A Sigmundsherberg riposano 2363 caduti che erano stati fatti prigionieri. Divisero il pane con gli abitanti del paese.
di Marco Di Blas
IENNA .Per capire il senso - o il non senso - di una guerra può essere utile la visita al cimitero di guerra di Sigmundsherberg. Si trova nel Waldviertel, una regione della Bassa Austria, non molto distante dal confine ceco. Qui riposano oltre 2400 caduti, di cui 2.363 sono italiani. È probabilmente il piú grande cimitero di guerra di soldati italiani in territorio austriaco e ciononostante quasi nessuno ne conosce l’esistenza, forse perché appartato e non facile da raggiungere.
Di solito i cimiteri di guerra si trovano in prossimità del fronte. Quello di Sigmundsherberg, invece, ne dista alcune centinaia di chilometri. Le salme che accoglie non sono infatti di caduti in combattimento, ma di prigionieri italiani, morti di stenti e di malattie.
A Sigmundsherberg, infatti, sorgeva un campo di internamento per prigionieri. All’inizio era stato concepito per quelli russi. Poi su quel fronte la guerra era finita, mentre incominciavano a giungere prigionieri dal fronte italiano, in numero sempre maggiore. Le baracche dell’insediamento iniziale potevano ospitare fino a 30 mila uomini, ma subito fu necessario aumentarne il numero, per portarne la capacità a 40 mila.Anche quella quota fu presto superata. I rapporti della direzione del campo al Ministero della guerra segnalano al 3 ottobre 1916 la presenza di 56 mila uomini e la guerra sul fronte italiano è appena al primo anno. Dopo la dodicesima battaglia dell’Isonzo la situazione diventerà insostenibile. Sigmundsherberg dovrà aprire le porte fino a 120 mila uomini.
Non si deve tuttavia immaginare quel campo di prigionia come un luogo di tortura, assimilabile ai lager della Seconda guerra mondiale. Qui ai prigionieri veniva riservato un trattamento nel rispetto delle norme internazionali. C’era una chiesa, c’era un teatro, c’era un ospedale, c’erano locali messi a disposizione dei prigionieri, dove quelli piú istruiti potevano tenere corsi per la gran parte dei soldati semianalfabeti. Venivano regolarmente distribuiti i pacchi viveri e la posta in arrivo dall’Italia, tramite la Croce rossa. E all’ufficiale piú alto in grado, di tanto in tanto, era consentito inoltrare reclami o richieste a Vienna, che ottenevano regolare risposta.
I militari, inoltre, trascorrevano gran parte della giornata al di fuori del campo, aiutando nei lavori dei campi i contadini della zona. Chi scrive ha raccolto la testimonianza di una donna di Padova, figlia di uno di questi prigionieri. Il padre le aveva riferito dell’accoglienza e del calore umano con cui era stato trattato dalla popolazione, che aveva diviso con lui i pochi generi alimentari di cui disponeva.
Negli ultimi mesi di guerra, tuttavia, la situazione si era fatta catastrofica per i prigionieri, ma anche per la popolazione civile. Non c’era piú nulla da mangiare, non c’era piú legna per riscaldare le baracche. La moria di quei giorni si spiega cosí. Il campo di prigionia si stava trasformando in un grande cimitero.
Cento anni dopo dell’immenso campo di Sigmundsherberg non è rimasta traccia. Le baracche e gli steccati sono stati rimossi. È rimasto il cimitero, distante un paio di chilometri dall’abitato. I caduti riposano sotto un prato verde grande quanto un campo di calcio, in una fossa comune su cui sono state collocate qua e là grandi croci di pietra. L’area è circondata da alberi e siepi. Su un lato, una cappella custodisce alle pareti pannelli di bronzo, con i nomi in rilievo dei sepolti, in rigoroso ordine alfabetico. Al centro, un monumento votivo, in forma di donna seduta. Cappella e monumento furono realizzati dagli stessi prigionieri, in memoria dei commilitoni defunti. Sul piedestallo della statua, l’autore ha lasciato il suo cognome: Matteucci da Lucca. Anche lui non sopravvivrà alla prigionia: ritroviamo il suo nome su un pannello di bronzo, accanto agli altri deceduti