Il massacro dei “Fanti Contadini” marsicani nella prima guerra mondiale (1915-1918)
di Fulvio D’Amore (ricercatore e saggista)
Purtroppo, nella ricorrenza del prossimo «Centenario della Prima Guerra Mondiale», ci troveremo ancora una volta di fronte alle solite «Celebrazioni» retoriche ed enfatiche, promosse dalle massime autorità civili, militari e politiche senza che nessuno ricorderà in maniera specifica, i 30.000 caduti della battaglia di Bainsizza (19 agosto 1917); i 70.000 tra morti e feriti di Caporetto (24 ottobre del 1917); i quasi 300.000 prigionieri e gli altri innumerevoli sbandati dell’esercito italiano in ritirata passati per le armi con l’accusa di vigliaccheria.
Nessuno parlerà pubblicamente delle vittime degli «Abruzzi e Molise», distinti per distretto di nascita, che raggiunsero la cifra (presa per difetto) di 22.188 giovani e anziani militari rimasti uccisi nell’assurdo conflitto, mandati all’assalto delle trincee austriache da Luigi Cadorna, Andrea Graziani, Armando Diaz e altri generali «criminali ottusi e spietati nell’inviare i soldati al macello», come a ben ragione ha affermato lo storico inglese Mark Thompson (La guerra bianca. Vita e morte sul fronte italiano 1915-1919, Il Saggiatore, Milano, 2009).
Purtroppo, invece di far chiarezza (specialmente dal punto di vista storico), seguiteremo a sentir parlare della «Leggenda del Piave», di unità nazionale e di altre simili chimere, finalizzate a sviare un’opinione pubblica italiana di per sé già molto restia a conoscere la propria storia in termini reali e, in questo periodo, giustamente “depressa” dalle attuali preoccupazioni europee.
Pochi valuteranno il numero dei caduti del comprensorio dell’Aquila che furono forse 3.300; quelli di Campobasso, calcolati intorno alla cifra di 5.245 giovani; quelli di Chieti, circa 5.455; quelli di Sulmona 3.110; quelli di Teramo 4.998; ma anche il numero dei feriti, considerati 10.582 e di coloro che contrassero malattie deleterie, ben 7.546; altri ancora moriranno in seguito per cause accidentali (oltre mille circa). Il vero numero dei dispersi abruzzesi non si conoscerà mai, essi furono calcolati approssimativamente, intorno alle 3.175 unità, quando, invece, esaminando i fogli matricolari uno per uno, risultano molti di più.
È ormai certo, che l’attendibilità di queste cifre ufficiali, pubblicate dal regime fascista (Ministero della Guerra, Militari caduti nella Guerra Nazionale 1915-1918, Albo d’Oro, vol. II, Abruzzi e Molise, Anno V, Roma, 1927), lasciano pensare a una non precisa trattazione della ricerca, usata, invece, solo per scopi prettamente politici e ideologici dalla propaganda. Occorreva citare solo gli eroi, mentre bisognava ignorare episodi di guerra incresciosi e impopolari.
Era assolutamente vietato descrivere le carneficine dei «fanti-contadini» appartenenti alle classi 1878-1899, mandati allo sbaraglio con la famosa tattica dell’«attacco frontale» sostenuta a spada tratta dal generale Cadorna. D’altronde, moltissimi giovani soldati erano appena ventenni, quando furono inviati in Africa alla «Guerra Libica» per la Tripolitania e la Cirenaica (1911-1912) e poi, dopo un breve intervallo di congedo illimitato, di nuovo richiamati alle armi sul fronte dell’Isonzo con regio decreto del 22 maggio 1915.
La maggior parte delle reclute vennero «mandate al massacro» a causa della politica condotta dagli interventisti, tra cui spiccavano in prima fila i nomi di Gabriele D’Annunzio, esaltato cantore del «carnaio bellico»; i futuristi Marianetti, Lacerba, Papini, Prezzolini e Soffici che dichiararono più volte: «Amiamo la guerra ed assaporiamola da buongustai finché dura. La guerra è spaventosa, e appunto perché spaventosa e tremenda e terribile e distruttrice dobbiamo amarla con tutto il nostro cuore di maschi».
Anche le assurde convinzioni dei ministri Salandra e Corona, appoggiate dagli ambienti militari di «Casa Savoia» (non dimentichiamo che il tenente generale Emanuele Filiberto di Savoia, era comandante della Terza Armata), spinsero la propaganda bellicista attraverso affermazioni di nuovi orientamenti aggressivi, antipositivisti e irrazionalistici, a livello culturale e di opinione pubblica, indirizzati verso un maturare di gravi tendenze antiliberali e imperialistiche all’interno del capitalismo italiano. Di contro, la gran massa dei contadini (socialisti o non) era ben lontana dal condividere l’entusiasmo espresso dalla campagna interventista, condotta essenzialmente dal ceto colto, dai proprietari borghesi e dagli industriali.
Alla luce delle considerazioni fin qui espresse, dopo cento anni dal drammatico evento bellico, si può affermare onestamente che, l’entrata in guerra dell’Italia, deve considerarsi come uno dei momenti peggiori della crisi della società liberale uscita dal «Risorgimento».
Oltretutto, durante il conflitto caratterizzato da un periodo pieno di stragi e lutti, la funzione partecipativa alla guerra dell’intellettuale Ardengo Soffici, che era appena giunto al fronte, fece conoscere all’opinione pubblica italiana la vita di trincea attraverso una realtà davvero sconvolgente. Egli descrisse alcuni protagonisti anonimi (ma reali) con ritratti appena abbozzati, narrando le peripezie dei «fanti-contadini» che si abbarbicavano a terra, s’infilavano tra le radici e i massi, si nascondevano in buchi fetidi e oscuri, alla ricerca, spesso vana, di un solo scopo: la salvezza della vita (Kobilek 1918, in Opere, vol. II, Firenze 1959, p. 99). In altri passi delle sue crude memorie, affermò, tuttavia, che la violenza era necessaria per condurre al macello «quel gregge riluttante».
Altro esempio da mettere in risalto per dimostrare la crudezza e l’inutilità della guerra, è un dispaccio che il maggiore generale Carlo Sanna (brigata Catanzaro, medaglia d’oro e d’argento al valore militare) inviò ai suoi ufficiali arroccati sul Costone Viola Alto (Cima 1 e Cima 2), durante la sesta battaglia dell’Isonzo combattuta nei primi giorni dell’agosto del 1916. Il fiero graduato italiano scrisse, in proposito, un ordine molto significativo: «Mantenere sempre guarnita la trincea di partenza e ricordarsi in caso disperato che quella trincea non si abbandona per nessuna ragione. Questo ordine è tassativo: vi si muore dentro ma non si fa un passo indietro».
Chi si rifiutava di obbedire a simili comandi, era subito messo al muro dai «reali carabinieri» che seguivano il generale Andrea Graziani «quel pazzo del generale […] destinato alla pulizia e fucilazione delle retrovie», come ben testimonia Ugo Ojetti, ufficiale presso il Comando supremo, nelle sue Lettere alla moglie: 1915-1919, un libro postumo curato e annotato da Fernanda Ojetti, Sansoni, Firenze [1964].
Coloro che scamparono al macello in qualche modo, tra un congedo e l’altro, cercarono poi di non tornare più al fronte, scampando così alla morte. Fuggirono all’estero «inseguiti», puntualmente, dalle condanne in contumacia emanate dai tribunali militari italiani per diserzione, tutte poi condonate negli anni successivi «per carità di Patria», con indulti del 1914,1922 e 1930.
In questo cupo scenario, non risultano certo attendibili le notizie riportate giornalmente dall’organo ufficiale del governo italiano (Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, Anni 1911-1919 e Anni 1915-1918), sempre comunque reticente a comunicare le effettive perdite e le amare sconfitte, pronto a esaltare solo le «effimere» vittorie dell’esercito.
Al fine di individuare più esatti e concreti riscontri, occorre sottolineare che uno dei pochissimi film italiani che rappresentò realmente il clima di sventure e l’autoritarismo militare, è stato quello diretto da Francesco Rosi, intitolato Uomini contro (1970), con un soggetto ripreso dal libro di Emilio Lussu (Un anno sull’altopiano), poi interpretato magistralmente da Gian Maria Volonté, un grande attore italiano scomparso da tempo.
In un quadro generale di orientamento complessivo entro il quale collocare la problematicità di questioni tragiche e sulla scia di molte testimonianze d’epoca (lettere e diari), al fine di inquadrare adeguatamente il senso di questa «carneficina», potrebbe essere utile citare anche le parole del regista Mario Monicelli che, nel 1959, in occasione della ventesima mostra cinematografica di Venezia presentò il film intitolato «La Grande Guerra», vincendo il Leone d’oro: «Ho narrato la Grande Guerra dal punto di vista dei soldati qualunque, dei tanti poveri diavoli che furono trascinati al combattimento senza vocazione alcuna».
L’utilizzo per i nostri studi specifici dei «Ruoli Matricolari Distretto di Sulmona Classi 1885-1895», conferma appieno le sue asserzioni (anche se la ricerca è stata svolta in ambito territoriale) e serve, soprattutto, per capire chi furono questi giovani soldati inviati al fronte; che cosa facevano da civili; dove combatterono e perché spesso furono sacrificati invano.
Alla luce di tante sofferenze, bisogna (oggi più che mai) dare onore e un senso vero al sacrificio di milioni di giovani dimenticati nelle loro singole vicissitudini: adolescenti e anziani (dai sedici anni fino ai cinquantasei), che furono trascinati impreparati e con mezzi obsoleti verso una guerra feroce.
Dopo attenta analisi della documentazione d’archivio, cadono sotto i nostri severi giudizi, gli atteggiamenti di molti graduati di allora, tronfi di arroganza, pronti a lasciar massacrare le fanterie come fossero state delle «pecore mandate al macello».
D’altra parte, ormai da tempo ogni paese d’Abruzzo, del Meridione, d’Italia ha la sua bella lapide commemorativa sbiadita, dove si leggono a mala pena i nomi scolpiti dei caduti (spesso l’elenco è incompleto ed errato), di «poveri fanti-contadini» a cui fu tolta la vita prematuramente, cancellando per sempre le loro aspirazioni di una vita normale. Le celebrazioni al «milite ignoto», volute dal regime fascista con regale solennità, cercheranno di «rendere spettacolare» l’avvenimento nazionale, richiamando l’opinione pubblica e le migliaia di famiglie italiane che avevano subito lutti, ai sentimenti di «patria e d’orgoglio nazionale». Le vicende della Grande Guerra saranno legate strettamente alle disgraziate vicende del terremoto della Marsica (13 gennaio 1915), quando già i nostri soldati si trovavano nei depositi militari di Sulmona o dell’Alta Italia.
Sul giornale Il Risorgimento d’Abruzzo-Settimanale di Battaglia, in data 18 maggio 1919, possiamo leggere una lettera scritta al direttore da soldati anonimi marsicani, intitolata: «Per i soldati dei paesi distrutti dal terremoto ancora alle armi». I militari ancora al fronte, specificavano, tra l’altro, che non era una denuncia di protesta, né un lamentarsi: «ma una preghiera caldissima rivolta a quell’eroico generale che oggi dirige le sorti del Ministero della Guerra. Ella sa per contributo di sangue carissimo quale grande disgrazia sia stata per noi il terremoto di Avezzano. Dall’infausta data del 13 gennaio 1915, che ognuno di noi porterà impressa nel cuore finché avrà vita, è incominciata la nostra guerra. Noi siamo partiti alle armi, quando ancora i nostri morti più cari giacevano sotto le macerie ed i pochi superstiti erano accampati sotto una tenda, o ricoverati in una baracca». Visto che la richiesta fu inoltrata da un gruppo anonimo di soldati marsicani, che non si firmarono per paura di sicure rappresaglie, ci siamo chiesti chi fossero ragazzi scampati al massacro? Di quali paesi della Marsica erano originari? Al ritorno a casa, riuscirono a trovare vivi i loro familiari?
Al riguardo, andrà citato (come esempio generale), il sedicenne soldato Loreto Viola, morto all’ospedale da Campo 241, venuto a «mancare ai vivi alle ore quattordici e minuti trentacinque del 3 novembre 1918, appartenente alla Direzione del Genio, Intendenza 1ª Armata reparto di S. Giovanni Ilarione, nativo di Avezzano, provincia di Aquila, figlio di Pietro e di fu Lolli Filomena, morto in seguito a bronco polmonite influenzale, sepolto a San Bonifacio Veronese». Nel suo fascicolo personale, trasmesso al «Cavaliere Francesco Benigni, Delegato Speciale ed Ufficiale dello Stato Civile del Comune», abbiamo ritrovato un diploma di merito per aver partecipato con onore alla campagna militare, proveniente dal «Ministero della Guerra» ma anche la medaglia commemorativa e la croce di guerra, emblemi mai potuti ritirare dalla sua famiglia perché rimasta sepolta sotto le macerie del terremoto di Avezzano, la mattina del 13 gennaio 1915.
Nessuno parlerà pubblicamente delle vittime degli «Abruzzi e Molise», distinti per distretto di nascita, che raggiunsero la cifra (presa per difetto) di 22.188 giovani e anziani militari rimasti uccisi nell’assurdo conflitto, mandati all’assalto delle trincee austriache da Luigi Cadorna, Andrea Graziani, Armando Diaz e altri generali «criminali ottusi e spietati nell’inviare i soldati al macello», come a ben ragione ha affermato lo storico inglese Mark Thompson (La guerra bianca. Vita e morte sul fronte italiano 1915-1919, Il Saggiatore, Milano, 2009).
Purtroppo, invece di far chiarezza (specialmente dal punto di vista storico), seguiteremo a sentir parlare della «Leggenda del Piave», di unità nazionale e di altre simili chimere, finalizzate a sviare un’opinione pubblica italiana di per sé già molto restia a conoscere la propria storia in termini reali e, in questo periodo, giustamente “depressa” dalle attuali preoccupazioni europee.
Pochi valuteranno il numero dei caduti del comprensorio dell’Aquila che furono forse 3.300; quelli di Campobasso, calcolati intorno alla cifra di 5.245 giovani; quelli di Chieti, circa 5.455; quelli di Sulmona 3.110; quelli di Teramo 4.998; ma anche il numero dei feriti, considerati 10.582 e di coloro che contrassero malattie deleterie, ben 7.546; altri ancora moriranno in seguito per cause accidentali (oltre mille circa). Il vero numero dei dispersi abruzzesi non si conoscerà mai, essi furono calcolati approssimativamente, intorno alle 3.175 unità, quando, invece, esaminando i fogli matricolari uno per uno, risultano molti di più.
È ormai certo, che l’attendibilità di queste cifre ufficiali, pubblicate dal regime fascista (Ministero della Guerra, Militari caduti nella Guerra Nazionale 1915-1918, Albo d’Oro, vol. II, Abruzzi e Molise, Anno V, Roma, 1927), lasciano pensare a una non precisa trattazione della ricerca, usata, invece, solo per scopi prettamente politici e ideologici dalla propaganda. Occorreva citare solo gli eroi, mentre bisognava ignorare episodi di guerra incresciosi e impopolari.
Era assolutamente vietato descrivere le carneficine dei «fanti-contadini» appartenenti alle classi 1878-1899, mandati allo sbaraglio con la famosa tattica dell’«attacco frontale» sostenuta a spada tratta dal generale Cadorna. D’altronde, moltissimi giovani soldati erano appena ventenni, quando furono inviati in Africa alla «Guerra Libica» per la Tripolitania e la Cirenaica (1911-1912) e poi, dopo un breve intervallo di congedo illimitato, di nuovo richiamati alle armi sul fronte dell’Isonzo con regio decreto del 22 maggio 1915.
La maggior parte delle reclute vennero «mandate al massacro» a causa della politica condotta dagli interventisti, tra cui spiccavano in prima fila i nomi di Gabriele D’Annunzio, esaltato cantore del «carnaio bellico»; i futuristi Marianetti, Lacerba, Papini, Prezzolini e Soffici che dichiararono più volte: «Amiamo la guerra ed assaporiamola da buongustai finché dura. La guerra è spaventosa, e appunto perché spaventosa e tremenda e terribile e distruttrice dobbiamo amarla con tutto il nostro cuore di maschi».
Anche le assurde convinzioni dei ministri Salandra e Corona, appoggiate dagli ambienti militari di «Casa Savoia» (non dimentichiamo che il tenente generale Emanuele Filiberto di Savoia, era comandante della Terza Armata), spinsero la propaganda bellicista attraverso affermazioni di nuovi orientamenti aggressivi, antipositivisti e irrazionalistici, a livello culturale e di opinione pubblica, indirizzati verso un maturare di gravi tendenze antiliberali e imperialistiche all’interno del capitalismo italiano. Di contro, la gran massa dei contadini (socialisti o non) era ben lontana dal condividere l’entusiasmo espresso dalla campagna interventista, condotta essenzialmente dal ceto colto, dai proprietari borghesi e dagli industriali.
Alla luce delle considerazioni fin qui espresse, dopo cento anni dal drammatico evento bellico, si può affermare onestamente che, l’entrata in guerra dell’Italia, deve considerarsi come uno dei momenti peggiori della crisi della società liberale uscita dal «Risorgimento».
Oltretutto, durante il conflitto caratterizzato da un periodo pieno di stragi e lutti, la funzione partecipativa alla guerra dell’intellettuale Ardengo Soffici, che era appena giunto al fronte, fece conoscere all’opinione pubblica italiana la vita di trincea attraverso una realtà davvero sconvolgente. Egli descrisse alcuni protagonisti anonimi (ma reali) con ritratti appena abbozzati, narrando le peripezie dei «fanti-contadini» che si abbarbicavano a terra, s’infilavano tra le radici e i massi, si nascondevano in buchi fetidi e oscuri, alla ricerca, spesso vana, di un solo scopo: la salvezza della vita (Kobilek 1918, in Opere, vol. II, Firenze 1959, p. 99). In altri passi delle sue crude memorie, affermò, tuttavia, che la violenza era necessaria per condurre al macello «quel gregge riluttante».
Altro esempio da mettere in risalto per dimostrare la crudezza e l’inutilità della guerra, è un dispaccio che il maggiore generale Carlo Sanna (brigata Catanzaro, medaglia d’oro e d’argento al valore militare) inviò ai suoi ufficiali arroccati sul Costone Viola Alto (Cima 1 e Cima 2), durante la sesta battaglia dell’Isonzo combattuta nei primi giorni dell’agosto del 1916. Il fiero graduato italiano scrisse, in proposito, un ordine molto significativo: «Mantenere sempre guarnita la trincea di partenza e ricordarsi in caso disperato che quella trincea non si abbandona per nessuna ragione. Questo ordine è tassativo: vi si muore dentro ma non si fa un passo indietro».
Chi si rifiutava di obbedire a simili comandi, era subito messo al muro dai «reali carabinieri» che seguivano il generale Andrea Graziani «quel pazzo del generale […] destinato alla pulizia e fucilazione delle retrovie», come ben testimonia Ugo Ojetti, ufficiale presso il Comando supremo, nelle sue Lettere alla moglie: 1915-1919, un libro postumo curato e annotato da Fernanda Ojetti, Sansoni, Firenze [1964].
Coloro che scamparono al macello in qualche modo, tra un congedo e l’altro, cercarono poi di non tornare più al fronte, scampando così alla morte. Fuggirono all’estero «inseguiti», puntualmente, dalle condanne in contumacia emanate dai tribunali militari italiani per diserzione, tutte poi condonate negli anni successivi «per carità di Patria», con indulti del 1914,1922 e 1930.
In questo cupo scenario, non risultano certo attendibili le notizie riportate giornalmente dall’organo ufficiale del governo italiano (Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, Anni 1911-1919 e Anni 1915-1918), sempre comunque reticente a comunicare le effettive perdite e le amare sconfitte, pronto a esaltare solo le «effimere» vittorie dell’esercito.
Al fine di individuare più esatti e concreti riscontri, occorre sottolineare che uno dei pochissimi film italiani che rappresentò realmente il clima di sventure e l’autoritarismo militare, è stato quello diretto da Francesco Rosi, intitolato Uomini contro (1970), con un soggetto ripreso dal libro di Emilio Lussu (Un anno sull’altopiano), poi interpretato magistralmente da Gian Maria Volonté, un grande attore italiano scomparso da tempo.
In un quadro generale di orientamento complessivo entro il quale collocare la problematicità di questioni tragiche e sulla scia di molte testimonianze d’epoca (lettere e diari), al fine di inquadrare adeguatamente il senso di questa «carneficina», potrebbe essere utile citare anche le parole del regista Mario Monicelli che, nel 1959, in occasione della ventesima mostra cinematografica di Venezia presentò il film intitolato «La Grande Guerra», vincendo il Leone d’oro: «Ho narrato la Grande Guerra dal punto di vista dei soldati qualunque, dei tanti poveri diavoli che furono trascinati al combattimento senza vocazione alcuna».
L’utilizzo per i nostri studi specifici dei «Ruoli Matricolari Distretto di Sulmona Classi 1885-1895», conferma appieno le sue asserzioni (anche se la ricerca è stata svolta in ambito territoriale) e serve, soprattutto, per capire chi furono questi giovani soldati inviati al fronte; che cosa facevano da civili; dove combatterono e perché spesso furono sacrificati invano.
Alla luce di tante sofferenze, bisogna (oggi più che mai) dare onore e un senso vero al sacrificio di milioni di giovani dimenticati nelle loro singole vicissitudini: adolescenti e anziani (dai sedici anni fino ai cinquantasei), che furono trascinati impreparati e con mezzi obsoleti verso una guerra feroce.
Dopo attenta analisi della documentazione d’archivio, cadono sotto i nostri severi giudizi, gli atteggiamenti di molti graduati di allora, tronfi di arroganza, pronti a lasciar massacrare le fanterie come fossero state delle «pecore mandate al macello».
D’altra parte, ormai da tempo ogni paese d’Abruzzo, del Meridione, d’Italia ha la sua bella lapide commemorativa sbiadita, dove si leggono a mala pena i nomi scolpiti dei caduti (spesso l’elenco è incompleto ed errato), di «poveri fanti-contadini» a cui fu tolta la vita prematuramente, cancellando per sempre le loro aspirazioni di una vita normale. Le celebrazioni al «milite ignoto», volute dal regime fascista con regale solennità, cercheranno di «rendere spettacolare» l’avvenimento nazionale, richiamando l’opinione pubblica e le migliaia di famiglie italiane che avevano subito lutti, ai sentimenti di «patria e d’orgoglio nazionale». Le vicende della Grande Guerra saranno legate strettamente alle disgraziate vicende del terremoto della Marsica (13 gennaio 1915), quando già i nostri soldati si trovavano nei depositi militari di Sulmona o dell’Alta Italia.
Sul giornale Il Risorgimento d’Abruzzo-Settimanale di Battaglia, in data 18 maggio 1919, possiamo leggere una lettera scritta al direttore da soldati anonimi marsicani, intitolata: «Per i soldati dei paesi distrutti dal terremoto ancora alle armi». I militari ancora al fronte, specificavano, tra l’altro, che non era una denuncia di protesta, né un lamentarsi: «ma una preghiera caldissima rivolta a quell’eroico generale che oggi dirige le sorti del Ministero della Guerra. Ella sa per contributo di sangue carissimo quale grande disgrazia sia stata per noi il terremoto di Avezzano. Dall’infausta data del 13 gennaio 1915, che ognuno di noi porterà impressa nel cuore finché avrà vita, è incominciata la nostra guerra. Noi siamo partiti alle armi, quando ancora i nostri morti più cari giacevano sotto le macerie ed i pochi superstiti erano accampati sotto una tenda, o ricoverati in una baracca». Visto che la richiesta fu inoltrata da un gruppo anonimo di soldati marsicani, che non si firmarono per paura di sicure rappresaglie, ci siamo chiesti chi fossero ragazzi scampati al massacro? Di quali paesi della Marsica erano originari? Al ritorno a casa, riuscirono a trovare vivi i loro familiari?
Al riguardo, andrà citato (come esempio generale), il sedicenne soldato Loreto Viola, morto all’ospedale da Campo 241, venuto a «mancare ai vivi alle ore quattordici e minuti trentacinque del 3 novembre 1918, appartenente alla Direzione del Genio, Intendenza 1ª Armata reparto di S. Giovanni Ilarione, nativo di Avezzano, provincia di Aquila, figlio di Pietro e di fu Lolli Filomena, morto in seguito a bronco polmonite influenzale, sepolto a San Bonifacio Veronese». Nel suo fascicolo personale, trasmesso al «Cavaliere Francesco Benigni, Delegato Speciale ed Ufficiale dello Stato Civile del Comune», abbiamo ritrovato un diploma di merito per aver partecipato con onore alla campagna militare, proveniente dal «Ministero della Guerra» ma anche la medaglia commemorativa e la croce di guerra, emblemi mai potuti ritirare dalla sua famiglia perché rimasta sepolta sotto le macerie del terremoto di Avezzano, la mattina del 13 gennaio 1915.