Il 19 agosto 1944 le SS del 16° battaglione, comandate da Walter Reder, trucidarono 53 uomini nella frazione di Bardine e 107 civili nel paese di San Terenzo Monti, in Lunigiana. Roberto Oligeri, vice-presidente del comitato dei familiari delle vittime, ci racconta gli antefatti, le dinamiche, i retroscena dell’eccidio, compreso il lugubre “pranzo della morte” che suo padre, proprietario dell’unica osteria del paese, fu costretto quel giorno a servire al maggiore Reder e ai suoi aiutanti, mentre essi pianificavano la strage.
- Qual è il tuo rapporto con la strage?
Il mio rapporto con la strage è costituito dalla prima famiglia di mio padre, la prima moglie e i suoi primi cinque figli, tre femmine e due maschi. La bambina più piccola aveva tre anni nel ‘44 e la più grande ne aveva 19. Dopoguerra si è risposato, prima è nato mio fratello e poi sono nato io. Siamo nati in questa casa che nel frattempo era diventata un piccolo museo, nel senso che in più parti della casa c’erano le foto della prima famiglia, soprattutto dei figli.
- Furono uccisi tutti nella strage?
Sì sì, tutti. Anche la suocera, che però non abitava con loro. Lui si è ritrovato solo al mondo con il fratello che viveva in casa sua.
- E lui come mai è scampato?
E’ scampato perché era il titolare, oltre che di un esercizio commerciale, dove si andava dai prodotti alimentari (quelli che potevano essere all’epoca) alla macelleria, ai prodotti per l’agricoltura). Soprattutto era l’esercente dell’unica trattoria del paese che era situata al primo piano dell’edificio, mentre l’attività di cui ho parlato poco fa era a piano terra.
Gli antefatti della strage
Il massacro avvenne a seguito di un attacco partigiano avvenuto un paio di chilometri da qua, nella frazione del Bardine, che comunque faceva parte del nostro paese, San Terenzo Monti, solita parrocchia, solito parroco. In questo attacco partigiano furono uccisi sedici SS del comando acquartierato presso il castello Malaspina di Fosdinovo. In questo attacco solo due Tedeschi riuscirono a fuggire e a tornare al comando, gli altri furono tutti uccisi in questo attacco che vide anche la morte di un giovane partigiano e il ferimento di altri due dei resistenti, chiamiamoli così questi attaccanti. E’ stato chiesto il loro intervento da parte di un gruppo di persone di Bardine. Erano acquartierati a Viano, che è un paesino sopra Monzone, in alto, sempre nel comune di Fivizzano. Era la formazione Ulivi della brigata Muccini e per la maggior parte era un gruppo di partigiani di Carrara. La magistratura militare nel ‘51 non ha parlato di agguato ma di uno scontro aperto e tale è stato in pieno giorno. Testimonianze precise dell’epoca, rilasciate all’autorità giudiziaria nell’immediato dopoguerra, parlano di uno scontro che è durato non meno di due ore e mezzo. L’attacco, che è avvenuto al ponte della frazione di Bardine, è stato richiesto da un gruppo di paesani.
Le SS di Fosdinovo erano comandate da un ufficiale, il tenente Albert Fischer, criminale di guerra anche lui, si era distinto in atrocità verso gli abitanti di tanti paesi in Ucraina e di altre zone. Il passatempo di questa gente era, al di là di controllare e catturare i partigiani nostri, era quello di arrivare nei paesi vicino Fosdinovo, tra i quali il nostro, e portare via il bestiame, la razzìa quotidiana dei nostri paesi. Quel poco che c’era, soprattutto il bestiame, serviva come motore animale, era essenziale per la vita. La mucca, il vitello, il latte per fare il formaggio. La nostra gente di cosa è vissuta? E’ vissuta di latte dei propri animali finché li aveva, e di farina di castagne.
- I partigiani erano quindi stati chiamati a causa di una delle tante razzie?
Il discorso è un pochino lungo. Era venuti almeno due o tre volte nella settimana precedente la strage. Appena arrivavano veniva interpellato immediatamente il parroco, Don Michele Rabino. Lui correva appena sapeva che era arrivato un plotone o una squadra di queste SS di Fosdinovo e andava a tirare per la giacca un signore che era sfollato con la famiglia da La Spezia. Molti erano gli sfollati dalla costa perché lì c’erano i bombardamenti alleati, soprattutto su La Spezia, da sempre sede di un importante arsenale militare. Anche qui nella nostra strage sono morte diverse persone di La Spezia, o comunque della provincia di La Spezia. Questo signore, questo Gastone Novelli, conosceva il tedesco. L’ultima discussione che Don Michele Rabino, il parroco di San Terenzo, poté intavolare con le SS di Fosdinovo fu il 14 di agosto. Il drappello dei Tedeschi disse: “Abbiamo capito che voi in questo momento non potete darci nulla, allora noi torniamo il giorno 17 (cioè dopo tre giorni) e andiamo nel paese di sotto, Bardine.” Addirittura, per non perdere tempo, lasciarono una lista di quello che volevano. Don Michele Rabino non era, come poi fu accusato dai nazisti, il capo dei partigiani, ma posso dire, grazie a delle confidenze fatte a mia madre, che era assolutamente un antifascista.
La prima cosa che fece fu andare ad avvisare i parrocchiani a Bardine. Ci sono stati dei malumori portati avanti da un certo numero di abitanti di laggiù, anche comprensibili. Il parroco, Don Michele Rabino, non ha pensato minimamente che qualcuno di loro nottetempo ha deciso di dire “no, io non ci sto”. Hanno preso le gambe in spalla, come si suol dire, sapevano che a Viano si trovava questa formazione partigiana, anche perché vi si trovava qualcuno di queste parti. Sono andati lassù e c’è stato un ampio dibattito anche provocatorio. Non puoi neanche condannare delle persone che si vedevano privare di tutto anche perché poi i nomi non sono mai stati fatti ufficialmente. Risulta che questo gruppetto di Bardine andò per ben tre volte a sollecitare questo attacco. Non ne volevano sapere i partigiani perché gli avevano detto: “Guardate che dopo succede un disastro, si rivarranno contro la popolazione, dovrete poi scappare…” Ci fu da parte di queste donne un’insistenza particolare che giunse a pungerli dentro dicendo: “Va beh, allora siete anche voi come i Tedeschi, quando avete fame venite a chiedercene a noi… Ci portano via questi, poi a voi di no non vi si può dire perché siete “nostri figli” … Questi portano via tutto e voi siete quassù a bighellonare…”
Misero alla votazione l’attacco e vinse a stragrande maggioranza la fazione degli interventisti. Gli dissero: “Andate in paese e sappiate che dovete scappare, perché ci sarà una reazione.”
E’ un attacco che non sarebbe stato possibile effettuare se gli Alleati non avessero rifornito di armi automatiche con dei lanci. E quando i Tedeschi sono venuti già nel pomeriggio a Bardine a prendere i loro morti, gli abitanti di Bardine, tranne due o tre, tra cui un paio di vecchi, una donna anziana che non c’era già tanto con la testa, e che sono stati uccisi, gli abitanti di Bardine, a parte queste due o tre persone, non c’erano più e tanto meno c’erano due giorni dopo, il 19 quando è arrivato il battaglione Reder che ha rastrellato tutta la zona. Erano tutti nascosti lungo il torrente Bardinello dove ci sono tante caverne di tufo.
Naturalmente il paese qui non è stato avvisato, ma non in malafede, perché nessuno pensava… Sì, era avvenuto una settimana prima la strage di Sant’Anna di Stazzema ma qui non era arrivata la notizia. Mia madre me lo ha sempre detto. Si vociferava che i Tedeschi, in virtù di quel famoso proclama Kesserling, avrebbero ucciso la gente là dove i propri soldati fossero stati oggetto di attacchi partigiani, però non era arrivata la notizia di Sant’Anna di Stazzema. La gente di qui non si era resa conto e soprattutto la parola d’ordine era: “San Terenzo non c’entra nulla con Bardine. I partigiani per la maggior parte sono di Carrara. Noi non abbiamo fatto nulla. Come dire: male non fare, paura non avere.” Non si erano resi conto con chi avevano in realtà a che fare.
L’eccidio di Bardine
Arriviamo al giorno 19. I soldati del battaglione Reder si erano portati dietro su dei camion cinquantatre uomini, quasi tutti giovani, che erano stati rastrellati giusto la settimana prima durante l’operazione culminata con la strage di Sant’Anna di Stazzema. Venivano quindi dalla zona di Pietrasanta, dell’Alta Versilia. E sono stati impiccati proprio lì al ponte. Erano molto rituali queste SS anche quando facevano queste carneficine. Come dire: “qui sono stati uccisi i nostri camerati e, per insegnare alla gente di qua che nessun soldato tedesco può essere impunemente assassinato o aggredito, qui nel luogo dove sono stati assassinati i nostri camerati, lì noi facciamo fuori questi nostri ostaggi.” E li misero impiccati ai pali e a certe piante della strada da un lato e dall’altro, in modo che poi i sopravvissuti, siccome c’era solo quella strada (a Bardine la strada finiva, la gente aveva solo quella), la gente era costretta a transitare in mezzo a queste due file. Qui abbiamo delle foto.
Fra l’altro lasciarono un cartello, scritto in perfetto italiano, che diceva: “ Questa è la risposta che i Tedeschi danno per l’attacco subito dai loro camerati a Bardine. Chiunque sarà sorpreso a dare sepoltura a questi morti, farà la solita fine.”
Rimasero appesi, con un caldo torrido, per tre giorni. Un giovane (all’epoca, ora deceduto), il professore Almo Baracchini di Carrara, sfollato al paesino di Posterla, fu il primo, avrà avuto una ventina d’anni, a staccare da questi pali, ai quali erano stati impiccati, i primi cadaveri. Poi venne la guardia comunale con dei bidoni di disinfettante.
So di Almo Baracchini che solo lui da solo ne staccò ventisette di questi corpi e vennero sepolti in una fossa comune nella prima piana utile a pochi passi da dove erano impiccati.
L’eccidio in località Valla di San Terenzo
L’uccisione avvenne nel primo pomeriggio del 19. In contemporanea con l’uccisione di 107 persone, quasi tutti vecchi, donne e bambini, alla fattoria di Valla, dove dalla prima mattina questa parte più indifesa del paese era stata presa in ostaggio in attesa di ordini superiori.
Cerchiamo di immaginare agli occhi di questa nostra povera gente dell’epoca, contadini molto semplici, la maggior parte analfabeti, vedere questa gente vestita in quella maniera, con l’elmetto con sopra il teschio con le ossa incrociate, le mimetiche con dietro delle reticelle. Qualcosa di particolare. Anche per i vecchi che avevano fatto la prima guerra mondiale era qualcosa di inquietante vedere questi soldati vestiti in quella maniera, con a tracolla i nastri di pallottole per le mitragliatrici, bombe a mano infilate ovunque, il pugnale portato negli stivali. Era qualche cosa che terrorizzava.
Sicuramente avevano già individuato che lì c’era un grosso numero di persone perché la fattoria di Valla, dove è avvenuta questa strage, è proprio di rimpetto al paese di Canova dove era un comando di sottufficiali delle SS. Quindi è dato per scontato che loro li avessero già visti. Si riusciva infatti a vedere oltre cento persone, bambini che saltavano, brigavano, eccetera. Poi loro avevano dei binocoli non da poco questi militari. Quindi avevano già individuato quali erano le vittime sacrificali perché non possono essere capitati a caso lì, sono andati a colpo sicuro.
E immediatamente li hanno tutti bloccati dalla prima mattina. E in più avevano preso qui, quasi tutte donne, tra cui mia madre, qui dietro, nella fattoria della chiesa. Mia madre insieme ad una ventina di donne le avevano tenuta chiusa qui proprio in attesa di questa contabilità macabra di uno a dieci. Si comunicavano tra di loro con staffette a piedi, staffette in moto e poi con i telefoni da campo.
Hanno trovato il numero tra quelli che erano riusciti a prendere là, poi qualcuno che nel frattempo era capitato e lo avevano bloccato, e quelli laggiù sono arrivati al numero preciso di centosessanta.
Mio padre non voleva che la famiglia andasse via il giorno avanti. Voleva che restassero in casa. “Se dobbian morire, moriamo tutti qua.” Lui vedeva la protezione nelle mura di casa. La moglie (questa è una cosa che conosco da tanti anni) diceva: “e se danno fuoco alla casa?” I figli (che erano tutti giovani) dicevano: “E ma là c’è andato anche… c’è andato anche …” gli amici, gli amichetti. Allora lui ha fatto buon viso a cattivo gioco anche perché mai avrebbero pensato una crudeltà del genere. Nella mente di una persona normale, di un padre di famiglia normale, il fatto che dei militari potessero arrivare a tanto non era proprio assolutamente contemplato. La famiglia andò in Valla e venne uccisa insieme agli altri.
Loro erano già là dal pomeriggio del 18 e mio padre era dovuto rimanere. Tra l’altro mio zio stava male, aveva la febbre alta. Aveva dei problemi di salute che lo hanno accompagnato fino alla fine dei suoi giorni ed era a letto con la febbre alta di Agosto. Doveva comunque tirare avanti questa attività commerciale. Non che ci andassero dei clienti, perché erano quasi tutti scappati, però per dare un punto di riferimento, un servizio. Un pezzo di pane… i fiammiferi… per qualche paesano. E poi anche perché tutti i loro averi erano concentrati lì dentro.
Quando vede arrivare tutta questa masnada di persone, vestiti e soprattutto armati in quella maniera, lui immediatamente ha percepito questo grande pericolo che stava per abbattersi. Ha detto: “per prima cosa, chiudo l’esercizio commerciale.”
Arrivano gli ufficiali, che sicuramente si erano informati, dov’era, anche se era stata chiusa, l’osteria. Il maggiore Reder, quando c’erano questi rastrellamenti, non è che andasse a sporcarsi le mani in prima persona. Da va gli ordini e decideva tutto “con i piedi sotto il tavolino”, come si dice dalle nostre parti. Dava ordini di sterminio durante la gozzoviglia, bevendo e mangiando.
Il maggiore Walter Reder era un nazista della prima ora di origine austriaca, un fanatico della prima ora. Tra l’altro andò volontario tra le SS. Nella campagna di Russia perse l’avambraccio sinistro, tant’è che si chiamava il monco. Nato per la guerra, un uomo sanguinario. Chiese espressamente di andare in prima linea. “Io non ho problemi per il braccio sinistro. C’ho il destro e sparo. Vado dove il Reich ha più bisogno di me e dei miei soldati.” Una vita veramente dedicata alla morte… degli altri. Lui aveva il comando della piazza in questa zona qua. Era l’ufficiale con il grado più elevato quando è venuto qua.
E quindi mio padre chiuse ma dopo un po’ vengono, non con l’arma in pugno, ma “con la maniera con cui mi hanno contattato, c’era poco da discutere.” Ha dovuto riaprire e vennero a fare una merenda, uno spuntino. Mio padre ha davo fondo alle riserva. Vino bianco era di un’annata buona. Naturalmente vino di qua. Quindi vino bianco amabile, poi questo vermut e poi salami che aveva, il pane che aveva, che già il pane all’epoca era un lusso.
Il pranzo della morte
Prima di andarsene Reder stesso, con questi suoi due occhi proprio gelidi, ordinò per il pranzo di mezzogiorno. Disse: “Noi veniamo qui a mezzogiorno a pranzo: almeno un pollo arrosto a testa.” Mio padre ha dovuto fare altro che buon viso a cattivo gioco. Era lì in casa con la governante-cuoca-factotum, Adalgisa Terenzoni, che ha sempre fatto parte della nostra famiglia. Lei ha dovuto fare la cuoca per questo che noi chiamiamo “pranzo della morte” del 19 agosto presso la trattoria di Mario Oligeri dove è stato imbandito questo banchetto per il maggiore Reder e i suoi sei ufficiali subalterni.
L’eccidio è stato pianificato durante la gozzoviglia, questo pranzo fatto di ravioli al sugo, al ragù (che si mangiavano per Natale nelle famiglie benestanti), polli arrosto, patate fritte, insalata, bevendo vino rosso e anche vino bianco. Tutta questa gentaglia è venuta puntuale a mangiare per il desinare.
Mio padre nel frattempo ha chiamato una ragazza che aveva vent’anni: Tonella Emma, è morta due anni fa. Anche lei veniva da una famiglia di umili origini, il padre era mezzadro, la madre era morta quando loro erano ancora piccole, erano sette sorelle, quindi il padre non ce n’aveva da buttar via. Lui l’ha chiamata per aiutare a servire a tavola. La chiamava altre volte. E’ stata un grande testimone. Fra l’altro ha testimoniato nel giugno 2009 (se non vado errato) in teleconferenza nella caserma dei Carabinieri di Massa (perché non se la sentiva di venire a Roma). La Emma tra l’altro ha anche riconosciuto sull’unica foto che siamo riusciti a rintracciare di Paul Alberts, il famoso sottotenente ufficiale di Walter Reder che aveva ventiquattro anni all’epoca. Aveva sempre raccontato (e queste cose le aveva dette giustamente anche al tribunale) che questo giovane soldato (lei naturalmente non conosceva i gradi), che sedeva al tavolino della nostra sala a fianco di Reder (era il suo ufficiale aiutante), tutte le volte che lei portava i vassoi con le portate dalla cucina a là, lui mangiava seduto con la machine pistole, la mitraglietta portatile un po’ sul tavolo, in parte sulle gambe, e ogni volta che lei arrivava per portare le vivande, vassoi con carne, pastasciutta, eccetera, lui gliela puntava contro mimando una raffica. Le diceva: “Signorina!” e mimava una raffica (lei lo sapeva fare bene, poveraccia) “Signorina kaputt!” Ma non ridendo! Immaginiamoci questa povera ragazza con che stato d’animo … poi con certe facce…
Se a lei era riservato questo ogni volta che andava là, non era riservata una sorte migliore a quella povera disgraziata della cuoca perché in casa, di sotto e nelle altre sale, siccome gli ufficiali volevano mangiare con la massima tranquillità, c’era un nutrito gruppo di soldati che stavano e di sotto sulla strada, e di sopra tra l’entrata della trattoria e l’altra sala e si alternavano andando anche nella cucina dove questa disgraziata di Adalgisa Terenzoni doveva cucinare. E quindi si divertivano o a puntargli di fronte la pistola mentre cucinava, o il fucile, o si toglievano le bombe a mano, quelle bombe tipo ananas. A quell’epoca cucinavano con i fornelli a fuoco vivo (sai quei fornelli con la carbonella?). Facevano finta di buttare le bombe a mano nel fuoco.
Queste sono cose che io ho dovuto imparare a memoria durante la mia fanciullezza. E mio padre si alternava. “Sentite un po’ questo vino…” Cosa doveva fare questo uomo da solo? Era un uomo molto di azione, aveva una forza non da poco perché era anche macellaio. Se non avesse avuto tutta la sua gente là come scorta e poi non sapeva cosa succedeva, “io me li buttavo tutti giù uno per uno dalla finestra, oramai benzinati com’erano dal vino, uno alla volta me li buttavo giù dalla finestra!” Poi ad un certo punto quando ha visto questa Emma Tonelli che veniva molestata pesantemente soprattutto da questo Alberts che era su di giri per il vino ingurgitato, le ha detto: “Tu vai di là dall’Adalgisa e non mettere più piede qua dentro. Ci penso io a portare le portate.” Oramai eravamo sul finire del pranzo. Poi dopo, quando ha potuto, l’ha proprio mandata a casa. Le ha detto: “Chiuditi a casa.”
La cosa importante era che, durante il pranzo, arrivavano delle staffette che porgevano al comandante dei fogli. C’erano dei numeri annotati però mio padre né capiva il tedesco né riusciva a capire. C’erano delle discussioni animate fra di loro, tra questo Reder e gli ufficiali che aveva intorno. Si è scoperto poi più tardi, a massacro avvenuto, che cosa erano questi numeri, che cosa significava questo andirivieni di queste staffette e soprattutto il significato di questi numeri. Specialmente l’ultima volta che è venuta la staffetta significava che in Valla, il luogo del massacro, e chiaramente anche giù in Bardine, si era arrivati al numero 160 da uccidere. Una contabilità macabra della decimazione voluta dai Tedeschi.
Mio padre vide firmare questo ultimo foglio. Ha dato un’occhiata, ha fatto una specie di somma, ma era, ripeto, assolutamente all’oscuro del significato di questi gesti, di questi “conti”, chiamiamoli così.
Tracannando vino, vermut, mangiano poli arrosto e quant’altro di meglio c’era per quell’epoca, si è pianificato lo sterminio di centosessanta civili innocenti. Fatto questo la staffetta parte con l’ordine di sterminio. Si è sentito questa lunga raffica provenire da Valla, soprattutto nei paesi di fronte, però nessuno immaginava …
Comunque Reder se n’è andato con i suoi ufficiali. Naturalmente nessuno ha adombrato la necessità di chiedere il conto perché “tutto era dovuto a loro”. Loro se ne sono andati. I soldati che erano di guardia a loro, usciti gli ufficiali, sono scesi nel negozio di alimentari, di là c’era il macello, hanno rubato tutto quello che potevano portar via. Hanno distrutto quello che non riuscivano a prendere, hanno appiccato il fuoco ai mobili di legno del negozio e poi se ne sono andati.
La scoperta del massacro
Un paio di ore più tardi, veniva sera, vede i figli che non tornano, si incammina verso Valla e incominciava ad incontrare qualcuno che gli urlava che non doveva andare a Valla, eccetera. Sono quelle situazioni di pathos. Quando è arrivato là ha trovato questa apocalisse. Tra questo carnaio ha rinvenuto anche i cadaveri della moglie e dei figli. Tra l’altro si parla di “carnaio” perché sparare ad una distanza ravvicinata con la mitragliatrice MG che aveva un tiro di almeno un paio di chilometri. Loro hanno sparato ad una distanza di dieci/quindici metri.
- Le mitragliatrici erano coperte?
Le copersero con la paglia presa dalla stalla della fattoria. Per timore che scappasse detto: “Ma sono mitragliatrici!” Capisci, oltre cento persone, donne e bambini, come facevano se poi si sparpagliavano. Dove li hanno uccisi erano tutti terreni, coltivi puliti, ma dall’altra parte della fattoria è tutto bosco.
A distanza così ravvicinata vi potete immaginare che cosa è accaduto dei corpi di queste persone.
La memoria non condivisa nel paese
- Una cosa che ti volevo chiedere come il paese aveva letto questa cosa. Ho sentito che qualcuno ancora dice che se non fossero stati chiamati i partigiani…
Sono cresciuto in una atmosfera…, non tanto i miei che mi hanno sempre detto che gli assassini erano i Tedeschi. Naturalmente non mi era mai stato nascosto in famiglia che la causa specifica della strage di San Terenzo era stata determinata da questo attacco partigiano. Però nell’opinione diffusa nel paese, alla quale dovevamo attingere noi ragazzini mano mano che gli anni passavano e si cresceva, sembrava quasi che i Tedeschi fossero venuti io non dico a portare del bene, ma… Era quel periodo in cui si cominciava ad andare a Marinella o a Marina di Carrara e sul litorale arrivavano questi turisti tedeschi. Tu vedevi magari una persona anziana, molto gentile, silenziosa e riservata e si era assaliti da questo dubbio. Chi c’era avanti a noi, la generazione precendente dei genitori o degli anziani o dei nonni additava la responsabilità a questi partigiani che sembrava avessero avuto quasi la funzione di creare problemi dove non c’erano.
Poi man mano che crescevo, andavo a scuola, cominciava a scricchiolare questa verità quasi imposta. Quindi ho cominciato a rivedere in maniera molto più critica questa strana verità di cui non trovavo più le fondamenta. Non stava più in piedi quello che mi era stato raccontato.
Nel caso specifico nostro è stato certamente questo attacco a Bardine sferrato da questa formazione Ulivi a questo reparto delle SS della sedicesima divisione pionieri.
C’è da fare un bel passo indietro ma è sufficiente prima di tutto chiedersi per quale motivo questi giovani partigiani a casa loro erano costretti a nascondersi nei boschi.
- Il paese poi ha rivisto questa lettura diciamo “antipartigiana” o no? Ha fatto un po’ luce?
Per parecchi anni si è andati avanti così. Il dolore degli abitanti è stato cavalcato. Soprattutto hanno utilizzato il dolore della gente in modo da incunearlo all’interno di questa frattura in modo da lasciarla perenne. Parlo delle due parti: popolazione e movimento della Resistenza. E’ stata messa in atto un’operazione specifica proprio di contrapposizione che veniva sfruttata prima delle varie tornate elettorali che dal dopoguerra si sono succedute.