Francesco Bossetti mi guarda con i suoi occhi luminosi e, con un po’ di ritrosia, comincia a sgranare i suoi ricordi di guerra. A volte si ferma e guarda fisso in un punto indefinito. Sta pescando nella memoria i dettagli del suo racconto? Si sofferma per rivivere le emozioni? Chissà. Cerco di trascrivere nella maniera più fedele possibile la sua storia, tra i suoi lunghi silenzi e la stanchezza che a volte lo prende. Sorride e gli occhi si fanno piccoli e oblunghi sotto le lenti quando, andando indietro nel tempo della sua fanciullezza, descrive le sue esperienze di balilla e le esercitazioni militari del sabato fascista e la voglia, unitamente ai suoi compagni di scuola, di fare il soldato. Andiamo però per ordine.
Sono nato a Torre Annunziata il 14 marzo 1922 e sono stato chiamato alle armi appena compiuti 20 anni. Cresciuto nel mito guerriero, contento di andare a servire la Patria, sono giunto a Gradisca di Isonzo il 21 febbraio 1942. Faceva freddo. Sono stato inquadrato nel 24° Regt. di Fanteria “Isonzo” che insieme alla Divisione di Fanteria “Re” e alla “Ravenna”, era impegnata contro gli jugoslavi e in Croazia e Slovenia. Mi trovai subito nella mischia. Siccome possedevo un titolo di studio, fui subito promosso fante scelto nel mese di maggio e caporale in quello seguente.
Scherzando gli ho detto che velocemente sarebbe potuto divenire generale. Francesco sorride divertito e riprende la sua narrazione. Noi gli jugoslavi li chiamavamo “crucchi” e i soldati più anziani raccontavano di una guerra sporca in cui venivano massacrati molti civili, tra cui anche donne e anziani, specialmente da reparti slavi chiamati ustascia. Fortunatamente non ho assistito a scene del genere.
Francesco mi fa comprendere che i racconti ascoltati dagli anziani, contrastavano con il mito della guerra giusta e avventurosa, alimentato anche dai romanzi che aveva letto da ragazzo.
Accolgo con entusiasmo la circolare del Ministero della guerra che cercava volontari da inquadrare come paracaduti e nel mese di settembre già ero alla Scuola Allievi Paracadutisti di Tarquinia. La scuola non era particolarmente grande e possedeva solo un piccolo aeroporto intitolato a “Amerigo Sostegni” con relativa aviorimessa. Era stata costituita nell’ottobre del 1939 e posta al comando del colonnello pilota Giuseppe Baudolin, un conte molto famoso all’epoca. Noi appartenevano al Regio Esercito. Subito iniziarono le esercitazioni. Le prime si effettuavano da una torre metallica alta 52 metri, fornita dai VV.FF. Dovevamo fare molti esercizi fisici e simulazione lanci. Dalla torre ci buttavano giù con paracadute frenato e a caduta libera con funi frenanti. In un crescente narrativo, gesticolando quasi a farmi partecipe delle sue esercitazioni di allievo paracadutista, continua la sua appassionata descrizione.
Contestualmente ai voli di ambientazione, eravamo impegnati in simulazioni di uscite da sagome di aerei, di “presa di terra” con capovolta, di ripiegamento del paracadute e, alla fine, di lanci veri da aereo da diversi metri di altezza. Il corso si completava con addestramento tattico, lanci collettivi ed esercitazioni a fuoco.
Gli domando se aveva avuto paura di lanciarsi nel vuoto.
Un poco si – mi dice sorridendo – ma ero giovane e volontariamente avevo scelto di divenire paracadutista. Con il tempo ci si abitua e, lanciarsi dall’aereo, dà un senso di libertà, una salutare scarica di adrenalina.
Ogni tanto ci fermiamo e il mio amico Alessandro amorevole figlio di Francesco mi offre un caffè e, a lui, le solite medicine. Le sedute, naturalmente, si protraggono in più giorni ed io, per non fare la figura di ignorante, cerco di documentarmi, onde porgerli delle domande più attinenti ed anche per aiutarlo alla stura dei ricordi. Francesco, io lo chiamo sempre Presidente, mi descrive il paracadute e il suo funzionamento.
Particolare cura si prestava al paracadute, da esso dipendeva la nostra vita.
Specifico, con fare da saputello, che era un paracadute da addestramento tipo IFA1ISP ( Imbracatura di Fanteria modello 1941-Scuola di Paracadutismo). Francesco sorride divertito.
Noto che stai studiando. Bravo. Si era quello, non mi ricordavo la sigla. L’imbracatura era costituita da due bretelle con cinturone e due cosciali; l’apertura avveniva per gravità per mezzo di una cintura di vincolo.
La velatura della calotta era di 56 mq e permetteva una velocità di discesa di 5 m/sec. Continuo io con sussiego. Bravissimo, ma dove prendi queste notizie? Ah dimentico che oggi usate quell’apparecchio elettronico, sembra si chiami computer. Anche mio figlio Alessandro ne possiede uno. Se fossi più giovane, imparerei anch’io a usarlo. Non mi sono mai tirato indietro di fronte alle novità. Sicuramente sareste divenuto bravo anche in questo (noi al Sud usiamo il “voi” con le persone anziane). Ho visto la vostra foto in divisa da parà, avevate anche il basco in luogo della bustina di fante. Vero?
Naturalmente cambiammo anche la divisa. Indossavamo una giacca sahariana in tessuto grigio-verde, senza bavero, pantaloni con quattro tasche, giaccone in tessuto impermeabile, guanti in cuoio, ginocchiere da lancio imbottite. In dotazione ci diedero anche una specie di gilet con diverse tasche anteriori e posteriori per le munizioni e anche per bombe a mano. Queste ultime erano del tipo Breda, OTO Balilla; S.R.C.M. le altre armi in dotazione erano: pistola Beretta calibro 9 e calibro 9 corto, pugnale, lanciafiamme, mitragliatrice legger, esplosivo. Il 5 dicembre 1942, ottenuto il brevetto di paracadutista, fui inviato a Pistoia e inquadrato nel 184° Reggimento Paracadutisti Divisione “Nembo”, 37° Compagnia, 13° Battaglione. Il motto del Reggimento era:”…e per rincalzo il cuore”.
In Sardegna alla Divisione Nembo mancavano il 185° Regt. e il III Gruppo Regt. Artiglieria che erano stati inviati in Calabria.. le esercitazioni compiute dovevano impedire, come ho detto, l’invasione dell’isola ma, fummo attaccati da un nemico quasi invisibile contro il quale il nostro addestramento e le armi nulla potevano: le zanzare anofele portatrici della malaria. Febbre alta, mal di testa, vomito, iodurazioni e tremori, sintomi di questa perniciosa malattia, colpirono quasi il 30% di noi, ed io tra questi. Fui ricoverato all’ospedale di Sardana. Ricevute le prime cure, fui dimesso e tornai al Corpo in provincia di Cagliari e precisamente a Gonnofanadiga<, dalla 37° Compagnia passai al Plotone Comando Reggimento. In quella località mi trovai l’8 settembre del 1943. Ah il fatidico armistizio. Che successe al Nembo?
L’annuncio dell’armistizio gettò tutti nella confusione più totale. Non sapevano chi era ora il nostro nemico. Come già detto, i rapporti con i camerati tedeschi erano alquanto cordiali e questi ultimi ne approfittarono per convincere alcuni paracadutisti a seguirli in Corsica. Decisero autonomamente di continuare a combattere assieme ai tedeschi, i circa 400 paracadutisti del 12° Battaglione del 184° Reggimento al comando del maggiore Rizzatti. Insieme si accinsero a lasciare il Campidano per dirigersi verso lo Stretto di Bonifacio ed imbarcarsi per la Corsica. Per evitare che i predetti paracadutisti seguissero il Panzergrenadier, i 10 settembre, nella campagna di Macomer, intervennero il generale Ercole Ronchi e il tenente colonnello Alberto Bechi Luserna. Immobilizzato il generale, i paracadutisti rivoltosi e uccisero il loro diretto superiore Bechi Luserna. Si l’ho letto, dopo la guerra questi fu insignito di Medaglia d’oro al valor militare con la seguente motivazione” Ufficiale di elevate qualità morali ed intellettuali, più volte decorato al valore, capo di S.M. di una divisione paracadutisti, all'atto dell'armistizio, fedele al giuramento prestato ed animato solo da inestinguibile fede e da completa dedizione alla Patria, assumeva senza esitazione e contro le insidie e le prepotenze tedesche, il nuovo posto di combattimento. Venuto a conoscenza che uno dei reparti dipendenti, sobillato da alcuni facinorosi, si era affiancato ai tedeschi, si recava, con esigua scorta e attraverso una zona insidiata da mezzi blindati nemici, presso il reparto stesso per richiamarlo al dovere. Affrontato con le armi in pugno dai più accesi istigatori del movimento sedizioso, non desisteva dal suo nobile intento, finché, colpito, cadeva in mezzo a coloro che egli aveva tentato di ricondurre sulla via del dovere e dell'onore. Coronava così, col cosciente sacrificio della vita, la propria esistenza di valoroso soldato, continuatore di una gloriosa tradizione familiare di eroismo”. Continuate Presidente e scusate l’interruzione.
Noi rimanemmo in Sardegna fino al maggio del ’44 quando la Divisione venne richiamata in continente e assegnata al Corpo Italiano di Liberazione. Io intanto dal 1° febbraio divenni caporalmaggiore (come da O.P. n.9 del 7.2.1944). Mentre l’intera Divisione iniziava il trasferimento sulle coste dell’Adriatico per operare con il V Corpo d’Armata inglese e il II Corpo d’Armata polacco, io fui colpito da un altro attacco di malaria e ricoverato nell’ospedale militare di Napoli. Era il 22 maggio. Così lasciai con rimpianto i miei commilitoni e iniziai la triste odissea dei ricoveri e delle convalescenze che si protrasse fino al 14 maggio dell’anno successivo. Dai bollettini e dalle notizie di radio-fante, venivo a conoscenza che i miei compagni della Nembo si coprivano di gloria partecipando alla liberazione delle città di Sulmona, Aquila, Teramo, Filottramo, Urbino e altre zone adriatiche. E i vostri colleghi che se ne andarono con i tedeschi?
Dopo la guerra seppi che successivamente avevano aderito alla Repubblica Sociale Italiana.
Che ne pensate del loro comportamento? Non sta a me giudicare. Erano giorni di confusione e incertezze, ognuno pensò di operare delle scelte che, a suo giudizio, apparivano giuste. Ho saputo che anche loro combatterono con coraggio. Erano sempre paracadutisti del Nembo! Nel settembre del 1944, tra un ricovero ed un altro, ebbi la fortunata occasione di vedere il mio reparto e molti dei miei amici perché il Nembo, il 30 agosto sospese le attività operative e dal 2 settembre fu trasferito nel beneventano. Dimesso dall’ospedale con una licenza di convalescenza di 60 giorni, ricevetti l’ordine di presentarmi il 14 luglio 1945, al Centro di Addestramento di Cesano di Roma. Gli attacchi della malaria continuavano. Dopo diversi ricoveri e relative dimissioni che si protrassero per tutto l’anno, il 7 gennaio 1946 non rientrai né a Cesano e neppure mi presentai a Nola che era il Distretto militare di competenza. Fui, quindi, dichiarato disertore e deferito al Tribunale militare territoriale. Il giudice istruttore, però, dichiarò di non doversi procedere. Fui quindi posto, il 4 maggio 1946, in congedo illimitato per sostentamento di famiglia, ai sensi della circolare 609 del 7.10.1945. Questa la mia storia. Avrei preferito, però, combattere con i miei amici e non contro la malaria, ma ognuno ha un proprio destino cui non può sottrarsi. Puoi darmi che la malaria mi abbia salvato da una morte in combattimento. Grazie Presidente per la vostra pazienza, vi auguro ancora tanti anni di vita e di serenità.
Antonio Cimmino