Reduce del Don, ha fatto 42 mesi nei campi di concentramento di Tombov, Oranki e Suzdal. La sua vita in un film
Ogni sera, prima di andare a dormire, Giuseppe Bassi beve due dita di grappa e ai i pasti un buon bicchiere di vino. Un piacere che, nel suo caso, suona come un rituale di ringraziamento. «A salvarmi la vita durante la marcia di ripiegamento dalla linea del Don è stato il cognac. Senza quella botticina trovata da un artigliere non ce l’avrei fatta a sopportare fame e freddo». Russia, anno 1943. Bassi è sottotenente di complemento del 120° reggimento Artiglieria Motorizzata della divisione Celere partito, volontario, per il fronte orientale contro l’Unione Sovietica. Oggi ha 101 anni, portati magnificamente. Ad aprirci la porta di casa sua — una luminosa villa invasa dal bianco e immersa nella campagna di Villanova di Camposanpiero (Pd) — è infatti lui stesso, seguito dalla badante. Sul pavimento ai piedi del divano dove si accomoda con agilità (e si rialza poco dopo per salutare l’arrivo della figlia), ci sono i giochi della nipotina Benedetta che, di anni, ne ha 100 di meno. Un secolo esatto li divide.
Classe 1919
Bassi, classe 1919, è nato quando l’Italia era ancora una monarchia, il presidente del consiglio Vittorio Emanuele Orlando, Antonio Gramsci doveva ancora fondare il Pci e D’Annunzio non aveva ancora concepito l’impresa di Fiume. Soprattutto, è uno dei pochi sopravvissuti alla campagna di Russia e ai suoi campi di concentramento dai quali tornò appena il 14% dei soldati italiani. «In prigionia ci sono rimasto dal 24 dicembre 1942 al 7 luglio 1946: 42 mesi nei lager di Tambov, Oranki e Suzdal tornando in Italia un anno e mezzo dopo la fine della guerra. Colpa dei comunisti italiani: Robotti, che faceva propaganda comunista mascherata da “antifascista” nei lager, e Togliatti, al quale conveniva ritardare il nostro rientro in Italia. Saremmo state tutte voci contrarie al regime». I morti nei campi di concentramento erano così tanti che nel maggio del ’43 arrivò l’ordine di «non morire». Il numero di cadaveri era enorme e giustificarlo era diventato un problema. Epidemie di tifo, pellagra, polmoniti, cancrene da congelamento… «La mattina ti svegliavi e non sapevi chi era rimasto vivo. Io, però, non mi sono mai ammalato — continua Bassi —. Il mio segreto? Muovermi sempre, tanto che mi offrivo volontario per andare a prendere il pane e il chai, il tè russo, da distribuire ai compagni. Durante la ritirata, invece, ho salvato la vita a un amico prendendolo a calci. Non riusciva più a rialzarsi, tanto era esausto. Centomila soldati non tornarono. Fermarsi era uguale a morire, ammazzato dai russi o dal freddo. No, io dovevo vivere per tornare e raccontare».
Classe 1919
Bassi, classe 1919, è nato quando l’Italia era ancora una monarchia, il presidente del consiglio Vittorio Emanuele Orlando, Antonio Gramsci doveva ancora fondare il Pci e D’Annunzio non aveva ancora concepito l’impresa di Fiume. Soprattutto, è uno dei pochi sopravvissuti alla campagna di Russia e ai suoi campi di concentramento dai quali tornò appena il 14% dei soldati italiani. «In prigionia ci sono rimasto dal 24 dicembre 1942 al 7 luglio 1946: 42 mesi nei lager di Tambov, Oranki e Suzdal tornando in Italia un anno e mezzo dopo la fine della guerra. Colpa dei comunisti italiani: Robotti, che faceva propaganda comunista mascherata da “antifascista” nei lager, e Togliatti, al quale conveniva ritardare il nostro rientro in Italia. Saremmo state tutte voci contrarie al regime». I morti nei campi di concentramento erano così tanti che nel maggio del ’43 arrivò l’ordine di «non morire». Il numero di cadaveri era enorme e giustificarlo era diventato un problema. Epidemie di tifo, pellagra, polmoniti, cancrene da congelamento… «La mattina ti svegliavi e non sapevi chi era rimasto vivo. Io, però, non mi sono mai ammalato — continua Bassi —. Il mio segreto? Muovermi sempre, tanto che mi offrivo volontario per andare a prendere il pane e il chai, il tè russo, da distribuire ai compagni. Durante la ritirata, invece, ho salvato la vita a un amico prendendolo a calci. Non riusciva più a rialzarsi, tanto era esausto. Centomila soldati non tornarono. Fermarsi era uguale a morire, ammazzato dai russi o dal freddo. No, io dovevo vivere per tornare e raccontare».
Il dovere di vivere per poter raccontare
E di raccontare, con lucidità e dovizia di particolari che non sembrano scalfire la sorprendente allegria, Bassi sembra non stancarsi mai. Con il sorriso sul volto ricorda quando, partito per il fronte con l’incoscienza giovanile di chi vuole «scoprire nuovi Paesi», muore, accanto a lui, il suo artigliere con la gola trafitta da una pallottola. «Uno shock. Quella era la morte vera...». O di come, catturato ad Arbusowka, affronta la «valle della morte»: 300 chilometri a piedi — le notti all’addiaccio e nei capannoni dei kolchoz dal tetto scoperto — con trenta gradi sotto zero e, al mattino, «i corpi dei compagni stecchiti sulla neve», irrigiditi dal gelo. «I disperati del Don… Una lunga serpe umana mossa dal grido delle truppe russe “Davai, davai, bistrej! Avanti, avanti, presto!» — ricorda — Neve, neve e solo neve, da mangiare e calpestare. E la fame come l’aria».
Il campo di Tombov, la creatività dei prigionieri e l’amico Heinz
Italiani, tedeschi e rumeni vengono ammassati nel Campo n. 188 di Tambov, quasi completamente sotterraneo, in bunker profondi due metri senza illuminazione né ventilazione. «In quelle condizioni ricreare un simulacro di civiltà è vitale. E i rumeni in questo erano bravissimi», continua Bassi alzandosi dal divano per poi tornare subito dopo con uno spazzolino da denti, una spazzola e una pipa, costruiti con il legno di ciliegio del bosco di Tambov e i crini dei cavalli, «finché sono rimasti tutti senza coda!». Ride. E già si riallontana per prendere l’album di foto scattate nel lager dall’amico tedesco Heinz Neffgen. «Aveva nascosto la macchina fotografica nell’incavo della gamba di legno. È un documento preziosissimo, e me lo ha regalato. Stavamo sempre insieme, tanto che quando c’è stata la rottura dell’alleanza con i tedeschi il comandante, stupido, mi diceva: “Bassi, non si vergogna di andare con un ufficiale nemico?”. E io: “Ma non vede che siamo tutti uguali? Tutti prigionieri!” E poi i sentimenti, quelli veri, non cambiano. Dopo la guerra abbiamo continuato a frequentarci… Era innamorato di Jesolo e del Lago Maggiore; mia figlia Alberta è stata da lui, vicino a Bonn, e oggi insegna tedesco alla scuola media di Maser».I disegni dei lager realizzati a memoria e l’orologio nascosto
Giuseppe è un fiume di parole. La sua memoria, eccezionale: tornato dai lager, gli ha permesso di ricostruire in disegni straordinari per tratto e precisione i luoghi di prigionia schizzati su cartine di sigarette, sottrattagli ogni volta che veniva eseguita una perquisizione e puntualmente rieseguiti. I suoi disegni, oggi al piccolo museo dedicato ai prigionieri italiani a Suzdal, hanno permesso di ritrovare alcune fosse comuni nelle quali erano stati sepolti i prigionieri dell’Armir. «Sono geometra, il disegno è la mia passione. Come gli orologi, del resto. Nei lager per tutti ero “Bassil’ora” perché ero il solo a essere riuscito a nascondere nelle scarpe un orologio e i compagni mi chiedevano sempre l’ora». Dalla sua storia, l’anno scorso è nato il film documentario Bassil’ora, di Rebecca Basso, da lui stesso interpretato. Eccolo, l’orologio, appeso al muro e non lontano da un ferro di cavallo della carica di Isbuscenskij trovato da Bassi nella steppa. «Dopo aver segnato 30.996 ore di fame, di freddo, di morte e di abbandono si è fermato», recita la scritta apposta da Bassi nella cornice. Lui la legge, senza occhiali. A 101 anni, portati magnificamente.
1 marzo 2020 (modifica il 1 marzo 2020 | 17:48)