L’attacco, l’incapacità di resistere, le fughe. Cronaca della grande sconfitta italiana.
In realtà la gran parte dei nostri soldati fu valorosa: lo provano i mille corpi nell’ossario tedesco. Ora nella conca di Plezzo c’è un golf club, nell’Isonzo si fa rafting
di Aldo Cazzullo, inviato a Caporetto
Alle 2, le bombe
Il caffè di Katerina
Piove. Le truppe sulle cime sono accecate da nebbia e nuvole. Alcuni intravedono divise austriache passare giù in basso, ma pensano siano prigionieri scortati dai commilitoni. Altri non si accorgono quasi di nulla. Come il tenente Carlo Emilio Gadda, che d’un tratto si scopre circondato dal nemico. Nel pomeriggio a Roma parla alla Camera il ministro della guerra, generale Giardino: «Venga pure l’attacco! Noi non lo temiamo!». Nello stesso momento, le avanguardie tedesche scese da Plezzo e dalla testa di ponte di Tolmino sono già nel primo villaggio, che darà il nome al disastro e alla sindrome della sconfitta che da allora grava sull’Italia: Caporetto. Oggi si chiama Kobarid. Dei 4.472 abitanti nessuno è di origine italiana. Il campanile era a punta; l’hanno rifatto a cipolla, come sarebbe piaciuto all’imperatore. Nel piccolo, prezioso museo si avvicendano in un giorno dieci scolaresche: tutte slovene. Nell’Isonzo si fa rafting e kayak. Le uniche insegne in italiano sono quelle dei casinò, delle spa, dei dentisti. Anche quando i bersaglieri sono entrati a Caporetto il 25 maggio 1915, primo giorno di guerra, gli abitanti erano tutti sloveni. L’unica che parlava italiano, Katerina Medves, in segno di pace ha fatto il caffè; i nostri non si sono fidati, l’hanno fatto bere prima a lei. Gli alpini del battaglione Exilles hanno preso subito — Dio solo sa come — il Monte Nero, una parete di duemila metri a picco sull’Isonzo. Poi il fronte è rimasto quasi fermo per oltre due anni. Migliaia di morti per avanzare di pochi metri. All’improvviso gli italiani devono retrocedere per 150 chilometri.
Il saluto con la pipa
La rotta è totale. Il generale Farisoglio ordina alla sua divisione di ritirarsi, e fugge in automobile: finisce in braccio ai tedeschi. Nel seminario di Cividale sono ricoverati oltre duemila feriti, tre per letto. Anche il generale Amadei precede i suoi uomini in ritirata. Sul Rombon già innevato tengono magnificamente gli alpini piemontesi, riscattando l’insipienza dei compatrioti in alta uniforme: gli Schuetzen non avanzano di un passo contro i battaglioni Dronero, Saluzzo, Borgo San Dalmazzo, Ceva, Argentera, Monviso. Ma giù in basso il generale Arrighi dà l’ordine di abbandonare la gola di Saga, senza combattere. Gli austriaci vi si infilano esultando, increduli. Gli alpini del Rombon, scrive Mario Silvestri nel suo libro divenuto un classico, Caporetto, «sono abbandonati alla loro sorte: la morte per gelo o la resa». Il generale Rossi incita a resistere «sino all’ultimo uomo», e se ne va per primo. Le strade sono intasate. Il generale Andrea Graziani trova il tempo di far fucilare il fante Alessandro Ruffini, che l’ha salutato senza togliersi la pipa di bocca (c’è chi dice un sigaro). Si vedono scene miserevoli: soldati si inginocchiano per aver salva la vita, qualcuno bacia le mani ai vincitori, altri gridano «viva l’Austria, viva la Germania, viva il Papa!». Il generale Villani si spara in testa.
Il tenente Gadda
Cadorna lascia Udine appena in tempo per non essere catturato pure lui. Con le prime parole accusa i fanti: «La mancata resistenza di reparti della II armata, vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico...». Sono le 13 del 28 ottobre. Il governo legge l’annuncio e capisce che il Paese può crollare. Il testo viene attenuato; ma ormai è tardi. Il destino di Cadorna è deciso. In realtà, la gran parte dei soldati si sono battuti con valore: lo provano gli oltre mille corpi custoditi oggi nell’ossario tedesco a strapiombo sull’Isonzo. L’unico a riconoscerlo è Cavaciocchi. Sarà il primo a essere silurato. Il nemico è già oltre il Tagliamento. Rommel ordina di avanzare senza aprire il fuoco, se non per necessità: ha catturato più di novemila prigionieri, talora senza sparare un colpo. L’auto di Badoglio è colpita da una granata, lui si salva per miracolo. Gli artiglieri sfilano gli otturatori e scappano; ma il sottotenente Vincenzo Cardarelli riesce a salvare i due cannoni di cui è responsabile. Comincia il martirio del Friuli: chi può si unisce alla carovana in ritirata verso Ovest, gli altri si barricano in casa. A Est, lunghe file di italiani si mettono in marcia verso Mauthausen e gli altri campi di prigionia. In centomila moriranno di fame. Il tenente Gadda per tutte le notti sognerà i suoi amici che gli chiedono conto: «Tu hai lasciato passare gli austriaci...».
Il riscatto sul Piave
Come l’esercito italiano sia rinato sul Piave e sul Grappa, pochi giorni dopo, è una specie di mistero. Il nemico non si aspettava di avanzare tanto; ma non si attendeva neppure un riscatto così improvviso. Non c’è più da andare all’assalto di montagne che nessuno ha mai sentito nominare, da prendere città in cui nessuno è mai stato; c’è da difendere la famiglia, badare alla terra; cose che i fanti contadini conoscono bene. È un mistero anche come Badoglio — ribattezzato ironicamente «marchese di Caporetto» — si riveli l’organizzatore della resistenza. È la vera nascita dell’Italia: una babele di dialetti, un popolo giovane diventano nelle trincee una nazione. Resta il fatto, scrive Silvestri, che «la vera Italia non è quella del Piave, ma quella di Caporetto. Caporetto viene da lontano e va lontano. L’Italia del Piave non è la regola ma l’eccezione». Quello che avvenne cent’anni fa «era già avvenuto prima, avvenne dopo, avviene sotto i nostri occhi; e ci sono tutte le premesse perché avvenga in futuro».