Se gli amici si vedono nel momento del bisogno, mai come in una situazione-limite come la guerra i cani si sono dimostrati fedeli compagni dell’uomo. I ruoli in cui vennero impiegati nell’’Esercito italiano furono i più vari: soccorritori, guardiani, esploratori, messaggeri, guide, robusti trasportatori di materiali, impavidi di fronte agli scoppi e alle esplosioni. Nelle nostre Forze armate questi animali posero al servizio del soldato le loro migliori capacità, a differenza di altri eserciti che se ne servirono, talvolta, per missioni suicide. E’ pur vero che, fin dall’antichità classica, Greci e Romani avevano impiegato i cani durante le battaglie, anche per lanciare materiali incendiari contro i nemici, ma fu nel Rinascimento che questi animali iniziarono a comparire in modo organico e stabile nelle milizie. Dal 1800, in poi, il cane cominciò a essere messo alla prova in sempre nuovi addestramenti e impiegato sul campo tanto da meritare la prima medaglia. Si chiamava “Moustache” il mastino francese che, durante la battaglia di Austerlitz fu decorato perché aveva contribuito ad evitare che la bandiera del suo reggimento cadesse in mano nemica.
Fra i due conflitti, il programma sui cani da guerra conobbe un ulteriore sviluppo. Alla fine degli anni ’30 esisteva un Centro militare apposito presso l’XI Corpo d’Armata di Udine. Qui si selezionavano e addestravano con grande cura solamente pastori tedeschi, destinandoli soprattutto al collegamento, alla guida e al trasporto di ordini, divisi rigorosamente per il tipo di impiego. Aumentarono anche i requisiti per il personale addetto, che doveva essere “volontario e volonteroso, di buon carattere, senza precedenti politici o penali, alfabetizzato e unicamente dedito alla cura del cane”. Per le bestie furono ideati anche specifici ricoveri antigas, essendo poco pratico provvedere ad apposite maschere. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, l’uso di questi animali fu più limitato rispetto al precedente conflitto, anche grazie allo sviluppo dei mezzi di trasmissione. Furono, però, esplicitamente richiesti, nel 1940, sulla frontiera egiziana, dalle piazzaforti di Tobruk e Bardia: si rivelarono fondamentali come porta ordini, quando i telefoni venivano distrutti dal fuoco nemico, o quando le sabbie, sollevate dal ghibli, rendevano impossibile l’uso di mezzi ottici.
Dal deserto alla neve: la funzione dei cani come trasportatori di viveri, munizioni, feriti, sopravvisse al fianco dei reparti di Alpini sciatori che, legandosi alle slitte, oltre a guidarli ne venivano anche trasportati. Il pastore tedesco, già ampiamente selezionato e addestrato in Germania presso la scuola di Kummersdorf, ad uso dell’esercito e della polizia germanici, si era imposto non solo in Italia come razza più affidabile per questi impieghi, ma perfino in Giappone dove la fanteria li utilizzava per i collegamenti. Durante il secondo confitto mondiale, i cani furono, tuttavia, utilizzati anche in modo cruento dall’esercito sovietico. Il generale Ivan Panfilov fu l’ideatore dei cosiddetti cani-mina. Si trattava di animali addestrati a cercare il cibo sotto i carri armati; venivano poi dotati di un ordigno anticarro e, dopo un adeguato periodo di digiuno, lanciati contro i mezzi corazzati nemici. Il percussore della mina, costituito da una asta rivolta verso l’alto, quando urtava contro il fondo del carro nemico esplodeva, sacrificando l’animale e distruggendo il mezzo. Il cane-mina, tuttavia, si rivelò un vero boomerang per i russi, sia perché il morale dei soldati ne risentiva, al vedere costretta l’Armata rossa a simili espedienti, sia perché, a volte, le povere bestie non facevano troppe distinzioni di nazionalità e si infilavano anche sotto i carri armati sovietici. Vi fu un caso in cui un’intera divisione russa fu costretta a ritirarsi a causa di questo involontario “ammutinamento” dei cani-mina.