Il 22 luglio 1968 moriva Giovannino Guareschi. Quello sguardo che riscalda ancora i nostri cuori
Il 22 luglio del 1968 a Cervia morì uno dei più grandi scrittori italiani. Gli occhi del bambino di Fontanelle avevano finito di disegnare il loro mondo e si erano chiusi sereni, come quelli fermati più di vent’anni prima da un fotografo di Parma. Occhi scampati dal lager e decisi, comunque, a dar credito al prossimo. Guareschi tornava alla terra e continuava a parlare della vita, grazie all’eredità che con cura aveva lasciato al suo postero, composta di racconti, tanto inventati da poter essere addirittura reali, di tante battaglie solitarie contro la cattiva politica, ma di altrettante battaglie vinte con se stesso per resistere a un mondo che va al contrario. Di così tanto amore da poter uscire da un campo di concentramento senza aver odiato nessuno e così tanto coraggio da scegliere la prigione per poter rimanere un uomo libero.
Un’eredità nascosta quella del nostro Giovannino. Quel 22 luglio del 1968 nessuno si prese la briga di dire che Guareschi era morto, l’italiano medio non ne ebbe le vacanze turbate e l’intellettuale medio non si preoccupò di dover stendere due parole di ricordo per lo scrittore italiano più famoso al mondo. Del resto non piaceva a nessuno, perché così onesto da non venire mai a patti e così fastidiosamente coerente da preferire la verità e la solitudine alla carriera e alle onorificenze. Da morto gli fu riservato il trattamento che ricevette per tutta la vita, il silenzio, e non c’è agonia più tremenda per uno scrittore, di comunicare qualcosa senza sapere se arriverà mai al destinatario.
Eppure Guareschi ha salvato tante persone, non ci stancheremo mai di ripeterlo, e salva noi ogni volta che chiudiamo un suo libro e ci sentiamo rincuorati, ogni volta che sentiamo parlare il Crocifisso e vogliamo un po’ più bene al Padreterno, ogni volta che rileggiamo il “Candido” e prendiamo coraggio: se ha combattuto Guareschi, possiamo farlo anche noi, se non si è dato per vinto lui, non lo dovremmo fare nemmeno noi.
Ci ha insegnato che c’è qualcosa di buono in questo mondo che vale la pena salvare. Che l’amore per la propria terra è sacrosanto e alla base dell’amore per gli altri. Che ogni uomo può essere migliore di quel che crede e che il dolore purifica, se non si impara ad abbracciarlo allora la vita sarà grama e schiava della paura di soffrire.
Ci ha insegnato che la propria sponda del fiume non è poi così male e che il Po è tanto grande perché lui è riuscito a farsi così piccolo da allargare i confini del proprio mondo, perché la vera avventura è farsi minuscoli per rendere lode a Dio. Ci ha insegnato che l’uomo, se perde la fede, perde anche il buonsenso e che la normalità è la più alta delle virtù ormai dimenticate.
Giovannino Guareschi ha gettato nella terra un seme che mai avrebbe immaginato. E noi siamo qui a custodirlo, per salvarlo dal fiume che ha rotto gli argini.
E proprio per questo, al nostro scrittore ormai vecchio, quando diceva di sentirsi come un merlo che canta dall’albero più alto, senza sapere se qualcuno lo ascolterà, avremmo voluto potergli dire che non è solo, che anche noi tentiamo di arrampicarci dove lui è arrivato e che sebbene da qui non riusciamo sempre a vedere con la sua stessa chiarezza tutto ciò che è stato e che sarà, vorremmo poterlo ringraziare della mano che ancora oggi tende a noi, suoi posteri diletti, per salire un po’ più in alto e poter respirare finalmente su quel ramo insieme a lui, da uomini liberi, mentre ascoltiamo beati la dolce melodia della Verità.