronti), dopo poco più di un’ora furono premuti i grilletti: sotto il fuoco di mitragliatrici e fucili, rimasero uccise 54 persone e e ne furono ferite molte altre.

L’eco della strage ebbe risonanza non solo nazionale; le autorità alleate imposero un’inchiesta, conclusasi solo nel 1952, dalla quale emerse che solo ventisette persone (tra gli uccisi) erano in qualche modo collusi con il passato regime fascista e a diversi gradi: si andava da chi possedeva solo la tessera del Partito Fascista Repubblicano per accedere alle distribuzioni di generi alimentari a chi prestava servizio nelle forze armate, fino a chi fu solo spettatore della guerra. Da sottolineare, cosa assolutamente eccezionale se paragonata con altre esecuzioni sommarie accadute nei mesi successivi all’aprile 1945, anche il Partito Comunista Italiano e la Camera del Lavoro (l’odierno sindacato della CGIL) condannarono aspramente l’accaduto. Tutti gli autori della strage, identificati quasi subito, fuggirono in Jugoslavia, tranne cinque che vennero condannati, nel processo militare alleato all’ergastolo (due di loro furono condannati a morte, ma le sentenze non vennero eseguite), anche se scontarono tra i 10 e i 12 anni di carcere. In seguito ad altri due processi delle autorità italiane, furono individuati altri responsabili, dove vennero emesse altre otto condanne all’ergastolo, di cui solo una eseguita, in quanto gli altri imputati si erano ormai rifugiati nell’Europa dell’Est. Ma se assurda è la guerra civile, la peggiore che possa insanguinare una Nazione, assurdo fu il destino degli uccisi di Schio. E’ sempre Giampaolo Pansa che ricorda alcune loro storie: “fra gli uccisi c’era anche una casalinga di 68 anni, Elisa Stella. Aveva affittato un alloggio a un tizio che, dopo un po’, si era rifiutato di pagarle l’affitto. Alle proteste della padrona di casa, l’inquilino moroso, nel frattempo diventato partigiano, pensò bene di denunciarla come pericolosa fascista. La donna fu arrestata, rinchiusa nel carcere di Via Baratto e qui finì nel mucchio dei trucidati il 6 luglio”.