Grande guerra, dalle iniziali sulle missive recuperati i nomi degli italiani catturati Ritorna il capolavoro del linguista con un nuovo apparato scientifico e filologico
«Spera Cara Molie che vada terminata questa guerra micidiale che invece di diminuire, va allargandosi sempre più e fa piangere Madri, Padri Molie. Figli. Fratelli e Sorelle di tutto quelli che si ritrovano in detta guerra».
Nel suo Ritratto del Novecento, Edoardo Sanguineti cita tra le opere più significative del secolo scorso quelle del grande studioso di letteratura e maestro di critica stilistica Leo Spitzer. Ma soprattutto è significativo che tra i saggi ricordati da Sanguineti figuri, idealmente affiancato alla Grande illusione di Jean Renoir, un libro che non ha nulla a che vedere con la letteratura: le Lettere di prigionieri di guerra italiani, pubblicato in lingua originale a Bonn nel 1921 e proposto in Italia solo nel 1976 da Boringhieri, nella limpida traduzione di Renato Solmi e con un’introduzione di Lorenzo Renzi. Si tratta di un’opera pionieristica per diversi aspetti, destinata a diventare un caposaldo della storiografia. Nel settembre 1915, l’austriaco Leo Spitzer (1887-1960), allora giovane filologo romanzo, era stato nominato dal ministero della Guerra austro-ungarico censore della posta italiana a Vienna. Con questo ruolo aveva vagliato migliaia di lettere per eliminare dalla corrispondenza i passaggi più delicati, che non dovevano giungere dai campi di prigionia ai parenti in patria.Per due mesi, Spitzer ricopiò centinaia di brani, ordinandoli per argomento e finita la guerra — dopo averne commentate le strutture, le formule stereotipate e la lingua — ne trasse il volume di cui stiamo parlando e un libro gemello intitolato Perifrasi per esprimere la fame, pubblicato un anno prima a Berlino e mai uscito in Italia.«Cara amante cuando mi scrivi fai sapere qualche cosa del nostro paese che cosa si fa di bene e che si fa di male perché adove sto io non posso saper niente che sto come un uccello dintro mare». Ora le Letterevengono riproposte dal Saggiatore (mantenendo la traduzione di Solmi), ed è un autentico evento editoriale in virtù della straordinaria cura sul piano filologico e sul piano storico-culturale, che ne aggiorna la lettura attraverso tre testi introduttivi: dello stesso Renzi, di Antonio Gibelli e di Luca Morlino. Si aggiunge la Nota al testo di Silvia Albesano, che è andata a scovare, nel Kriegsarchiv di Vienna, la prima redazione, dattiloscritta, datata febbraio 1916, con correzioni a penna d’autore. Alla stessa Albesano si deve il recupero dei nomi e cognomi dei mittenti e dei destinatari, ridotti da Spitzer alle sole iniziali puntate. Un apparato fotografico, allestito da Enrico Benella, visualizza i luoghi della prigionia, le baracche, i momenti di riposo, la consegna dei pacchi postali, i prigionieri che cacciano (prima di cucinarli) i topi, il loro frugare nelle pattumiere alla ricerca di cibo, i corpi denutriti poco prima del rimpatrio in istantanee impressionanti: la grande fame è stata una delle tragedie della Grande Guerra, in modo speciale per i soldati italiani.
«Ti dico che o un dispiacere tanto grande di trovarmi qui, che avrei avuto piu piacere che mi fosse venuto una granata sul petto. cosi lavrei finita di tribolare». Si diceva del lavoro pionieristico di Spitzer: l’amico degli italiani, avversario della monarchia e futuro pacifista militante comunque ligio al proprio dovere colse subito, nei materiali che aveva sottomano, l’importanza di conservare e studiare quegli atipici prodotti di «scrittura per necessità» messi insieme da persone in buona parte analfabete, che si trovavano molto più a proprio agio nell’uso degli strumenti agricoli che con una penna tra le mani. La premessa è quella «rivoluzione comunicativa» di cui parla Renzi: «Un immenso fiume di lettere ha unito i combattenti tra di loro e soprattutto con le famiglie. Non si era mai scritto tanto. Secondo dati ufficiali delle Poste, nell’Italia in guerra sono stati scambiati 4 miliardi di lettere e di cartoline, una vera e propria ondata di piena». L’assoluta novità del libro di Spitzer consisteva in due tratti del tutto inediti quando uscì: l’ottica «dal basso» sulla guerra e il carattere «popolare» della lingua con cui quell’ottica veniva restituita.
È vero che l’«italiano popolare» avrebbe poi trovato formulazioni definitive nei primi anni 70 grazie agli studi di autorevoli linguisti, che hanno gettato una luce nuova a ritroso fino al Cinquecento, ma non va dimenticato che Spitzer lanciò il suo seme sin dagli anni 20. Come avverte Gibelli, il lavoro di Spitzer rivelava anche lungimiranti connotati etico-politici «in antitesi alla deriva che l’Europa aveva imboccato con la guerra, e che sarebbe giunta agli esiti estremi con l’età dei totalitarismi»: fino a configurarsi come una sorta di «manifesto sommesso di un’Europa del tutto minoritaria rispetto a quella del ferro e fuoco».
«Abbiamo vendemmiato e il raccolto e stato poco cioè 40 some. A tutto si rimedia fuori che alla morte». Il dare voce ai soldati semplici e alla gente comune, ai «piccoli testimoni di un’immane catastrofe», quasi si trattasse di una autobiografia bellica redatta dalle classi subalterne, non era solo una questione di metodo che poi si sarebbe imposta nella storiografia. Era una declinazione scientifica di ciò che auspicava uno scrittore come Arthur Schnitzler: «Il vocabolario della guerra è fatto dai diplomatici, dai militari, dai potenti. Dovrebbe essere corretto dai reduci, dalle vedove, dagli orfani, dai medici, dai poeti», da reduci, cioè, che tornavano «ammutoliti» dalle trincee (l’aggettivo è di Walter Benjamin). Ecco dunque che le scritture illetterate raccolte dal linguista austriaco, i documenti epistolari di disertori che rivendicavano la loro scelta in senso antipatriottico, si propongono come un’«inedita via di accesso al cuore dell’evento bellico». Un «classico», secondo Mario Isnenghi. Un classico per la storiografia e per la linguistica. Che curiosamente piacque a Croce ma fu pressoché ignorato da Contini, come ricorda Morlino, che si sofferma sulla fortuna del libro. Lo Spitzer studioso di stilistica ebbe meno favore in Italia dello Spitzer delle Lettere, che ebbe invece lunga durata anche se l’edizione Boringhieri era ormai introvabile. Ma non passò inosservato neppure lo stilista: se Citati curò per Einaudi i suoi saggi su Proust, Carlo Ginzburg si è dichiarato debitore verso il «gusto del particolare rivelatore» tipico dello studioso.
«Caro figglio non puoi maginarti quando ricevo il tuo foglio dico questo foglio è stato in mano del mio figlio. Eloricopro di bacci e lo scringo fra le mie manni come tenaglie». Una nota linguistica di Laura Vandelli segnala i tratti peculiari delle scritture epistolari: lo stravolgimento delle norme grafiche, le interferenze dialettali, la presenza del flusso tipico dell’oralità. L’italiano popolare delle Lettere è quel tipo di italiano che è stato «imperfettamente acquisito da chi ha per madrelingua il dialetto». Ci sono missive scritte in una lingua standard discretamente «corretta», la gran parte sono invece in italiano «pidocchiale», altre in dialetto. E sono i dialetti di tutta Italia. Se qualcuno, forse per rassicurare la famiglia, scriveva: «sono diventato grascio come una sardella», altri pregavano i parenti di Padova: «se potete mandatemi due fugase cote soto il fuoco che a me sono tanto oro».
PAOLO DI STEFANO