Notiziario: Irena, che salvava i bambini del ghetto di Varsavia

Irena, che salvava i bambini del ghetto di Varsavia

Nel 1942 Irena Sendler riuscì 
a portare in salvo 2500 piccoli ebrei. Arrestata e torturata non rivelò i loro nomi. E per 50 anni nessuno si è ricordato di lei. Ora un libro racconta la sua storia
di Wlodek Goldkorn
Irena Sendler aveva l’aspetto di una signora mite, vestita all’antica e modestamente, calzava grosse e comode scarpe nere, parlava poco, sorrideva molto, e non si alzava dalla poltrona; e del resto, nell’ottobre 1943 i nazisti le avevano spezzato le gambe. Durante le visite che le faceva, guardava con una certa ammirazione e amore Marek Edelman, il secondo in comando nell’insurrezione nel ghetto di Varsavia.

A sua volta, Edelman, nove anni più giovane della signora Sendler, uomo poco abituato a certe tenerezze e molto propenso ad esigere che gli altri accettassero il suo punto di vista senza troppe discussioni, quando si trovava davanti a lei diventava mite, disponibilissimo all’ascolto, non sempre capace di difendere fino in fondo le proprie opinioni, e viceversa insofferente verso chi cercasse di parlare con la sua interlocutrice, come se la volesse tutta per sé, come se il tempo trascorso con lei fosse il tempo più prezioso possibile.Bambini nel ghetto di Varsavia

Irena Sendler, nata nel 1910 e scomparsa nel 2008 (quasi centenaria, quindi) è stata una delle più grandi eroine della Resistenza, resistenza umana e non armata, ai nazisti in Europa. Socialista, donna libera e emancipata, persona di un coraggio inimmaginabile, ha salvato circa 2.500 bambini ebrei durante l’occupazione tedesca della Polonia. Ha portato via i piccoli dal ghetto della capitale polacca, li ha collocati in famiglie e conventi, li ha forniti di documenti falsi, con nomi e cognomi diversi da quelli veri.
Non solo, ha anche tenuto un registro di questi bambini, in modo che, una volta finita la guerra, potessero tornare alle loro prime e vere identità. E non fu un atto scontato. Non si considerava un’eroina, Irena Sendler, anzi, quando parlava di quello che aveva combinato durante la guerra, diceva: «Avrei poturo fare di più».

Ora Piemme manda in libreria (il 24 genenaio) una sua biografia, La ragazza dei fiori di vetro, scritta dall’americana Tilar J. Mazzeo e tradotta da Elena Cantoni. Non è il primo testo dedicato alla signora Sendler: qualche anno fa, le edizioni San Paolo diedero alle stampe un volume intitolato “Nome in codice Jolanta. L’incredibile storia di Irena Sendler, la donna che salvò 2.500 bambini dall’Olocausto” di Anna Mieszkowska.
 
La copertina de 'La ragazza dei fiori...
La copertina de 'La ragazza dei fiori di vetro'
Il libro di Mazzeo è più ricco di dettagli sulla vita personale della protagonista ed è scritto per un pubblico che poco o nulla sa della Polonia, quindi, nel bene e nel male, 
è più didascalico, senza tuttavia omettere questioni complesse e difficili. La cosa che più stupisce quando si pensa alla signora Sendler 
è questa: che fino alla metà degli anni Sessanta pochissimi, anche in Polonia, sapevano della sua esistenza, del suo eroismo, dell’opera che ha svolto. Ed è anche poco comune il fatto che lei divenne conosciuta nel mondo solo a partire dal 1999, quando in un liceo del Kansas gli allievi diedero vita a una pièce dedicata a lei: “Life in a Jar” 
(La vita in un barattolo).
Ma procediamo con ordine. Sendler 
è un cognome da sposata. Irena, veramente si chiamava Krzyzanowska. Era nata in una famiglia progressista - 
il padre era medico - in una cittadina, Otwock, abitata da molti ebrei. Il padre morì di tifo, contagiato dai suoi pazienti, ebrei poverissimi, quando lei aveva sette anni. La comunità si offrì di finanziare gli studi futuri della bambina; la madre ringraziò e declinò, ma in ogni caso, le parole tifo ed ebrei erano inscritte nel suo destino. Militante socialista, nel periodo tra le due guerre mondiali combatteva con tutti i mezzi l’antisemitismo che regnava allora nelle università polacche. Si innamorò di due uomini. Uno, polacco, Mieczyslaw Sendler, lo sposò. L’altro, Adam Celniker, ebreo, rimase nel suo cuore (e non solo).
Quando Hitler invade la Polonia, nel settembre 1939, Mieczyslaw, il marito, viene fatto prigioniero di guerra. Irena l’avrebbe rivisto a conflitto concluso. Adam invece, quando viene istituito 
il ghetto, rifiuta di nascondersi, di cambiare identità; sceglie di andare 
a vivere con la propria famiglia nel quartiere murato.

Per Irena, il ghetto 
è una tragedia personale (non può vedere l’amato) e politica. Assistente sociale, decide quindi di usare la sua posizione per poter entrare nel ghetto. Il pretesto è un’indagine sulle condizioni sanitarie: i tedeschi erano terrorizzati dall’eventualità che nel ghetto scoppiasse un’epidemia di tifo. Così Irena finisce per entrare in contatto con la resistenza clandestina nel quartiere ebraico. E a questo tema il libro di Mazzeo dedica molte pagine. Quando, nel 1942, diventa chiaro che 
i nazisti vogliono deportare l’intera popolazione del ghetto nel campo di streminio di Treblinka, lei, con l’ausilio di amiche e colleghe e di un autista di camion polacco, decide di far uscire più bambini possibile. Chiede alle famiglie di lasciare i piccoli nelle sue mani, e non era facile. Ma lei diceva: qui andranno verso una morte sicura, fuori forse sopravvivranno, ma io non garantisco niente. Nasconde i piccoli dentro sacchi di iuta, nelle cassette di attrezzi del camionista. Rischia, ogni giorno, la vita.
L’organizzazione che aiutava gli ebrei si chiamava Zegota ed era guidata da Jan Grobelny, un socialista che morì di tubercolosi nel 1944, e che a detta di chi lo conosceva era la bontà fatta persona. Ne facevano parte anche personaggi di destra, cattolici devoti: e questi pensavano che, una volta battezzati, i bambini ebrei non dovessero più (alla fine della guerra) essere restituiti alla comunità. Per impedire questo la Sendler, con una precisione maniacale, compilò gli elenchi con i rispettivi indirizzi dei ragazzi. Quando venne arrestata e selvaggiamente ma metodicamente torturata dalla Gestapo, Grobelny trovò una ingente somma di danaro per corrompere i tedeschi (i nazisti amavano il danaro) e farla scappare.
Dopo la guerra, divorziò dal marito tornato dalla prigionia e sposò Adam. Morto, nel 1961, Adam, risposò il primo marito Mieczyslaw. Di tutta questa storia in Polonia non si voleva parlare. Gli eroi dovevano essere maschi, comunisti e armati. E, se donne, rigidamente monogame. Nel 1965 le fu conferita dagli israeliani la medaglia di Giusta tra le nazioni. E uscì qualche articolo su di lei: uno dei primi fu scritto dal padre dell’autore di questo testo. Seguirono anni di antisemitsmo di regime e di silenzio. E lei ripeteva soltanto: «Avrei potuto fare di più».