L’avanzata finale del novembre 1918 nelle parole del Sergente Ruggero Pieri
Quella che pubblichiamo oggi è una lettera scritta dal fronte il 18 novembre 1918, quando l’armistizio era stato già firmato e il Generale Armando Diaz aveva già letto il celebre Bollettino della Vittoria, il numero 1268 emanato dal Comando Supremo del Regio Esercito Italiano. L’autore della lettera fu il Sergente Maggiore Ruggero Pieri, di Fiesole, in provincia di Firenze: dalle paginette sottili di carta velina spedite alla sua amata Margherita Pestelli che aspettava il suo ritorno, emerge la realtà del conflitto, di come si comportarono gli Austriaci ormai in rotta nei confronti della popolazione civile che stava attendendo l’arrivo degli Italiani. Un lato del primo conflitto mondiale che raramente leggiamo nei libri, certamente sopraffatto dall’orrore che raggiungerà la guerra mondiale di trent’anni dopo. Resta un incredibile documento storico di grande valore, che a cento anni di distanza ci restituisce gli stati d’animo dei nostri fanti che guadavano il Piave, il Tagliamento, l’Isonzo e tanti altri fiumi del Veneto conteso a Vienna. Non resta che leggere questa lettera, e le altre centinaia di migliaia che furono spedite dal fronte, in doveroso e rispettoso silenzio, specialmente per coloro che nelle trincee o sui ghiacciai furono strappati alle loro care case lontane.
“Margherituccia, non ti ho scritto da due giorni e di certo penserai a male, ma però nemmeno io ho ricevuto, e ti scrivo lo stesso. Ti amo troppo ecco, sento troppo forte questa cosa, che i giorni sembrano anni e non vogliono passare. Domani andremo vicino a Cividale a pare che li ci fermeremo qualche tempo. Stasera ti farò un poco del seguito… Un poco poiché se ti dicessi tutto non cesserei più. Dunque.
Il Monticano reso famoso ormai per quei combattimenti non sembra all’aspetto terribile come risuona il suo nome, ma chi visse quell’ora del varco ne avrà un imperituro ricordo. Mitragliatrici nemiche appostate sugli alberi falciavano il parapetto uccidendo coloro che stoicamente guardavano, e nell’oscurità della notte i gemiti dei colpiti facea rabbrividire. Il 23° Fanteria avevamo davanti, noi in quel momento dovevamo seguirli. Sapevo che fra quelli vi era “Tranquillino”, voleo trovarlo, parlargli. Non riuscii. Dopo una scarica violenta della nostra artiglieria, dopo essere stati inchiodati li fino all’alba, finalmente il nemico battuto è costretto a fuggire; è un attimo, un urlo, e il fiume che da quasi dodici ore era un ostacolo insormontabile, viene passato a guado. L’acqua
non è alta, fredda però, ma chi ha fatto il Piave solo attaccato per una corda non può far paura il Monticano. Al di là 100 metri un gruppo di case, quasi del tutto intatte, vengon prese d’assalto, i borghesi ancora sono in casa, chiusi nelle loro stanze; urlano, vogliono uscire, voglion vedere i loro liberatori. Ne vedo diversi, sono smunti, sfiniti, sembrano scheletri: quanto devono aver sofferto questi infelici. Ci guardavano con un’aria di sorpresa, tremolanti parlano a monosillabi, piangevano dalla gioia, credono a un sogno e piagnucolando dicono: “Non sapevamo nulla, nemmeno ieri sera quando ci chiudevano non ci dissero nulla quei vigliacchi, ma ammazzateli tutti, tutti, tutti”. E quel “tutti” entrava nel cuore dei ruvidi fanti. Ne ho visti qualcuni di questi soldati piangere, ne ho visti altri dare tutto il suo pane per loro, e dire che era la razione che dopo cinque giorni ci era giunta. Ma il fante non si fermava, doveva inseguire il nemico che sbaragliato fuggiva e con nella visione quell’ossuta gente brancolante dalla fame digrignava i denti e giurava vendicarli.
Ormai sapevamo che il nemico era sconfitto e questa volta nell’impossibilità di ostacolarci il passo fino al Tagliamento. Fino a tal fiume non si sarebbe più combattuto, ma dovevamo corrergli dietro, essergli sempre alle calcagna per darle di rafforzarsi nemmeno li. Vi erano più di sessanta chilometri ma non importava, avevamo una meta: dovevamo raggiungerla. Stanchi non ci abbattevamo, la via era tracciata dai luridi avanzi di quell’esercito in rotta ed ogni tanto attraversavamo la borgata, il paesello liberati per sempre. Ne ho visti molti sputare in faccia ai prigionieri, ne ho visti altri di questi trafitti dai borghesi, e sempre instancabili avendo nella visione la fulgidità della vittoria inseguivamo. Siamo a Caneva, raggiungiamo il grosso del nemico, ancora non è sgombrato del tutto il paese, molta artiglieria dice che vi sia, dobbiamo accerchiarlo. Nella notte tutto è fatto e la mattina la fila grandiosa vien fatta proseguire per l’interno. Il fante è esultante; oltre Caneva vi è un monticello, Stevena: dice vi sia annidato dei prigionieri, l’ordine è di andarvi. Ci andiamo, il nemico fugge, sarà per un’altra volta. Scendiamo il giorno di poi, il paese di Stevena è in festa, non può suonare le campane perché le hanno tolte, andiamo innanzi. Attraversiamo sempre attraverso una folla esultante i paesi di Polcenigo, Goia, Castello d’Aviano, Villotta Aviano, Giais e Grizzo, ove facciamo la nuova tappa, e sempre i soliti “Evviva”, le solite benedizioni, le solite imprecazioni, e il fante proseguiva ancora e nelle orecchie gli si ripeteva le parole: “Tutto ci stanno portando via, perfino le camicie, le mutande, nulla ci hanno lasciato”. In un posto ci vien detto che hanno reso incinta tante giovani e poi gli hanno ucciso il marito. Ecco quel nemico che avanti a noi fuggiva. Continuerò domani. Saluti cari e tanti a tutti. Ma tu scrivimi per pietà, non esser cattiva. Bacioni a milioni, tuo tutto ora e sempre Ruggero”.